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Se un poeta sa cos'è l'acciaio

di Giampiero Mughini
Paese Sera, 1 giugno 1978

 

«Caro Sinisgalli, ho vissuto tra gli uomini e tra le macchine: tra i fabbricatori e i conduttori di macchine. Ho calcolato e disegnato macchine: ho collaudato e messo in marcia delle macchine. Ho visitato circa duemila tra cantieri, impianti, stabilimenti, stazioni, officine: In Italia, nel Sud-America, nelle regioni più industri d'Europa. E' "statisticamente" probabile che della civiltà meccanica cioè macchinatrice abbia avuto a pensare qualche cosa». 1953, or è un quarto di secolo, Carlo Emilio Gadda. «l'ingegnere de letteratura», risponde fra i primi alle sollecitazioni di Leonardo Sinisgalli, recentissimo fondatore di una rivista inconsueta, Civiltà delle macchine.
Copertine da Burri e da Klein, un parco foto appositamente commissionato a Patellani, poesia e tecnologia coese da un'unica vorace sensibilità. Enzo Paci e Alberto Moravia, il design e il surrealismo, i congegni dell'industria siderurgica e i quadri del giovane Perilli, brani da Luciano Folgore e Lewis Mumford, collaborano Franco Fortini e Bruno de Finetti, ma anche Giulio Carlo Argan e il giovane studente Paolo Portoghesi. C'è una foto di Giacomo Balla del 1918, mentre impugna un bastone, ovviamente da lui disegnato, in anticipo di alcuni anni sulle soluzioni della Bauhaus. E difatti Walter Gropius, cui la rivista viene inviata, risponde: «Mi ha in cantato». E Giuseppe Prezzolini, della Columbia University: «Sono gratissimo». La BBC inglese le dedica una trasmissione di quindici minuti. E' uno dei pochi bastioni da cui si guarda all'Europa industriale in un'Italia ancora sommersa dalle retoriche umaniste e populiste.
Chi è il fabbro di tanta opera? Leonardo Sinisgalli, adesso settantenne, di cui un altro meridionale, Corrado Alvaro, aveva scritto: «Un poeta che insegna la civiltà ai milanesi». E' appena uscito il suo ultimo libro. Dimenticatoio.
Nato a Benevento, studente liceale con una fortissima vocazione per la matematica, Sinisgalli viene a Roma nel 1926 a laurearsi in ingegneria elettronica. A poche centinaia di metri dalla pensione dove alloggia c'è la «scuola romana» di via Cavour, Mafai e Scipione (sul quale scriverà pagine prodigiose nel Furor mathematicus del 1950). C'è anche la scuola di Enrico Fermi, a via Panisperna, un ulteriore polo di attrazione, ma Sinisgalli dice no preferisce la poesia. Gli commissionano quella che sarebbe stata la prima monografia su Morandi, ma non ha tempo e trasferisce l'onere ad Arnaldo Beccaria, suo amico fraterno («Arnaldo scrisse tre cartelle, ne ebbe due oli e 23 disegni, tre cartelle ben pagate»). Poesia, matematica, pittura sono già in Sinisgalli un assieme unico, percorso e dominato senza cesure di continuità.
A queste tre muse ne va aggiunta una quarta, l'architettura, l'incontro con Edoardo Persico a Milano. Ancora dal Furor mathematicus: «Non voglio far la storia dei "clans" milanesi, i piccoli covi della sinistra intellettuale che si adunavano sempre al di qua di via Solferino e preferivano a Bagutta le osterie del Verziere e del Bottonuto. Di quella sinistra Persico è stato, fino alla morte, l'animatore. Persico che a noi emigranti offri asilo e aiuto, ma soprattutto la speranza di poter lassù mettere alla prova qualcosa che avesse più valore della nostra intelligenza, non la pigra capacità di scrivere una buona pagina, ma la attiva e affettuosa collaborazione con gli uomini: tipografi, vetrai, disegnatori, architetti, industriali».
A Milano, in via Clerici, nel 1937, Sinisgalli ha un appuntamento con Adriano Olivetti. Gli porta il Quaderno di geometria. Olivetti ne legge le prime righe («L’inverno ci stringe d'assedio nella nostra solitudine. Il corpo è aspro e pulito: l’aria di certi giorni tersa più detta falce. Nelle nostre stanze il fuoco ha questo crepitio continuo, questo attizzarsi, questo mangiarsi il proprio cuore insaziabilmente»). Capo dell'ufficio tecnico di pubblicità della Olivetti, Sinisgalli è assunto sul colpo. E’ il primo incontro ufficiale tra poesia e industria, quasi Rimbaud e Galileo fossero venuti a patti, lì dove si crea la ricchezza, dove si vince la fame antica dell'uomo. Un poeta che «sa cos’è l’acciaio» si mette a divulgare le forme e le possibilità delle macchine che dovranno estendere l'imperio dell'uomo sulla natura.
