Panoroma dell'architettura europea
di Leonardo Sinisgalli
in Il giornale di politica e di letteratura
A.XIII, fasc.V-VI (mag-giu 1937)
E' molto allusiva quell'esclamazione di Berenson, notata da Emilio Cecchi a proposito dei grattacieli di Manatthan: sembrano le torri di San Gemignano! Interpretata nel giusto senso la frase del più celebre critico d'arte d'Europa non va certamente a scapito di quel paesaggio di New York che Dos Passos, in uno dei suoi libri, paragona invece a delle cattedrali di ghiaccio alzate dagli uomini nuovi al loro dio, armato di compasso, di filo a piombo e di sestante. Qualcuno potrebbe subito scorgere nell'immagine del romanziere americano il dio protestante, legislatore ironico e severissimo giudice, per il quale non valgono le intercessioni dei santi. Certo si capisce abbastanza chiara mente perchè i cattolici abbiano guardato con diffidenza alla nuova architettura. Noi non siamo di quelli che rinnegano il Partenone o l'Eretteo per Santa Maria del Fiore, la Piazza dei miracoli di Pisa e le cattedrali gotiche. I Greci costruivano con le loro architetture delle porte al Mediterraneo per lo sbarco delle loro divinità marine, cosi felici e così distratte, e pensavano di costruire con le loro colonne delle ossature più resistenti e perfette del torso di Alcibiade.
Le Corbusier, parlando un giorno con noi, era d'accordo nel ritenere i cavalli di Prassitele e l'obelisco di piazza del Quirinale come un monumento al sole, forse un monumento agli uccelli. Questo, si dice per scalzare a prima vista l'accusa di eresia che si fa a tutta l'arte moderna in blocco, anche perchè a proposito della nuova architettura si è fatto spesso richiamo a uno spirito, comunque luterano o calvinista, che ne sostiene le fondamenta.
Dopo il barocco, le muse furono ricacciate sul Colle di Elicona. Si è dato colpa alla scienza, si è dato colpa all'economia, si è dato col pa al progresso. I fisici e gli enciclopedisti dovrebbero essere stati i nuovi inquisitori armati di frusta ai danni dell'arte: proprio questi ultimi che definirono i rapporti dell'arte con la società e portarono al la creazione di quello spirito borghese, sul quale il romanticismo do veva mettere le sue radici.
Ma come reagirono gli artisti all'idea del progresso? «Nella prima metà dell'ottocento, dice Valery, l'artista scopre e definisce il suo contrario, il borghese. Il borghese è la figura simmetrica del romantico. Allora gli si impongono delle proprietà contraddittorie: lo si fa schiavo dell'abitudine e lo si prende come assurdo settario del progresso. Il borghese ama ciò che è stabile e crede intanto al perfezionamento. Egli incarna il senso comune, l'attaccamento alla realtà più sensibile ma ha fede in un miglioramento crescente e quasi fatale delle sue condizioni di vita. L'artista si riserva così il dominio dei sogni. «Che cosa è poi avvenuto? Che il tempo si è divertito a fare una gran confusione delle due nozioni così esattamente opposte». Il meraviglioso e il positivo hanno fatto lega e questi due nemici si sono congiunti per stringere le nostre esistenze in una successione di sorprese indefinite. Gli uomini si sono abituati a considerare ogni conoscenza come contingente, a considerare sempre provvisorio lo stato della loro industria e delle loro relazioni materiali. Questo è veramente nuovo. Il reale non è più definito nettamente. Il luogo, il tempo, la materia ammettono delle libertà di cui prima non si aveva alcun presentimento. Lo stesso calcolo genera dei sogni. I sogni prendono corpo. Il senso comune, mille volte confuso, beffato con delle felici esperienze non è più invocato che dall'ignoranza. Il valore dell'evidenza è diventato irrisorio. Alla certezza che emanava dalla concordia di pareri e di testimonianze, si oppone l'obbiettività, il controllo e l'interpretazione di un piccolo numero di specialisti. Infine quasi tutti i sogni che aveva fatto l'umanità e che figurano nei nostri miti, il volo, la caduta, l'apparizione delle cose assenti, la parola trasportata e staccata dalla sua epoca e dalla sua sorgente, sono usciti fuori dal dominio dell'impossibile. Il favoloso è nel commercio. La produzione delle macchine ha fatto vivere migliaia di individui. E l'artista, si domanda Valery, non deve prendere parte a questa produzione di prodigi? Essi vengono dalla scienza e dal danaro. Il borghese ha messo radice nei fantasmi e ha speculato sulla rovina del senso comune.
