Il chierichetto
di Leonardo Sinisgalli
in La fiera letteraria
A.III, n.16 (25 apr 1948)
Fabrizio Roesler Fraz, all'epoca in cui lo ricordano le sorelle de Cousandier, poteva avere l'età di un chierichetto. «Quand'è che un ragazzo impara a servir messa?» domandò ad Angelica. «Alle prime classi del ginnasio appena sa mettere gli accenti sulle parole latine».
La casa dove le mie amiche trascorsero l'infanzia è stata abbattuta da almeno una ventina d'anni per far posto a un vasto ufficio della Compagnia Generale di Assicurazioni. Ci sono grandi diagrammi e curiose cureve della mortalità, statistiche strambe degli accidenti, delle malattie più calamitose (diabete, ipertrofia, sclerosi, cancro, ecc.): stanno dipinti sui muri nel grande salone delle Adunanze. «Era la stanza dei nostri giochi», mi dice Giorgio, «la stanza dove aspettavamo Fabrizio i pomeriggi di inverno. L'hanno lasciata quasi intatta».
Il ragazzo, figlio unico di ricchi coniugi troppo presi dalle cure della loro sceltissima clientela, aveva trovato in casa de Cousandier il suo paradiso. Nella Pensione Franz, in Via Nazionale poco dopo la fine della prima guerra mondiale, si adunavano principi, granduchesse, baronetti di tutte le razze, russi, austriaci, inglesi, insieme ai primi nababbi americani. Stufi di vivere al Grand Hotel o al Quirinale, caricavano i bagagli sulle carrozze, e dopo un piccolo trotto, di qualche centinaio di passi, suonavano alla porta dove si presentava, ad accoglierli Gabriella Roesler Franz in persona. Alta, bionda, bellissima essa finiva per imporsi con le sue grazie alle zitelle o agli zitelloni che trascorrevano ineguagliabile la sua compagnia. Soltanto il piccolo Fabrizio rifiutava i baci dei pensionati e le cure della istitutrice: saltava le due rampe di scale, spingeva la porta e correva ad abbracciare zio Pippi, suo padrino, il grande avvocato dei Vescovi e dei pollivendoli, la bestia nera dei consiglieri Capitolini, che a'ava pranzare a pomeriggio inoltrato in mezzo allo stuolo cinguettante delle sue bambine e del suo figlioccio.
Io non ho fatto in tempo a conoscere zio Pippo, il papà delle mie amiche: mi è capitato qualche volta di spogliare gli scartafacci del suo archivio, di leggere qualcuna delle sue comparse conclusionali. Che richhezza di argomentazioni, che eleganza di stile! Di ogni zolla, di ogni albero di ogni sasso, egli conosceva la storia mirabolante, i passaggi di proprietà, i legati, le speciali concessioni dei pontefici e delle comunità religiose. Le figlie ricordano una buffa carta topografica che il padre aveva fatta disegnare dietro sue precise istruzioni: c'erano croci e cerchietti sparsi un po' dappertutto, e larghe chiazze nere che indicavano a colpo d'occhio i confini di tutte le aree appartenenti alla curia. Chiese, ville, conventi, ma anche vigne e gioardini. Il palazzo dove abitavano i de Cousandier e i Roesler Franz era stato infatti costruito sui ruderi della villa di papa Sisto, tra Quirinale ed Esquilino.
Fabrizio era cresciuto fragile, e, appena uscito dall'infanzia era stato colpito da un attacco alle meningi. Aveva dovuto prestissimo abbandonare gli studi e votarsi a riempire le lunghe giornate di noia con singolarissimi esercizi tra funerari e liturgici. Un po' per difetto di pronunzia, un po' forse per la sua debolezza di mente, e un tantino anche per una sottile vena di arguzia romana ch'era penetrata nel suo sangue, il ragazzo aveva un curioso modo di inneggiare ai suoi santi protettori, la Madonna del Cammello (Carmelo) e la Madonna del Rosolio (Rosario). Ma procediamo con cautela.
La baronessa Zaira Serafini, madre delle mie quattro amiche aveva in orrore la caciaggione che i clienti portavano in dono al marito, mentre gradiva l'insalata mista dei frati ortolani, la misticanza di lattuga, di rughetta, e di erba riccia.
Gli uccelli morti erano invece la passione di Fabrizio, e la baronessa glieli faceva trovare spennati, i più piccoli, sui vassoi d'argento. «la scala di Giacobbe alla rovescia». Partiva dal tetto e finiva quasi sul coperchio marmorco del vaso. Gli ospiti della Pensione erano ammiratissimi di tanta prodigalità da parte di Gabriella: ma le de Cousandier e Fabrizio insistevano a che lo Zio Pippo chiedesse a qualcuno dei suoi clienti, in cambio di tanti «cadaveri», almeno un uccello vivo.
E il gallo cedrone che arrivò un giorno dentro un paniere della Maremma fu bene accolto perfino dalla baronessa Zaira. «Sembra una Guardia Palatina in grande uniforme!», disse la Baronessa. «Il ritratto preciso di zio Lollo» dissero le bambine.
