Fiori pari fiori dispari
di Leonardo Sinisgalli
in Il Poliedro
fasc. IV, nn. 6-7 (giu-lug 1967)
Leonardo Sinisgalli è lucano di Montemurro: ingegenre, poeta, scrittore e critico d'arte. Dopo una lunga esperienza milanese e parigina si trasferisce a Roma ove da molti anni risiede.
E' stato l'ideatore di certe moderne formule pubblicitarie e della rivista «Civiltà delle macchine» da cui, si può dire, si propagarono in tutto il mondo i concetti della grafica applicata alle ultime conquiste industriali e del design inteso come indispensabile corroborante dell'arte tipografica.
Poeta soprattutto, con trent'anni di anticipo su certi attuali «vati» meridionalisti ha cambiato la disperata bellezza del Mezzogioeno, la fame contadina, le albe lucane senza speranze nè avvenire.
Il capitolo che pubblichiamo è tolto dal volume «Prose» ristampato dalla Casa editrice Leonardo da Vinci di Bari e nel quale sono raccolti gli scritti di «Fiori pari fiori dispari» e «Belliboschi».
Recentemente Leonardo Sinisgalli ha vinto il Premio Fiuggi per lapoesia mentre Bari gli ha decretato la Targa d'oro dell'amicizia.
Ho ritrovato i miei compiti del tempo della guerra, i compagni di scuola, l’aula del convento, il mio maestro maniaco e distratto che aveva lo stesso nome di mio padre e morì avvelenato dal fumo. Per molti anni le nostre mamme continuarono a parlare di lui come di un uomo rovinato dai vizi. Ritrovo in queste pagine l’ombra della sua mano, larga come i fogli che portano diverse date tra il gennaio e il giugno 1917. E' un quaderno smilzo che ha sulla copertina un’illustrazione dell’eccidio di Serajevo e poche righe di leggenda. Quell’anno, a star dietro ai ricordi e ai dettati del maestro, dev’essere stato gravido di minacce. Una stagione di morti improvvise, di vendette celesti, di cui l’infanzia non si diede alcun conto; io stesso mi sforzo di scoprire quale ha potuto essere in quei mesi l’avvenimento che tanto l’incantò e distrasse. (La peggiore bestemmia che si potesse pronunciare nelle nostre case contro una persona viva era allora la morte in sonno. Le malattie più temute: il tòcco, vale a dire la catalessi, e il mòto, cioè l’epilessia. Il tòcco era il colpo al cuore inferto dall’angelo della morte. Il mòto, un vero e proprio cataclisma corporale. Ma i casi sottoposti alla mia riflessione in quel quaderno sono di una maggiore gravità. Il ragazzo non li tenne in nessun conto.) Il fuoco scese a far vittime sulla mia terra. Quell’incendio guastava la faccia, il cadavere perdeva qualunque decoro: io ho ancora l’impressione di quei corpi simili a tronchi cacciati umidi dalla carbonaia. Una morte senza maestà che a noi ragazzi non dovette sembrare più di una burla. Come si può spiegare l’indifferenza palese negli «svolgimenti»? Mi ricostruisco nella memoria qualcuno di quei fatti. Apollonia, la vecchia a cui si riferisce il tema del 18 febbraio «Come la vecchia Apolloniafu bruciata viva», fu sorpresa dal fulmine dentro la casa. Qualcuno disse che il fulmine era sceso lungo la catena di ferro del camino, o forse era stato attirato dal ferro del letto. Certo ella rimase seduta vicino al fuoco, immobile come un sacco, fintanto che non venne dato l’allarme dagli stessi ragazzi, che spaventati dal tuono erano corsi a trovar riparo nel vano della sua porta. Le porte delle nostre case sono in tre pezzi, divise a metà da una linea verticale, poi la metà destra è ancora spaccata in due parti sovrapposte. E' la banda superiore che si tiene sempre aperta. I bambini, ritti sulle punte dei piedi, arrivano appena a guardare dal di fuori entro la casa di Apollonia. Essi sperano di sorprenderla, come hanno sentito dire, a fare gli angeli o per lo meno, com’è il suo mestiere, a fare di un gallo un cappone. Per noi è questa la sua magia. Ma non ci fa paura. Scampati dal fulmine e scossi