Ora per quello che qui particolarmente ci riguarda, dobbiamo affermare che l'architettura d'oggi, più d'ogni altra arte, appare legata al complesso fenomeno della nostra civiltà. La civiltà d'oggi ha imposto all'uomo delle esigenze, ha fornito all'uomo dei mezzi per soddisfarle. Parlando un giorno con Le Corbusier, ci era sembrato di trovarci di fronte a un demiurgo che non voleva affatto esagerare le ragioni dell'intelligenza a scapito dei sensi e che voleva contribuire o creare delle forme di felicità, magari di confort a questa «bête humaine» in cui giorno per giorno crescono i dubbi e le inquietudini. L'architetto è troppo legato al fatto della vita collettiva. Non vuol tradire il borghese, è secondarlo. Tuttavia resta uno dei responsabili più risoluti del gusto nuovo. Chiamato a disegnare l'arredamento di una casa, a creare la vetrina di un bar, la sua responsabilità nei riguardi dell'arte è la stessa, se pure diverso è l'impegno e l'intelligenza, con cui risolve il paesaggio di una piazza e il piano di una città. Il credo della nuova architettura, almeno come lo ripete Adolfo Loos, che è da segnarsi tra i precursori dello spirito nuovo, lo si ritrova in quella frase di Leon Battista Alberti: «Ciò che non è pratico non può essere bello. Un oggetto è bello quando è impossibile toglierne un elemento o aggiungervene un altro senza pregiudicare il valore e la forma». Abbiamo nominato un artista del nostro 400, e aggiungiamo al suo nome quello di Leonardo da Vinci, per richiamare l'attenzione su un'epoca di artigiani, che per noi è stata la più quadrata, la più robusta, la più genuina di tutte. Quando Leonardo descrive l'elica, in uno dei fogli del Codice Atlantico usa un linguaggio che oggi non sembra neppure paradossale: «nella macchina non esistono che giunture utili» e stabilisce uno dei corni di quel dilemma tra la perfezione e la bellezza contro il quale dovevano spezzarsi le armi di tutti i polemisti. Nel 1902 l'architetto Van de Velde, così del resto riassumeva la sua teoria della linea forza: «la linea è una forza, per cui ogni linea ad eccezione della retta reclama una complementare: ogni linea che non sia fondamentale o complementare non si giustifica e deve essere bandita». Questa la teoria che dava Edoardo Persico, il più autorizzato dei nostri critici d'arte a parlare d'architettura, la possibilità di scoprire in tutto il movimento Europeo di rinascita, oltre che la reazione al clima dell'ottocento e un'opposizione dell'individuo alla società, e basi teoriche dell'architettura nel gusto dell'impressionismo, già entrato in possesso della teoria dei colori complementari. E sarebbe anche di molto profitto seguire di pari passo la storia della pittura, dall'impressionismo al cubismo e infine all'astrattismo e parallelamente ritrovarne i fondamenti teorici in Van de Velde, Le Corbusier fino a Sartoris. Ritrovare nella casa di cura di Purkensdorf costruita da Hoffmann nel 1904 il più forte tentativo di reazione al classicismo floreale con un ritorno a uno spirito rustico di pura marca mediterranea e nella casa Stener costruita da Adolfo Loos nel 1910, l'esigenza di dir tutto con dei rapporti elementari, volumi puri, proporzioni e tagli netti di spazi, luce e ombre considerate come masse nell'equilibrio plastico. I piani vanno disposti a trar profitto dalla luce. La superficie piatta è una superficie che non mente e la linea dritta è certamente la più sincera: non nascono così i cristalli? Così è nata la nuova architettura, riportandosi al principio il più delicato e il più solido di tutte le arti che è l'accordo intimo e il più profonda che permette la natura delle cose fra la materia e la figura dell'opera, ricercando un legame che deve nascere e compiersi nella vivente profondità dell'artista, un legame che renda impossibile la dissociazione delle forze e delle forme.