Dove oggi la Compagnia Italiana di Assicurazione ha sistemato la grande Sala delle Adunanze, i cinque bambini e il Gallo Cedrone trascorsero un inverno intero. C'era in casa aria di festa perchè dopo venti anni di qui-quilie, di ricerche, di studi di baruffe, di sopra, luoghi, finalmente i Principi Barberini avevano dovuto cedere alle querele dei Frati Cappuccini e alle argomentazioni dell'Avvocato de Cousandier, la proprietà di alcuni ettari di terreno che circondano la Chiesa degli Scheletri. Le bambine sfoggiarono vestiti splendidi per il Carnevale indicate a dito dalla folla deidevoti che andava a sentir messa nella chiesetta di San Vitale. Non mancarono mai in prima fila ai Quaresimali di Monsignor Giovanelli e ai riti della Settimana di passione nella Basilica di Santa Maria degli Angeli. La preparazione spirituale al grande evento culminato nella Pasqua del 1922 con la Prima Comunione delle tre figlie minori Maria, Giorgio e Elena, e del piccolo Fabrizio, fu curata dalle Suore del Cenacolo di Piazza della Stamperia, le spendite principesse in pellegrina viola che fecero un piccolo strappo alla regola, inserendo nel loro corteo di angeli candidissimi un solo maschio, Fabrizio, che portava sulla manica del frac azzurro una grande coccarda bianca. Fu una festa grandiosa: una processione quasi nuziale passò sotto il Traforo, risalì Via Nazionale, si fermò davanti alla vecchia villa di Papa Sisto, lì all'angolo di Via Depretis. Una immensa folla c'era adunata an quei pressi e ne furono meravigliate le due mamme Gabriella e Zaira e tutti gli invitati. Ma il primo ad alzar la testa fu Fabrizio quando scese dalla carrozza e sentì cadere dal cielo un profondo chicchirichì. Il gallo Cedrone profittando dell'assenza di tutti aveva fatto il giro della stanza, aveva trovato un balcone aperto, e s'era buttato a volo sopra una pianta di kaki che su due file ornavano la via, dell'Esedra alla Torre delle Milizie. Saltellando sugli alberi, tra le grida e le risa di tutta la gente di passaggio in quella meravigliosa mattina, riuscì a raggiungere Via Parma e a risalire fino ai Giardini di Carlo Alberto e disperdersi infine nel parco del Palazzo Reale.
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Questa catena di emozioni scosse i nervi deboli del piccolo Fabrizio. «Cominciò da quella Pasqua», mi racconta Giorgia, «a infatuarso per la liturgia, i paramenti, le saere funzioni della Chiesa». Tanto che per distrarlo fu mandato in una villa a Castelgandolfo. Quella solitudine e il tetro silenzio delle acque e la cupa pace dei boschi non giovarono al ragazzo. Sollecitarono anzi le sue manie. Correva dietro tutti i funerali, voleva accompagnare tutte le salme al cimitero e adunava cuochi camerieri e fantesche ogni mattina, intorno a una sedia che faceva da altare, per cantare le litanie. Edificava grotteschi elenchi di nomi e li disponeva in fila e incitava la piccola folla dei domestici a fridare le lodi del pizzicagnolo, dell'eerbivendolo, dell'arrotino, del cane barbone, del gatto, e non dimenticava mai, nella filza dei beati, le sue carissime amiche Angelica, Maria, Giorgia ed Elena.
Quando tornò a Roma, dopo qualche mese, e potè finalmente riabbracciare le quattro ragazze, disse loro in un orecchio che aveva preparato per ognuna una bella sorpresa. Gli chiesero notizie delle sue vacanze ma il piccolo restava taciturno. Finchè entrarono, nel grande salone dei giuochi, quattro camerieri in livrea, della pensione Franz, che sorreggevano un grande canestro sul capo. Il piccolo si mise in piedi su una poltrona: al suo lato fece disporre i quattro uomini; due a destra e due a sinistra. Estrasse a una a una dai quattro cesti le splendide corone di fiori e, chiamando per nome «Angelica, Maria, Giorgia Elena, che si accostarono a mani giunte, depose sui loro capelli i doni profumati».
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Fabrizio era serio e come in estasi nel compire tale uffizio. «Sembrava davvero investito di un potere sovrumano», mi dice Angelica «e noi pure fummo presto contagiate da quell'aureola misteriosa che ci pareva avvolgesse la sua persona».
«Fu quel giorno, a poche ore dal suo ritorno da Castelgandolfo, che egli volle celebrare, presenti i quattro domestici in livrea e noi quattro vergini incoronate, la sua prima Messa solenne. Cacciò fuori da una scatola una candida camicia da notte, infilò il collo in una stola luminosa intrecciata di pagliuzze dorate, appoggiò una crocetta di legno alla spalliera della poltrona, e cominciò a recitare le sue orazioni segrete in un linguaggio assolutamente immaginario, caotico, dentro il quale sentivamo affiorare qualche de profundì, qualche amen, e i nostri nomi crudelmente distorti nelle desinenze».
Caro Fabrizio! Per molti mesi, finchè la sua salte non fu definitivamente scossa continuò a raccogliere intorno a lui le serve pietose, i cuochi che lo adoravano, qualche volta perfino Zio Pippo e le quattro compagne di giuochi. Non volle mai tra i devoti sua madre e la mamma delle bambine. Aveva un piccolo volto trasparente, i riccioli nerissimi, gli occhi grandi e tristi. Tutti i giorni fino a quando non fu portato via in una casa di salute (e gli dissero per calmare le sue lacrime che lo accompagnavano in Seminario) egli celebrò l'ufficio funebre per l'anima di Fabrici Roesteri Francis. «Diceva proprio così latinizzando il suo nome». Le amiche gli stettero intorno quando il piccolo gemeva le sue buffe preghiere dentro il lettuccio di morte. Aprì gli occhi finalmente sorridenti: s'era accorto ch'erano venute quella mattina con una coroncina di viole tra i capelli.
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