Un universo in prigione
di Leonardo Sinisgalli
in Galleria Schwarz
A.XIX, nn.1-2 (gen-feb 1969)
De Libero mi aveva già parlato delle prodezze di Bruno Caruso. Ma De Libero, anche lui, è troppo disposto a credere nei prodigi. Qualche volta ( e del resto ho l'impressione che egli usi con me la stessa tattica), quando mi parla, mi tappo le orecchie.
Oro ho sotto gli occhi le tavole dell'artista. Queste linee sottili e distinte, questi fasci quasi paralleli di segni dritti, un poco obliqui.
Posso misurare l'altezza dei cieli e anch'io intravedere dietro le palizzate o le cataste di tavole o il mucchio di lapidi, la linea remota dell'ultimo orizzonte. Perchè, oltre lo straordinario dominio del segno (un pugno che genera la linea con la sicurezza, la rapacità del becco di uno strumento), oltre l'ottica, dico, e le perfornmances delle pupille, il nostro amico possiede anche il dono di colpirci più addentro, di porre cioè dei limiti alla vista e allo scandaglio degli spazi interminati e lasciar posto a un brivido, a una paura per tutte le finzioni del pensiero.
Da una educazione che accomuna il Picasso rosa al Vespignani più tagliente egli è venuto a descriverci un piccolo universo di giocolieri, di sonnambuli, di acrobati, di perditempo, di straccioni, di artigiani, di gente che come i pesci guizzano allegri nelle attitudini e nel colore dentro la rete di un mondo silenzioso e lento, un mondo tradico, chiuso nelle gabbie di segui non labili, un universo in prigione.
Caruso vive in bilico tra un'acutezza e una freddezza di gusto geometrico (la perfezione di un manufatto) e l'appetito del reale, del particolare, quasi del sensazionale.
Egli sconta la sua natura di saraceno sempre esitante tra astrattezza e documento, tra forma perfetta e sgorbio.
Il disegno ha una grande tradizione da noi, e se un inciampo ha sofferto la nostra storia artistica, la causa è forse questa soggezione istintiva al contorno netto. Del resto è la storia parallela della nostra poesia. Ma l'unico correttivo alla caduta nell'accademismo, nell'automatismo della bella linea inisgnificante e stucchevole non poteva venire che da una carica di coscienza sul segno e sulla strofe, da una ricerca cioè che allontana i simboli e le allegorie e le cadenze indifferenziate (vale a dire la gosuria tutta artefatta delle cose), per una intesa più profonda, una conquista della forma che stabilisce molte parentele con le tavole dei vecchi trattati e le cianografie e i figurini dei cataloghi industriali.
L'antidoto all'accademia (come trionfo della linea conclusa) e all'impressionismo (rifiuto completo di un limite) non poteva venire che da una restituzione della natura attraverso l'intelletto.
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