Questa sarebbe l'eresia contro cui combattono da tempo i chierici di tutta l'Europa: l'eresia della fabbrica sviluppata dal di dentro, l'eresia che qualunque materia porta dentro delle necessità di forma che sta all'artista scoprire, e che una torre in ferro o un edificio in cemento armato non potranno mai rassomigliare alla torre di Pisa o una villa del Palladio.
Ma come ha reagito il borghese al gusto nuovo? Dicendo semplicemente che le case di oggi sono «belle di dentro e brutte di fuori»: molti hanno chiesto le sedie in metallo cromato, ma hanno voluto le incrostazioni sulle facciate delle loro case. Hanno trovato degli architetti pronti a far questo, architetti che noi non nomineremo mai, ma il cui nome purtroppo è sulle bocche di tutti. Così perfino le ragazze si sono messe a disegnare tappeti novecento, ad allevare piante grasse, ad esigere pavimenti di linoleum, pronte tuttavia ad imprecare contro le facciate delle case minime, ch'erano costruite nel parco dell'ultima Triennale. Questo lo riferiamo non per dare all'argomento una nota piccante e comunque pittoresca ma per trarre una conclusione: che cioè la gente più facilmente si attacca a delle ragioni puramente decorative dell'arte, quelle che entrano nella moda e formano il cattivo gusto. Per dirla ancora più paradossalmente; del razionalismo il borghese si è preso quello che gli è servito, ha badato a soddisfare i sensi piuttosto che la «ragione». Per educarlo non c'è che da imporgli delle opere fino all'adattamento. La nuova architettura è entrata piuttosto nell'abitudine del popolo che in quella della borghesia. Il contadino, l'operaio hanno capito che si lavora per loro e per lo Stato. Un'architettura proletaria? Chiamatela come volete: certo un'architettura di Stato.
Verso il 1880, parve a tutti che una rivoluzione violenta e clamorosa dovesse cambiare la faccia dell'architettura universale. Il ferro come materiale principe di costruzione suggerì nuove strutture, permise nuove proporzioni, impose nuovi ritmi. Eiffel lanciò la sua torre a 300 metri di altezza. Fu costruito in Francia il famoso Palazzo delle Macchine che doveva essere il tempio della nuova legge: «il ferro mai deve essere nascosto ma essere menzogna. Se il monumento è in ferro deve avere anche l'apparenza del ferro: non è il caso di ritornare ai progetti di scuola». E così veniva commentato un progetto razionale presentato al concorso per l'Esposizione di Parigi, nel 1889: «L'architetto ha adottato un sistema di costruzione francamente metallico e il suo progetto fa piacere all'occhio: tuttavia noi indicheremo come non confacente alla natura del metallo le travate ad arco delle facciate. Questo sistema di archi è vecchio. Noi sappiamo ormai che, essendo il ferro tirato in barre diritte e lavorandosi esso più vantaggiosamente in tali condizioni deve essere impiegato esclusivamente in forme dritte e non arcuate». E per un’altro progetto: «La grande arcata è falsa quindi brutta. Se si fossero fatti discendere i piloni fino a terra senza legarli con archi, avremo avuto maggior franchezza e quindi bellezza. Bisogna cercare oramai un'architettura metallica, assolutamente razionale». Si capisce che la rivoluzione falli, perché gli architetti vollero costringere il ferro ai loro gusti neoclassici, vollero costruire dei rosoni e perfino dei capitelli. Basta guardare ancora certi magazzini generali.
C'è uno studio di Agnoldomenico Pica sulla nascita dell'architettura moderna in cui vengono precisati i rapporti della civiltà dell'ottocento con l'architettura, rapporti che in diversissima maniera giovarono al determinarsi dell'architettura moderna, e precisamente il neo-classicismo degli inizi, l'erudizione archeologica e finalmente il formarsi delle nuove tecniche e il conseguente stabilirsi del regime industriale. I veri protagonisti della riforma architettonica compiutasi alla fine dell'ottocento sono i nuovi materiali di costruzione e ancora la conoscenza della loro natura nei riguardi della statica, la quasi definitiva estensione tecnica su basi teoriche del calcolo di resistenza. Il ferro, il vetro, la pietra e il cemento armato sono da considerarsi come materiali di natura elastica vale a dire capaci di resistere in diversa misura agli sforzi di trazione, di compressione e di flessione, cui variamente li assoggetta la loro funzione come elementi di un sistema in equilibrio, che può essere una travata, un ponte o una gru.
