La Roma di Tamburi
di Leonardo Sinisgalli
in Le Arti
numero speciale dedicato a Orfeo Tamburi (mar 1969)
Con un amore e un accanimento che nel chiasso, nella confusione quasi totale a cui sembra inclinata la vita degli uomini, riescono sempre più incredibili, Tamburi da dieci anni, a penna o a lapis, trova il tempo ogni giorno di lasciarci una immagine di Roma. Notazioni fugaci a volte, abbreviazioni: in ogni traccia, su ogni foglio troviamo registrata una punta di febbre.
Tamburi non cerca episodi né aneddoti, non fa un catalogo o una scelta di soggetti e di occasioni; è chiaro che lo stimolo, la carica è dentro di lui. Roma perfino è nei suoi occhi, nelle sue mani, si potrebbe anche dire nella sua matita, nel suo inchiostro) come quelle idee innate di cui discussero così a lungo i filosofi della conoscenza. Non vorrei con queste parole suscitare ambiguità: non vorrei che qualcuno capisse il contrario di quel che io voglio dire: la Roma di Tamburi, oramai effigiata in più di duemila disegni, è per la nostra sensibilicà la più vera, la più riconoscibile.
La Roma di Tamburi è più labile, ma più consistente. Tamburi è più scettico, più libero, ha meno inibizioni; non è vittima d'infatuazioni, di idolatrie.
Il nostro amico non ha necessità di alterare nulla o d'inventare suggestioni mitologiche: egli lavora dentro i confini del visibile. Non è stufo, non è sazio fino al punto da dover ricorrere alla cifre, agli schemi. Tamburi si affida alle sue forti risorse emotive, è ancora nella condizione invidiabile di chi sente l'universo vivo, animato in ogni luogo, e non ancora mummificato nei contorni e nei volumi.
I critici hanno trovato già alcuni riferimenti precisi per quanto riguarda la sua cultura, il suo gusto: hanno fatto il nome di Guardi. C'è veramente nelle sue pagine qualcosa di crepitante: il suo segno come i grafici di certi strumenti ci suggerisce l'idea di una materia in mutazione, in assestamento, sono segni trepidi che fissano la presenza nei corpi, nell'aria, di un elemento molto simile al fuoco. Ed è innegabile che l'aria di Roma è carica di questo flogisto che la tiene in uno stato di combustione perenne.
Valéry disse trovandosi a Roma che gli veniva una gran voglia di disegnare. Anche Goethe, anche Le Corbusier, sono stati vittime di questa mania. Evidentemente sono stati colpiti, da qualcosa come una «sintassi» connaturata al paesaggio dell'Urbe, una solidità anche in ciò che può essere una semplice larva, e infine, nella moltitudine delle forme, da una certa nettezza di linee generatrici, una accidentalità sempre reperibile nello stacco col cielo (1948).
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