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Un coltellino per le pere

La sera delle nozze di mia nipote Anna a Matera, quando noi parenti intimi tornammo a casa di mia sorella Enza, che da anni ha abitato dietro la piazza, il discorso venne a cadere su alcune circostanze che mi erano sempre state taciute intorno alla morte di mio padre.
C’era stato al mattino un banchetto al Jolly, una sessantina di coperti, quattro bicchieri per invitato, e un menu che la sposa aveva voluto diverso dalla tradizione locale. Niente fette di pane casalingo, il pane dorato fatto col grano dalle spighe d’oro che stanno in rilievo sulle monete metapontine, ma rosette chiare e minute; niente vini forti del Vulture ma bottiglie di vini veneti che nessuno aveva mai fatto disseppellire dalle cantine dell’albergo; bando anche alle braciole e al ragù. Vennero serviti invece tortellini con la panna e tornedò.
Mia sorella ci preparò la sera un pugno di riso cotto, condito con olio crudo, e poi sedani e scamorze di Altamura. Era rimasta vedova da molti anni, quando si erano da poco trasferiti in quella casa che suo marito aveva fatto appena in tempo, prima di morire, a farsi assegnare dalla Cooperativa. Le tre figlie le aveva allevate da sola: la più grande Anna, che s’era sposata quella mattina, seguì la madre al funerale, le due più piccole, Carmela e Antonietta, si affacciarono a vedere dal balcone il carro e i cavalli e il piccolo corteo, strette tra le braccia della zia Felice, sorella del padre.
Enza era la più piccola delle mie quattro sorelle. Non so se fosse già stata svezzata quando mio padre partì. La carrozza stette ferma un bel pezzo davanti casa. Mio padre trovò la forza di staccarsi dal petto di mia madre che dovette deporre l’ultima figlia nella culla per poterlo stringere a lungo serrando la bocca su una spalla di lui, un poco più basso di lei. Noi altri quattro ci eravamo portati tutti dietro la sua gonna, aggrappati coi pugni, quasi che nello schianto la mamma potesse venire trascinata via. Non credo che mia madre abbia fatto cadere una sola lacrima. Enza era appena uscita dalle fasce quando cominciò la storia della nostra infanzia intorno a mia madre. Lei il marito lo aveva veramente perduto, e non so se la sua condizione di vedova ancora giovane sia stata più dolorosa della sorte di mia madre che vide ogni giorno crescere la distanza tra lei e suo marito e non seppe che all’ultimo, quando la distanza era diventata immensa, ch’egli sarebbe ritornato. Ma si sentiva distrutta. Enza ebbe un pensiero solo dopo la morte di Ciccillo: le figlie. I morti stanno in cielo, si dice, e non hanno più bisogno di noi. Ma mio padre, vivo chi sa dove, perché non si sapeva neppure immaginarlo tra mosquitos e caimani, tra negri e meticci sotto le palme, portava via ogni giorno a mia madre metà della sua energia.
Dopo la festa del mattino, e partiti gli sposi nel pomeriggio, le altre due nipoti coi loro fidanzati ci portarono in macchina sulle colline scure dei dintorni, tra le rocce che cingono il letto tortuoso della Gravina ancora arida al principio della primavera. Un bambinello preparato da un prete che faceva il corso di religione in un semiconvitto dove braccianti e operai portavano i figli prima di andare al lavoro, ci fece da guida autorizzata. Si mise una fascia intorno al braccio, un berrettino con visiera lucida e uno stemma in petto – un asino mi pare, che si avvicina a una grondaia, alza la testa, tira fuori la lingua per abbeverarsi –, poi si fece dare dall’insegnante un cane lupo che, uno alla  volta, ci avrebbe aiutati a raggiungere le cappelle nascoste tra i dirupi. Qualcuno rinunciò all’esplorazione, andò al cinema, e portò come scusa le scarpe disadatte a far presa sui sassi.
La guida parlò di monaci scappati dall’Oriente che si erano rifugiati in quei nascondigli. Trovarono buona accoglienza tra gli indigeni al punto da decidersi a spartire in comunione la loro fede in cambio di un po’ di elemosina. Più di cento cappelline erano tante, ma i monaci seppero via via adoperarsi per mutare la sorte delle terre secche dell’altipiano. Suggerirono sbancamenti condotti con immenso zelo e terribili sacrifici. Furono anche favoriti da una serie di sismi che in un certo anno ricordato come miracoloso nelle storie locali, il 1616, mostrarono come la provvidenza non fosse insensibile al destino della povera gente. Il bambinello faceva notare che nei dipinti e nelle sculture non figurava quasi mai l’effigie di Gesù, che si teneva in disparte di fronte alla maestà di sua madre. Ci disse anche, poco prima di congedarsi, che la preghiera ancora più sentita dal popolo è il Salve Regina, e ci spronò, irridendoci, a ripeterla con lui.