Ma questa è veramente pura analisi e l'Ottocento in gran parte l'ignorò. Così accanto alle goffaggini di tutte le speculazioni decorative e dei ritorni ai più ambigui primitivismi, nello stile dei Villini, dei magazzini, delle chiese e delle stazioni, sorsero i primi edifici nuovi, quelli che non trovavano lo schema già pronto nelle tavole del Vignola. La torre d'Eiffel è del 1889. Il palazzo di Cristallo di Londra in ferro e vetro è del 1851. Tra il 1886 e il 1889 viene costruito a Chicago il primo grattacielo con ossatura di cemento armato: il Tacoma Building. Il grattacielo sorge per esigenze urbanistiche ignorate fino allora o ancora trascurate nel tracciato di un quartiere e di una città. La trazione meccanica, l'agglomeramento centripeto degli affari, contribuiscono al suo sviluppo.
gono origine dall'antichità egiziana, indiana e bizantina e da quello sbalorditivo fiorire di idiozie e di impotenza che prese il nome di neoclassicismo. In Italia si accolgono codeste ruffianerie architettoniche e si gabella la rapace incapacità straniera per geniale invenzione, per architettura nuovissima. I giovani architetti italiani (quelli che attingono originalità dalla clandestina compulsazione di pubblicazioni d'arte) sfoggiano i loro talenti nei quartieri nuovi delle nostre città, ove una gioconda insalata di colonnine ogivali, di foglione seicentesche, di archi acuti gotici, di pilastri egiziani, di volute rococò, di putti quattrocenteschi, di cariatidi rigonfie, tien luogo seriamente di stile ed arieggia con presunzione al monumentale. Il caleidoscopico apparire e riapparire di forme, il moltiplicarsi delle macchine, l'accrescersi quotidiano dei bisogni, imposti dalla rapidità delle comunicazioni, dall'agglomeramento degli uomini, dall'igiene e da cento altri fenomeni della vita moderna non danno alcuna perplessità a codesti sedicenti rinnovatori dell'architettura. Essi perseverano cocciuti con le regole di Vitruvio, di Vignola e del Sansovino e con qualche pubblicazione di architettura tedesca alla mano a ristampare l'immagine dell'imbecillità secolare delle nostre città, che dovrebbero essere l'immediata e fedele proiezione di noi stessi. Non si tratta di trovare nuove sagome, nuove marginature di finestre e di porte, di sostituire colonne, pilastri, mensole con cariatidi, mosconi, rane; non si tratta di lasciare la facciata a mattone nudo e di intonacarla o di rivestirla di pietra, né di determinare differenze formali tra l'edificio nuovo e quello vecchio, ma cercare nuove forme, nuove linee, una nuova armonia di profili e di volumi, un'architettura che abbia la sua ragione d'essere, solo nelle condizioni speciali della vita moderna, e la sua rispondenza come valore estetico nella nostra sensibilità. I materiali moderni di costruzione e le nostre nozioni scientifiche non si prestano assolutamente alla disciplina degli stili storici e sono la causa principale dell'aspetto grottesco delle costruzioni alla moda, nelle quali si vorrebbe ottenere dalla leggerezza, dalla snellezza superba del le travi di ferro e dalla fragilità del cemento armato la curva pesante dell'arco e l'aspetto massiccio del marmo. Sentiamo di non essere più gli uomini delle cattedrali, dei palazzi, degli arengari, ma dei grandi alberghi, delle stazioni ferroviarie, delle strade immense, dei porti colossali, dei mercati coperti, delle gallerie luminose, dei retti fili, degli sventramenti salutari. Noi dobbiamo inventare e rifabbricare la città futura simile ad un immenso cantiere tumultuante, agi le, mobile, dinamico, in ogni sua parte e la casa simile ad una macchina gigantesca. Le case dureranno meno di noi, ogni generazione dovrà fabbricarsi la sua casa».