Da questa intuizione e da questa esperienza, largamente inedite nella nostra storia culturale, nascerà quindici anni dopo la formula di Civiltà delle macchine. In mezzo c'è stato il lavoro alla Olivetti (sino alla vigilia della seconda guerra mondiale), la direzione della rivista Pirelli, un documentario sulla geometria proiettato a Venezia lo stesso giorno de La terra trema, l'incontro con Giuseppe Luraghi. Quest'ultimo, fra i managers più intelligenti della nostra industria pubblica (leggere il suo Capt si diventa), crede anch'egli nella necessità di un incontro tra cultura e industria. Piano Senigaglia, apertura delle frontiere commerciali, rianimazione della società civile dopo il nano Civiltà delle macchine, figureranno tutte nel retrocopertina.
Sinisgalli fa da sé, misura piombi, inventa titoli. Il primo numero gli sembra tipograficamente raccapricciante, ma conta di migliorare i successivi. L'importante è fare, agire di mano e di intelletto, attrezzare la casa e la città dell'uomo, i versi di Rimbaud e le armonie dei cristalli, le invenzioni dei surrealisti ma anche la bellezza e la ragione interna di un motore o di una carrozzeria. Che metafora stupenda è la geometria, aveva scritto Sinisgalli. Le Corbusier, quando venne a Roma, «dimostrò un entusiasmo spiegabilissimo per i boccali di vetro delle osterie». Oppure questo ritratto di Nizzoli, il compagno di Persico, autore di alcuni dei più bei design Olivetti: «un artigiano degno della nostra vera tradizione, piccolo, tarchiato, con le mani sporche ma con un’intelligenza penetrantissima». E’ assieme una concezione del mondo, una poetica, un sommario enciclopedico. Sinisgalli sbotta: «Arbasino dice che dovevamo andare a Chiasso? Ma ci va da lui a Chiasso, noi eravamo andati anche più lontano a cercare autori ed esperienze del mondo industriale».
E la politica, la nostra storia, i conflitti delle classi, quell'Italia aspramente lacerata? Non chiedetene a Sinisgalli, che finge sdegnare la politica. Ma su Civiltà delle macchine troverete i commenti di Pasquale Saraceno allo «Schema Vanoni», la idea del progresso industriale come alimento della democrazia, sua condizione: insomma i temi di cui stiamo discutendo in questi mesi. Quella di Saraceno, Luraghi, Sinisgalli è rimasta un'utopia? Il discorso si allungherebbe e comunque non dimentichiamo quel che c'era a fianco o contro Civiltà delle macchine, l'alterigia clericale, la provincia culturale, una sinistra che tardò a capire lo sviluppo in atto, il suo passo convulso, la nuova nervatura, che ne veniva alla lotta politica. Smettessimo di recitare banalità sul «trentennio democristiano», cominciassimo a capire cosa è successo nel primo quindicennio della repubblica, come ne è stata innovata l'Italia, per opera sacrificio intelligenza di chi, indeboliremmo probabilmente le radici lontane di quella ideologia antindustrialista nella quale anche sono stati coltivati i delitti «culturali» delle Brigate rosse.
Nel 1958 Sinisgalli abbandona la direzione di Civiltà delle macchine. Enrico Mattei lo ha chiamato a dirigere l'ufficio di pubblicità dell'Eni. Un nuovo sponsor Sinisgalli lo troverà nel 1964, un'industria di mobili che gli permette otto numeri di una rivista deliziosa, La botte e il violino. Un ciclo si è così compiuto. Ne stiamo discutendo con Sinisgalli da ore, davanti alla finestra che mira la volta del cielo, ai monti Parioli. L'ultima mossa di fioretto di questo poeta che la messo in versi il dolore e l'acciaio tocca Pier Paolo Pasolini: «No, non sono d' accordo con il suo antindustrialismo, con la sua nostalgia delle "lucciole". Dobbiamo penare e piangere, ma lo sviluppo industriale è il nostro destino. In questo inferno io voglio morire».

01 Giugno 1978

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