Furor mathematicus
Riportiamo il capitolo Furor mathematicus ripreso dal volume Furor mathematicus, a cura di Gian Italo Bischi, Mondadori 2019, pp.37-39
Quando l’intelligenza ti si scopre in fronte sull’arco delle sopracciglia o nello splendore della cornea sono anni fulgidi e il ragazzo ha la criniera folta dei cavalli giovani. Allora si prova gusto a dire agli amici al caffè una frase che t’è venuta guardando una fotografia:
NON VI PARE CHE NEI CRISTALLI
LA NATURA SI ESPRIMA IN VERSI?
Tutto il giorno il ragazzo s’era divertito a pensare ai solidi, ai liquidi, ai gas, all’impenetrabilità dei corpi, ai vasi comunicanti; poi s’era domandato:
MA I SOGNI
DI CHE SOSTANZA SONO I SOGNI?
I SOGNI SONO SEGNI
OH! I SOGNI SONO A LAPIS.
La poesia non ci aveva mortificati e non ancora eravamo sicuri di sentirci vivi solo scrivendo per i morti. Anche i nostri versi erano delle corse in bicicletta. In verità eravamo tranquilli ed elastici, potevamo stare in equilibrio senza sforzo sulla corda tesa e sulla corda molle, come ha spiegato Vincenzo Brunacci, un matematico dell’800, nelle sue Operette dedicate agli allievi dell’Università di Pavia...
ERAVAMO PIAU' LEGGERI
PERCHE'
CI PIACEVA CORRERE!
Dopo ci è riuscito difficile far le solite flessioni sul letto appena alzati, abbiamo preso a odiare la ginnastica e le terzine, abbiamo salvato qualche parola che in gioventù ci avrebbe fatto inorridire
... l’inverno, la poca vista,
il primo gelo che riflette
i fuochi delle sigarette
sulla pista...
Un’applicazione del Teorema di Guldino m’interessava molto più che un Sonetto di monsignor Della Casa o un epitaffio di Gongora. Che cosa è accaduto – mi domandava l’altra sera un mio amico del Seminario di Matematica – perché ti allontanassi tanto da quelle verità che ti facevano le orecchie bianche dall’emozione, nell’aula di San Pietro in Vincoli? Che cosa è veramente accaduto non so. Posso dire di aver conosciuto giorni di estasi tra gli anni 15 e gli anni 20 della mia vita, per virtù delle matematiche, e quando mi capita di poter ricordare quei giorni, quelle semplici immagini, quelle costruzioni di modelli impenetrabili alla malinconia, alle lacrime, alle debolezze del sesso e del cuore, un incanto inesprimibile, una pena soave, una musica accorata mi quieta tutte le voglie e io grido, all’amico che non mi riconosce più:
QUELLA ERA L'INTELLIGENZA
QUELLE ERANO LE SFERE!
Ero al primo anno di Università e, come i discepoli di Pitagora, ero entrato nella cittadella del sublime pieno di orrore per l’odore delle fave. Mi riuscì facile convincermi dei primi dogmi: che tutti i cerchi disegnati sopra un piano toccano l’infinito in due punti e che la circonferenza pur essendo un contorno chiuso, e senza un’inclinazione preminente, si agita intorno a due poli ortogonali con tendenza a rompersi e a formare quattro archi eguali. Avevo capito anche alcune fondamentali proprietà degli aggregati numerici. Ma proprio allora un amico volle condurmi la prima volta in una casa di piacere sita nel nostro quartiere che faceva centro nella piazzetta di Madonna dei Monti. Egli mi parlava di delizie oscure, mi disse una domenica di salire senz’altro, e in una squallida stanza trovai la donna grassa e rossa che doveva iniziarmi ad un mistero diverso da quello di Cartesio, di Leibniz, di Gauss... Io cominciai a cercarla quasi tutti i giorni la donna superba dalla magnifica mascella equina. Quel gonfio bipede non si muoveva mai dal suo pollaio in Via delle Frasche.
Tutta la mia malinconia repressa, soffocata dalle squadre e dai compassi, dal calcolo degli infinitesimi, dalla ridda delle funzioni iperboliche, dalla teoria delle curve di secondo grado, dalla spirale logaritmica e dalla lemniscata di Bernoulli, dalle cuspidi, dai flessi, dai massimi e minimi, dalla voce di Fantappié, di Severi, di Levi-Civita, tornava a galla su quel letto squallido, tra le ali di quella fantastica gallina curcia. Quando mi presentai agli esami, io, l’eletto, tra la sorpresa dei compagni e delle compagne, dei professori e degli assistenti, dei bidelli e degli uditori dimostrai di avere la testa confusa, la testa di una bestia.
Uscii sconvolto dall’aula. Corsi in casa dell’amico che mi aveva, la prima volta, aperto la porta dell’errore: l’avrei ucciso con una forbicetta che mi ero portato in città, una forbice d’oro. Ma l’amico era sparito e non sapevo più che piangere se
LA SUA AMICIZIA
O
LA MIA VOCAZlONE
PERDUTE PER SEMPRE.
Roma, Albergo Colonna 1942
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