Quando Antonio Sant'Elia reclamò i diritti dell'invenzione è difficile dire fino a che punto egli si confessi devoto di quell'estetica romantica che al principio del secolo nelle sue più semplici formule doveva, qui da noi, giustificare l'equivoco del futurismo. In fondo il suo errore stà nel credere nello stesso tempo all'efficacia delle «parole in libertà e di estrema servitù dei mezzi tecnici», che egli pure invoca a fondamento del nuovo ordine. Noi siamo sicuri ch'egli troppo concesse al sentimento», nel richiamarsi ai principi di un'arte di cui a un certo punto avremmo voluto più chiaramente definita la sintassi. Egli comprese sopra tutto che la rivoluzione doveva adeguarsi alla nuova civiltà, al nuovo spirito. L'ultima frase riportata: «Le cade dureranno meno di noi» ci fa vedere come profondamente la sua certezza spingesse le radici nel fondo della nostra inquititudine.
Nel periodo della guerra l'architettura subisce una stasi, la tecnica del cemento armato trova basi di calcolo più sicure. I cantieri si industrializzano. La casa viene colata nelle sue forme. I grattacieli salgono a 50 piani. Bastano pilastri di 30 centimetri a sostenere una casa di sei piani. Si possono fare sbalzi anche di 10 anche di 20 me tri senza la necessità di sostegni, si può coprire un fiume con un solo arco di cento metri e con soli 70 centimetri di spessore in chiave. Cogli anni l'architettura europea abbandona il pretesto lirico per una sua logica e una sua moralità. Entra definitivamente nella vita. Le Corbusier vorrà fare della casa un utensile, una macchina da abitare, prestare all'umanità degli oggetti, delle forme che siano le più utili possibili e ritrovare una bellezza standard, come le colonne del Partenone. Anche le linee della mano, noi abbiamo letto un giorno, sarebbero decorative se non fossero profetiche. Le Corbusier è nato in Svizzera nel 1887. Il suo curriculum vitae è tutto qui: dal 1907 ha lottato contro l'accademismo, nel 1928 il suo progetto è stato bocciato al concorso per un palazzo della Società delle Nazioni, nel 1932 la stessa sorte ebbe un suo progetto per il Palazzo dei Sovieti a Mosca, nel 1933 ha studiato il piano della città di Algeri. Le Corbusier ha voluto segnare i insuccessi, ma anche questo è un vezzo, il vezzo del «plus grand architecte du monde» come una sera a Milano egli disse sorridendo a una donna che non aveva ben capito il suo nome. Ma Le Corbusier, consigliano gli intenditori, bisogna cercarlo nelle sue opere più che nei suoi principi. La Villa a Garches è del 27, la villa dalla fine dell'ottocento, che rappresenta la preistoria della nuova architettura, ai primi anni del novecento, per opera di Hoffmann, di Loos, di Perret, di Van der Velde e di Sant'Elia, vengono stabiliti veramente i canoni dell'architettura moderna in Europa. Come la poesia ha avuto il suo Rimbaud che rivoluzionando tutta la sintassi ha saputo imporle un nuovo ordine e ritrovare un'illuminazione nuova, come le scienze matematiche hanno avuto il loro Galois che, in una notte avanti la mattina del duello che a ventidue anni doveva dargli la morte, lascia quella teoria delle sostituzioni che doveva portare tanta evidenza nell'analisi algebrica e stabilire i veri legami tra algebra e geometria, vale a dire tra numero e figura, Antonio Sant'Elia anche lui giovanissimo, ha sognato i modelli della città nuova. Nato a Como il 30 aprile 1888, a diciassette anni capomastro a Milano fu addetto al canale di Villoresi, poi al Comune. Si iscrisse all'Accademia di Brera e ne seguì i corsi. Diede gli esami di architetto a Bologna, poi ritornò a Milano dove aprì uno studio di architettura. A ventiquattro anni entrò nel movimento futurista lanciando il famoso Manifesto dell'architettura ed esponendo i suoi progetti alla «Famiglia Artistica». Scoppiata la guerra si arruolo volontario ciclista. Sottotenente dei bombardieri il 10 ottobre 1916 comandando una pattuglia di assalto presso Monfalcone, una palla in fronte gli diede la morte degli eroi, meritandogli due medaglie d'argento. Il suo Manifesto Tecnico dell'architettura è del 1914, i suoi cento disegni per la Città Futura sono del 1913: con essi egli gettò le basi tecniche ed estetiche della rivoluzione architettonica ed urbanistica contemporanea. Vale la pena di riportare alcuni passi più importanti di quello scritto che certamente è servito di fondamento alle nuovi leggi costruttive. «Dopo il settecento non è esistita più nessuna architettura. Un balordo miscuglio dei più vari elementi di stile, usato a mascherare lo scheletro della casa moderna, è chiamato architettura moderna. La bellezza nuova del cemento e del ferro viene profanata con la sovrapposizione di carnevalesche incrostazioni decorative che non sono giustificate ne dalle necessità costruttive ne dal nostro gusto e tragSavoje è del '31, il padiglione svizzero della città universitaria è del "32: tre opere capitali nella storia dell'architettura moderna.
