Il "Moro" dalla ricca chioma d'argento
Ricordo di Sinisgalli a 10 anni dalla scomparsa
di Renato Aymone
L'unico ricordo dal vivo di Sinisgalli è legato per me ad un'intervista televisiva. Il "Moro" dalla ricca chioma d'argento commentava la riuscita di una mostra di suoi disegni al "Millennio", esprimendo la propria soddisfazione con una gioia trepida ed ingenua, quasi non si aspettasse dagli dei questo tardo favore. Che poi fu l'ultimo. Si spense infatti poco tempo dopo, la notte del 31 gennaio del 1981, quando ancora la mostra era in corso. A dieci anni da quella data Leonardo Sinisgalli è più vivo d'allora per tanti suoi fans, per tutti coloro che seguitarono ad esplorare i territori delle sue prose e dei suoi versi. Lui riteneva, con un orgoglio non privo di una sottile disperazione, che anche il critico più fraterno avrebbe potuto eplorare l'opera sua solo al modo del bruco che attraversa la superficie della mela, e chissà se una tale convinzione non fosse in estremo una forma di scongiuro da parte del suo pudore. È verissima in ogni caso l'osservazione di Anceschi: "Sinisgalli è un poeta riconoscibile subito nella sua forza di slancio meditato, ma richiede nel modo più perentorio un avvicinamento lento e partecipato, come un alto corteggiamento". Corteggiare Siniscalli ha significato naturalmente corteggiare me stesso, provocarmi nel mio profilo più sicuro e profondo. Tale per altro il requisito che solo i maestri possono mettere in gioco, ed è a dire una seduzione che induce a loro inoltrando il lettore al tempo stesso nel cuore dei propri domini, nei domini del proprio cuore.
In un distico del Divano Goethe raccomanda: "Chi vuol comprendere il poeta / deve recarsi nella terra del poeta"; e dal suo punto di vista, da un'ottica antropologica saldamente romantica, proponeva un'indubbia verità, ma che ormai ci è possibile perfino rovesciare compiutamente. Occupandomi di Bodini ad esempio suggerivo, con risoluta proposta, una gita nel Salento con La Luna dei Borboni come Baedeker. Voglio dire che l'opera del poeta, e dell'artista in generale, ci permette in alcuni casi di decifrare, di dare un senso, primariamente, alla terra procuratrice.
Ma non è una questione di ordine storico, e teorico insieme, e nemmeno diacronico all'opera di un poeta, che mi preme riferire; piuttosto un'esperienza di viaggio, a Montemurro, cercando una traccia, un segnale, qualche minima epifania che potesse rappresentarmi un vivente profilo di Sinisgalli. Tanti chilometri in superstrada, percorrendo una campagna carica di neve, ma le lande desolate bisognava osservarle nel loro verde, verde nel verde e nient'altro, coi cigli franosi, lunghissime strisce di terra nuda che cespugliavano di calendule, più giù, verso l'agro metapontino, così diverso dal paesaggio appenninico. Una solerte e gentile nipote, impiegata al comune e custode orgogliosa della casa, venne ad aprire. Ispezionai la cucina-soggiorno; dispari mucchi di libri nel vano della scala. Salimmo al piano superiore. Ai muri un ritratto "ingenuo" del poeta di qualche artista locale, forchettine su fondo nero di Capogrossi, e un Gentilini, mi pare; e stampe, e cose più anonime. Il tavolino era stato sgombrato, a parte un quadernetto-zibaldone e qualche accessorio di scrittura. Sulla spalliera di una sedia, vicino al letto, un abito estivo ripiegato, col panama lasciato sul ripiano. Un'aria di tempo stantio gravava negli ambienti quasi a respingere con quel sentore l'estraneo che li scrutava sensibilmente.
Mi affacciai su Libritti, un anonimo crepaccio sotto l'orlo delle case, e non mancai di visitare i posti più celebrati, fino alle quattro contrade canoniche. Percorsi la strada che porta in alto, più sopra del paese, a vedere la cappella. Era stato necessario - confidava la giovane accompagnatrice - sfondare la parete per sistemare la bara. La tramontana intirizziva il piccolo cimitero; sparse roselline di un rosso vivo sembravano piccole fiamme votive. Se n'era andato, forse, quando l'ultima scherda di baccalà, reietta e infreddolita, era scomparsa dagli usci delle botteghe. Anche lui come l'insegna di un Sud appartenente a una storia troppo remota.
Si concluse così la mia visita alle ossa di Leonardo, coi suoi versi e racconti che affioravano per lacerti alla mente, ma più vitali di qualsiasi testimonianza. E fu l'occasione per sentire come tutta la sua poesia consiste in un abilissima, sofisticata "montatura". D'altra parte lo aveva detto lui stesso, con una formula algebrica. Chi vuol comprendere il poeta si rechi allora, di preferenza, nella sua biblioteca. Celebrare nel modo più pertinente questo decennio sinisgalliano significa allora per me rinnovare l'invito a recarsi non dico nella sua biblioteca, ma certo nell'opera sua, nel mondo di questo grande meridionale che è tra i pochi di effettivo livello europeo nell'orizzonte letterario del Novecento.
Metello, n. 0, Cava de' Tirreni, marzo 1991
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