Gli uomini nelle nostre famiglie godono di poteri minimi in confronto alle madri. Mia madre diceva per lettera quando ero fuori dal nido, lontano dalle sue ire e dalle sue lune atroci, ch’ero la pupilla dei suoi occhi, ma finché non ebbi varcato i tredici anni mi faceva volare a calci contro lo spigolo di una madia fino a farmi saltare gli incisivi. Dopo la morte di mia madre, il 16 settembre 1943, e la fuga dell’unica mia sorella nubile che avrebbe potuto accudire mio padre, era rimasto in casa mio fratello Vincenzo che aveva finito gli studi liceali e scalpitava per andarsene andarsene via. Mio padre non sopportava, stando seduto al focolare, di trovarsi di fronte il marito di mia sorella Annina, Mincuccio, suo coetaneo, e si irritava di vederlo soffiare sui tizzi, o spezzare la brace, o buttare il mozzicone di sigaro dentro la fiamma. Tanto che dopo qualche anno di impossibile coabitazione mia sorella andò raminga da una casa all’altra, poi finì nel casone di Zio Giacinto.
Mio padre allora chiedeva soccorso a Enza che arrivava con le figlie ancora piccole: Anna con un ombrellino in mano, un cappello di paglia in testa e un fiocco di seta intorno alla vita girava come una diva lungo le cunette del paese; Carmelina entrava e usciva dalla camera sulla loggia, apriva i rubinetti, sciacquava gli orinali, faceva pipì e pupù in tutti gli angoli. Antonietta non era ancora nata. Io tornavo a casa di rado dopo la morte di mia madre. Mio padre si sfogava tra colpi di tosse asinina. Aveva i peli bianchi, radi sul cranio, la carnagione chiara, il naso un po’ schiacciato. Mia madre aveva la pelle olivastra, le labbra strette, la fronte solcata di rughe, i capelli grigi folti e lucidi, la punta del naso in su. «È il ritratto della comare defunta» dicevano le visitatrici che venivano a farsi consigliare da mio padre, quando mi vedevano accanto a lui. Se non ci fossero state quelle povere donne a dargli modo di parlare mio padre si sarebbe spento ululando. «Tua madre non doveva morire prima di me, e non doveva morire la tua sorellina Sara che avevamo attesa con trepidazione dopo la nascita di Vincenzo.»
«Monsignor delle Nocche» continuava «non doveva portarci via Suor Crocifissa. Andai io stesso a Tricarico, mi feci aiutare da Don Pietro Mazzilli, il suo segretario che è stato tuo compagno di scuola. Don Pietro per amor tuo cercò di piegare il Vescovo che rimase inflessibile.» «Non possiamorinunciare a una vocazione così certa, ci metteremmo contro i voleri dello Spirito Santo» dicevano i monsignori.
Anche mia madre e Zia Gerolomina e le altre zelatrici,Donna Rita, Donna Vittoria, tentarono a un certo punto di suggerire una formula di compromesso: Angela avrebbe fatto la suora in famiglia finché restavano in vita i genitori, poi sarebbe stata libera di ritirarsi in convento con la sua dote e la sua parte di eredità.
La sera del matrimonio di sua figlia Enza tagliava la scorza di una pera con un coltellino: un gesto che era familiare a mio padre che stava in mezzo ai contadini quando facevano merenda alle dieci in campagna. Sull’erba o sotto il pagliaio si raccoglievano intorno a una grande scodella di legno: soffritto o spezzatino, trippa o baccalà. Ognuno ha il suo piatto e la sua forchetta. Tagliano con i loro coltelli grosse fette di pane dalle pagnotte di tre chili. La fiaschetta di vino passa da una mano all’altra, tutti bevono a garganella. Il coltello è l’arnese che il vignaiuolo esibisce compiaciuto. Mio padre anche a tavola tirava fuori il suo coltello-officina fornito di lame, di giravite, di punteruolo, di forbici.
Quando Annina si trasferì con la sua famiglia nella casa di Zio Giacinto riuscì a convincere mio padre di andare con lei. Mio padre accettò come estremo rimedio quella soluzione. Si muoveva a fatica, trascinava le gambe e i piedi. I nipoti lo sollevarono in tre sulle braccia. Ebbe una camera che dava sul vicolo, e Polita, una massara amica dei nonni che aveva la porta di casa davanti alla finestra di quello sgabuzzino, fu la prima a raccontare che da quando era sceso laggiù tutte le notti senza un momento di requie mio padre non faceva che singhiozzare. Tanto che dopo una settimana mia sorella decise di riportarlo di nuovo a casa nostra, dove lei andava a dargli da mangiare, tornava ad aggiustarlo sulla poltrona, infine lo coricava.
Noi eravamo tutti via. Vincenzo l’avevo chiamato a Roma: “Non può rimanere qui: mette i fungi” mi scrisse mio padre.
Quando morì dopo qualche mese c’erano tutte le sorelle sorelle che Annina aveva avvertito. Io e Vincenzo arrivammo tardi a raccogliere gli ultimi rantoli. Suor Crocifissa stava inginocchiata a fianco del letto. Annina con l’aiuto delle donne del vicinato, Papussa, Cicatella, Pilirossa, provvide a vestirlo. Ci curvammo a baciarlo, la fronte era fredda. Le mosche cadevano sparse sulla faccia, ma subito saltavano via.
Mio fratello rimase qualche giorno ad attendere le visite. Era estate e ne approfittammo per conoscere le coste vicine del mar Ionio e i paesi del Cilento che stavano lì dietro.

29 Aprile 2022

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