Vicino al nome di Le Corbusier, gli assertori di una tradizione moderna nell'architettura europea mettono i nomi di Walter Gropius, nato a Berlino nel 1883, di Konstantin Melnikoff nato a Mosca nel 1890, di Willhem Marinus Dudok nato ad Amsterdam nel 1884, di Ludwig Mies Van der Rohe nato ad Aquisgrana nel 1886, di Erik Mendelsohn nato ad Allestein nel 1887.
Come si riconosce nella poesia d'oggi una tradizione moderna e se ne precisano le origini nelle pagine dello Zibaldone di Leopardi, come la pittura d'oggi ha trovato il suo principio nell'opera di Cezanne, l'architettura europea ha ormai definito il suo linguaggio, ha stabilito la sua tradizione e anno per anno precisa i suoi valori ed afferma la sua unità. Fuori del suo cerchio, oramai nettamente delimitato non c'è posto che per l'accademia. Il suo problema investe gli stessi fondamenti della nuova civiltà. E' un vero e proprio fronte unico che ha stabilito le sue origini nell'etica, nell'estetica, nell'economia del nostro tempo. L'architettura ha tenuto fede alla sua legge che è quella di costruire, vale a dire passare dal disordine all'ordine, usare del l'arbitrario per raggiungere la necessità, ha definito la sua azione che è certo la più completa che l'uomo possa proporsi. «Un'edificio compiuto, ha scritto Valèry, ci rioffre in uno sguardo la somma delle in tenzioni, delle invenzioni, delle conoscenze e delle forze che trae con Bè la sua esistenza, manifesta alla luce l'opera combinata del volere, del sapere, del potere dell'uomo. Fra tutte le arti, ed in un istante in divisibile divisione, solo l'architettura fa pesare sulla nostra anima il sentimento totale delle facoltà umane». Gli architetti sono stati chiamati a fondare le città, a costruire gli stadi e le piscine, a creare il paesaggio di una piazza.
Essi si sono fatti responsabili d'uno stile, che non è più una moda o un semplice pretesto per il gusto, ma il risultato d'un'espressione, vincolata nei suoi cardini e stabile nel suo equilibrio. Basterebbe aver presente qualcuna delle opere tipiche esposte all'ultima Triennale di Milano, per convincersi che l'architettura d'oggi è uno stato di fatto e non più di semplici propositi. Anche se negli ultimi anni la polemica degli archi e delle colonne contro gli architravi e i pilastri ha trovato difensori disposti a non transigere, difesi come erano dai secolari principi del bello anche se scomodo e inutile, le opere co costruite in questi ultimi anni in tutti i paesi dell'Europa ci danno ragione di una realtà di fatti, i quali rappresentano una necessità piuttosto che una reazione. Abbiamo sentito ripetere frasi come queste oggi si fanno delle case che sembrano delle navi», «oggi una casa olandese potrebbe benissimo stare in Grecia o per lo meno in Turchia», abbiamo letto ancora paradossi di questo genere «che cosa ne faremo delle cave di marmo e di travertino?» Basta non transigere: la gente non vuol tradire le proprie abitudini.
