Dorazio ritrova la luce in camera oscura
di Leonardo Sinisgalli
in Il Settimanale
A.II, n.10 (8 mar 1975)
«Il lume naturale», dice Dorazio, «è una minima parte della luce mentale necessaria al pittore». da lui è nata una strabiliante operazione ottica-pittorica-poetica che i «priori» della critica hanno capito (come al solito) in ritardo.
Da quando lasciò Filadelfia, dove ha insegnato per diversi anni quella strana scienza del visibile di cui si occupano tutti a sproposito anche da noi, e dove conobbe sua moglie, la fascinosa Virginia, Dorazio fa rare apparizioni al centro di Roma. Lo si vedeva un tempo in compagnia di Ungaretti sostare sul marciapiede di via Ripetta davanti al famoso cantinone, tristemente restaurato fino al punto di somigliare a un'agenzia di pompe funebri. Squadernavano i grandi fogli freschi delle prove litografiche appena uscite dai torchi sotterranei di Romero, il più fidato e celebre dei tanti stampatori romani, quasi tutti improvvisati, che però hanno contribuito al lancio felice della grafica tra gli alti burocrati degli enti statali più sofisticati.
Dorazio ha lavorato molto in sodalizio con Ungaretti: ci sono splendide cartelle preparate insieme e affidate all'esclusiva perizia di Romero. Io mi divertivo a stuzzicare Ungaretti, vantando i diritti di un'amicizia un po' più antica di quella dei pittori, che risale nientemeno ai tempi dell'apparizione folgorante di due astri autentici, Scipione e Mafai, nel cielo di Roma, l'anno 1928. «Stai attento che questi ragazzi ti portano alla perdizione», dicevo per celia al Maestro, che negli ultimi tempi si era votato alla gioventù fino a mimarla in molte eccentricità. C'erano cortei di artisti sempre intorno a lui. Ungaretti s'era messo a fare il talent-scout delle correnti di moda e di punta. Tra i questuanti non va certo confuso Piero Dorazio che di Ungaretti si sentiva discepolo visceralmente devoto e affettuoso e che proprio in quegli anni portò a compimento un'operazione ottica-pittorica poetica tra le più strabilianti. Un'operazione che Ungaretti aveva capito al volo, come faceva lui che le conquiste più ardue le ha ghermite con un colpo d'occhio, o con l'orecchio, o con i polpastrelli, per un miracolo fulmineo. Devo dire invece che del lavoro di Dorazio, così conseguente, non si accorse quasi nessuno dei nostri priori, i priori della critica. Basti pensare alla sordità della Bucarelli e alle gaffes di Calvesi. Questi sovrintendenti, questi professori, non scoprono mai nulla al momento giusto; arrivano, se mai, a sistemare i confini quando sono già scavalcati da un pezzo.
La posizione di Dorazio è singolarissima. E' quella di chi si ostina nel rigore in pieno clima di libertinaggio e di scialo. Egli è il capo fila di quel gruppo ristretto di artisti che fanno poco credito alla magia e hanno fede nel metodo. I loro frutti sono più sapidi quanto sono più stentati. Non esplodono: sembrano cresciuti, maturati nelle serre o nelle grotte e assomigliano molto a certi giuochi di natura, ragnatele, cristalli, miraggio di cui è difficile dire se si tratta di cose vive o di cadaveri, di realtà o di illusione. Le trame sperimentate per tanti anni da Dorazio non chiedevano la complicità dei sensi e della sensibilità del fornitore, piuttosto il suo giudizio, la possibilità di entrare in sintonia, di fare il sacrificio del proprio silenzio all'unisono dell'opera, come diceva Mallarmé. E questo accordo è molto di più di una generica simpatia. Dorazio chiede un'adesione tutta musicale (o mentale) di suoi motivi, che non sono oggetti, non sono natura, ma visioni, invenzioni.
Ho seguito via via le sue lentissime conquiste, da quando ha raggiunto la sua autonomia e si è liberato dall'imbroglio dell'inconscienza, dell'azzardo, sia esso il delirio di Masson, il Nirvana di Wols, l'indefinito labirinto di Tobey.
Poteva diventare anche lui una vittima del demone della polverizzazione, frantumare il cristallo. E qui Dorazio ha trovato soccorso nel la sua vera indole, la sua vocazione alla misura, il rifiuto dell'angoscia. La scienza di Seurat e di Balla, ma più di tutto gli studi giovanili di geometria e di architettura, e una tendenza insopprimibile alla scoperta, hanno contribuito alla strutturazione di una personalità inconsueta nello sperpero recente di proposte, di progetti, di trastulli, di burle.
Il severo Dorazio ha espresso l'allegria: perché a questo può condurre il freddo calcolo. Sembra che il suo risveglio coincida con la rivelazione della natura della luce e dei rapporti tra la luce e i colori. Dorazio sostiene che il lume naturale è una minima parte della luce mentale necessaria al pittore. La luce è un ingrediente che può anche andar perduto se in qualche maniera la forma non sa come servirsene. «Pochi pittori hanno visto la luce, pochissimi sono riusciti a fissarla. La maggior parte lavora alla cieca, o perlomeno non la riconosce». Le mie ricerche, dice Dorazio, si rifanno alla camera oscura, alle emulsini, ai filtri. Egli ha beneficato delle conquiste di una scienza vecchia, l'ottica, ma di una tecnica più recente, la fotografia. Ma come Pascal guardando il movimento delle dita di una beghina che diceva il rosario, scoprì la macchina calcolatrice, si potrebbe dire che Dorazio ha imparato a dipingere dosando le emulsioni dei sali d'argento e i tempi di sviluppo delle pellicole. Quelli che io ho già chiamato «nastri anamorfici» sono visioni subitanee e cioè apparizioni.
«Voi poeti parlate di simbiosi di senso e di suono», dice, «per differenziare i versi dalla prosa, parlate di danza in opposizione al passo, parlate di canto come culmine del discorso, mettete in contrasto i termini con le parole, ebbene io ho voluto fare una pittura che fosse proprio astrazione, non allegoria e neppure trasfigurazione, e comuni casse dei ritmi, delle censure ma an che delle estasi».
Come Seurat, come Balla, che abbiamo già nominati, come Rothko, Dorazio è sensibilissimo agli stessi problemi che costituivano il cruccio di Leonardo (le divine meditazioni del Trattato leonardesco sono una delle sue letture preferite) e che furono le armi segrete dei pittori del Seicento che fecero dell'epidermide una madrepora di luce.
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