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Appunti per Ziveri

di Leonardo Sinisgalli
in La Tartaruga
n.7 (mag 1990)

 

A tre mesi dalla scomparsa di Alberto Ziveri
pubblichiamo la presentazione di Leonardo Sinisgalli
per la monografia edita da De Luca nel 1952.

 

Di fronte a un'opera come quella di Ziveri, condotta con un'alacrità e un'ostinazione e perfino una bêtise che t'incutono timore e tremore, difficilmente a prima vista, anche il critico e il visitatore più pronto più spericolato, riescono a non disorientarsi. Ziveri non viene a patti con i gusti correnti: egli ha imboccato una strada con piena coscienza che si tratta di una strada difficile, una strada aspra che spellerebbe i piedi ai più agili arrampicatori, e tira avanti con la sua croce. In mezzo a una società che considera l'arte poco più di un vizio isterico o un elisir annacquatissimo, tra una ridda di scalmanati, di chiericozzi che discutono di pelle d'uovo e di pelle d'angelo, tra i raffinati dello sgorbio e delle tintarelle, gli ossessi della visione anastigmatica e daltonica, Ziveri naturalmente deve vivere e lavorare quasi alla macchia. Deve nascondersi, deve cedere il passo alle matrigne e ai tutori; davvero per un miracolo egli conserva ancora la giusta cal ma e la necessaria presunzione di chi dolorosamente opera al di fuori della legittimità.
Bisogna insistere, non per mera curiosità poliziesca, su questo aspetto clandestino della vita e dell'arte di Ziveri. Sul suo lavoro è difficile non soltanto raccogliere un giudizio ma perfino qualche informazione attendibile. E del resto egli fa del tutto per far perdere le sue piste: non per fanati smo o ipocondria e neppure per edificazione personale.
Viviamo ormai da vent'anni sulla piazza di Roma: conosciamo tutti i trucchi, tutte le montature, le monete buone e le monete false, i venditori di tappeti turchi e di pelle d'orso, i conigli cannibali, gli autodidatti, gli accademici, gli scaccini. Avevamo sentito parlare di Ziveri sempre sottovoce (le pochissime volte in cui si parlava di lui), e mai nessuno ci aveva fatto supporre che poteva essere una cosa importante conoscerlo.
Siamo stati finalmente accolti, non senza una iniziale diffidenza, nel suo studio di Via dell'Anima, dietro Piazza Navona. Abbiamo visto per un intero pomeriggio le sue cartelle di puntesecche, abbiamo avuto conferma del grande amore di Ziveri per la scultura. Ci è riuscito più facile intendere le ragioni del suo plasticismo così aggressivo. Non c'è da fare troppe sottigliezze: Ziveri vuol dipingere i due lati di un oggetto, di una figura, di una forma.
Egli non ama gli spettri, né le silhouettes, non ama i pesci visti dentro un acquario, non ama le vetrofanie. Il suo rifiuto dell'arabesco è talmente deciso da sembrare ai più addirittura una cocciutaggine: la sua rinuncia all'indefinito, all'ineffabile, al probabilismo emotivo, al frisson dei formi chieri delicati.
Ziveri ha ripugnanza per la pittura in musica, per il petit-poème; per il tarlo, la maceria del contrappunto. Non ricorre alle porporine, alle velature: non ama il lavoro del baco, del bruco, della lumaca. Non ha timore di spalmare sulla tela la pasta grossa dei suoi intrugli fumicosi e grevi.
Tra Chardin e il calendario, tra Daumier e l'illustrazione popolare, tra Magnasco e il romanzo d'appendice è chiaro che l'intervallo di rischio è troppo ampio. Ziveri deve sudar sangue per tenersi fuori dall'oleografia, dal teatro di posa, dalla vignetta, dalla cartolina di Mastroianni. Crede nelle risorse di una ispirazione ricca, non umbratibile, un'ispirazione dialettale. E tra i pittori romani è l'unico forse che abbia attinto dal «volgare» quell'arguzia e quella salsa, tra epica e grottesca, che sta al fondo della lingua di Belli. Le sue donne ben piantate, le sue Veneri sono più vicine al mito e alla cronaca che al figurino, sono plebee di una razza che piacque a Raffaello e a Corot, a Pinelli e a Picasso.
E' chiaro che lavorando sul «reale» (la realtà degli stracci e dei quarti di bue, dei pulpiti e dei bordelli, del mercato rionale e delle «botticelle») Ziveri non accetta alcuna possibilità di alterazione che gli possa venir sug gerita da un procedimento di pura meccanica linguistica o di astrazione stilistica, non si affretta a costruirsi una retorica o un campionario di matrici. Mi pare che il suo terribile scrupolo di non aver mai finito, di lasciare qualcosa, anche un particolare minimo, soltanto accennato o suggerito, indicano in lui un rispetto e una fede quasi spropositata nella fatica, nel mestiere. Mestiere dal quale egli non trae nulla di compiaciuto, nessuno charme, nessun vezzo buzzurro: la sua pittura sarà sempre «sudicia e amara, fatta con l'inchiostro e il lucido da scarpe».
Rispetto all'arte corrente, all'arte colta, la posizione di Ziveri sarebbe dunque quella di un maudit, quasi di un reazionario? Egli rifiuterebbe in blocco tutte le conquiste dell'arte libertina per restringersi a un possesso di forme massicce e brutali, e proporre una prosa, vale a dire un contenuto di storia, alle esauste meningi dei vegetariani? Toccherebbe a lui, dopo tanto spreco di idealismo, riavvicinarsi al fuoco vivo dell'immanenza?
Dunque intendiamoci bene: è proprio l'istinto che spinge Ziveri verso l'elaborazione del mezzo espressivo contro tutti i miraggi delle abbreviazioni impressioniste. E' l'istinto che lo lascia insoddisfatto di qualunque risultato istantaneo, casuale. Egli chiede maturazioni lentissime e una condizione di sazietà che relega la foga tra i vizi dei chierici inesperti. Le sue opere possono perfino sembrare stracotte, salvate appena al limite di un lungo processo di fermentazione, di acidificazione. Ha bisogno di un lavoro assiduo, testardo, per mettere a fuoco un quadro. E' un animale lento, un formidabile ruminatore, un animale classico.
Non bastano gli occhi a Ziveri per illudersi di possedere l'Universo, e non gli basta neppure la mente con i suoi schemi, le sue categorie, i suoi cifrari. Non ricorre a nessuna formula riassuntiva, a nessuna ipotesi semplificatrice. La sua visione della realtà implica un lungo esercizio di apprensione non soltanto ottica, non soltanto formale. Egli non può pensare gli oggetti come involucri, come sacchi vuoti. Si direbbe che perfino la for za di gravità gioca il suo ruolo nel sistema compositivo.
Non riduciamo quindi il lavoro di Ziveri a quello di un croniqueur, non releghiamolo tra i generici bamboccianti del XX secolo. Auguriamogli di vincere ogni incertezza, ogni esitazione, e dare sfogo vigorosamente al suo Eros.

 

 

 

01 Giugno 2021

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