Ma qual'è la condizione dell'architettura in Italia? C'è un chiaro articolo dell'architetto Giuseppe Pagano, scritto come commento a un saggio di Edoardo Persico, che meriterebbe di essere riportato per intero. I direttori della più importante rivista di architettura che Hi stampa in Italia sarebbero d'accordo su questi punti. Primo: l'impressionante mediocrità, l'insensibilità artistica e l'assenza di capacità critiche in quella società italiana che visse allo scorcio dell'ultimo se colo. Secondo: l'equivoco di considerare opera d'arte moderna e produzione degna di lode e per conseguenza encomiabile e legittima del l'ultima polemica tutta quella paccottiglia ingombrante vanitosa e scenografica che i Comuni e lo Stato e le Provincie e i privati vanno troppo spesso montando credendo di costruire «razionale». Terzo: Architettura moderna significa architettura moralmente, socialmente, economicamente e spiritualmente legata alle condizioni del nostro paese, significa costruire per rappresentare gli ideali del popolo, per soddisfare i bisogni, per «servire» nel vero senso della parola.
Tutte le opere d'architettura devono sottoporsi a questa schiavitù utilitaria. La fisonomia di una città, di un paese, di una nazione non è data da opere di eccezione ma da quelle altre tantissime che la critica storica classifica come architettura minore, cioè arte non aulica, meno vincolata da intenti rappresentativi, maggiormente sottoposta alle limitazioni economiche e alla modestia di chi non vuole e non deve cedere in vanità. Di questa architettura deve essere fatta la città: architettura modesta e soda, che si adagia senza insolenza attorno ai pochi e indispensabili edifici rappresentativi. Di questa architettura sana il nostro paese non ne produce quasi più. Col tambureggia mento della polemica moderna, col dar libero corso a tutte le frasi reboanti si è creata dell'architettura moderna una veste esteriore, fittizia e retorica: movimento di masse, finestre orizzontali, tetto pia no, terrazze frastagliate, intonaci sgargianti, novità impensate, pensi line, pareti in curva, scale ad elica e oblò e grandi fasci littori e aste per bandiere e portali immensi e torri, torri, torri. Questo minestrone imparaticcio è caduto nelle mani di tutti i costruttori ed è stato adottato come architettura «novecento». Le ragioni di questa confusione vanno dunque cercate esternamente agli artefici: nelle scuole di architettura, negli uffici tecnici dello Stato, delle Provincie e dei Municipi, nelle commissioni edilizie municipali, nelle adulazioni giornalistiche, nella prosopopea di mal compresi nazionalismi, nella pos sessione di una monumentalità retorica e decorativa.
Abbiamo scelto questi punti che ci sembrano i più importanti sopratutto come premessa di una moralità nuova in artisti che, bene o male, sono chiamati a dare la faccia più in vista al tempo nostro.
A un panorama di tutto il «brutto» che si è costruito in questi trent'anni ogni città porterebbe il suo grosso contributo. A Roma si guarda con orrore il «barrochetto» che è culminato nella grossa mole del Palazzo di Giustizia, si guarda la terribile scenografia di quel a quartiere delle fate» dove lo stile floreale chiamò in aiuto le rarità dei musei di botanica e di paleontologia: una contaminazione del gusto di Dorè e di Alberto Martini, una cattiva illustrazione di Rabelais e dei racconti immaginari di Edgard Poe.
Ci sono ancora degli architetti di grido che abbinano le colonne e spezzano i timpani, ci sono i ministeri con tutta la vecchia retorica parlamentare manifesta alle facciate. A Milano c'è l'acquario di corso Venezia, ci sono le case di via Castelmorone, c'è il Palazzo del Credito Marittimo, la Borsa e il Palazzo delle Imposte a Monforte. Interi quartieri andrebbero interrati.
In compenso alcuni nomi e alcune opere che ci danno piena fiducia. Basterà ricordare lo Stadio Berta a Firenze e lo Stadio Musso lini a Torino, alcune case di Littoria, qualche quartiere popolare, cinque o sei progetti presentati per il Palazzo del Littorio e qualcuno dei fabbricati della città Universitaria di Roma.
Negli architetti: Alberto Sartoris, Giuseppe Pagano, Carlo Emilio Rava, Enrico Griffini, Adalberto Libera, Sebastiano Larco, Pietro Lingeri. Luigi Figini, Gino Pollini, Luigi Baldessari, Guido Fiorini, Agnoldomenico Pica, Giuseppe Terragni, Pietro Aschieri, Piero Bot toni, Luigi Vietti, Ridolfi, Banfi, Peregsuti, Rogers, Belgioioso, Cosenza, Gardella, sono riposte le nostre speranze.
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