dal tuono ci affacciamo sulla porta, appena in tempo per buttare un sasso sulla spalla della vecchia che non si volta né si scuote. Di Apollonia si continuò a parlare sottovoce nelle nostre famiglie e qualcuno disse in piazza che quella morte violenta era un castigo ai suoi peccati. Nello «svolgimento» è scritto testualmente così: «La vecchia Pollonia voleva strappare le uova alle galline e alle donne. Perciò i suoi occhi sono rimasti bruciati e le sue mani erano più nere del fumo. Il prete l’ha aspettata senza pompa
e dietro la cassa gli uomini facevano discorsi sporchi. La vecchia Pollonia non ha figli e nessuno si farà crescere la barba». Si capisce che molte frasi dovettero essere pronunziate in famiglia. Riguardo alle uova basterà ricordare che appena noi ragazzi sentivamo una gallina in cerca del nido, correvamo a nasconderla sotto una cesta e la tenevamo prigioniera fintanto che, fatto l’uovo, non la sentivamo cantare. Per evitare questo, alcune vecchie riuscivano addirittura a strappar l’uovo prima della cova. Io
ricordo le sere in cui andavamo da zia Pollonia con il gallo nascosto sotto il cappotto, perché nelle nostre case volevano ingrassarlo per carnevale. La vecchia ci faceva sedere e ci dava in mano per distrarci le immagini illustrate dei miracoli: Sant’Antonio che parla ai pesci, Sant’Antonio che si fa in due e parla a Padova e a Tolosa, Sant’Antonio che dà la parola a un mutolo. Essa si allontanava nell’altra stanza che chiamava il laboratorio. Il gallo urlava. Si capiva dal rancore di quella voce che Pollonia gli stringeva il collo in pugno per non far correre gente e farsi sorprendere in flagrante dai carabinieri. Pareva che gli avesse strappato il cuore, perché l’urlo cadeva in un lungo deliquio di voci gorgogliate nel sangue. Lo fasciava per bene e me lo nascondeva sotto il cappotto. Le nostre mamme avevano proibito alla vecchia di farci guardare. Ma noi ne sapevamo qualcosa perché non era difficile distinguere entro quell’urlo il taglio secco delle forbici. La morte della vecchia Pollonia non ha nulla di soprannaturale. Stupisce solo ch’essa sia stata seguita il 12 marzo dalla morte di un uomo che, in vista del temporale, s’era andato a
riparare sotto i pioppi. L’albero restò scuoiato e l’uomo bruciato vivo in un attimo. È inutile sfogliare a una a una le pagine del quaderno: c’è la morte di un branco di pecore alla Serra (io le rivedo ancora controluce sul crinale della collina), c’è l’incendio in contrada Belliboschi. Infine, il 18 maggio, la morte di un nostro compagno, fulminato a cavallo. In un altro luogo ho detto come la presenza di quel piccolo Lucifero abbia allargato i confini delle nostre sere d’infanzia. Ma nel quaderno, quel che mi turba è la nessuna pietà per la sua scomparsa. «Giovanni era stato cacciato dalla scuola e stava al seguito degli animali. Il cavallo lo ha portato morto fino alla porta di casa col latte fresco nelle secchie. Giovanni sapeva i nidi». Sua madre chiedeva delle cose assurde, nel pianto, voleva farlo svegliare a colpi di tamburo, più forti del tuono. Ricordo lo stuolo delle lamentatrici che imprecavano furibonde contro i troni, ecc. ecc. Dovette essere assai funesta quella primavera. Ma che cosa abbia potuto fare invidia al cielo
non so dire. Forse la nostra curiosità che giocava a carte scoperte con la morte, o la nostra felicità troppo palese dovette destar sospetto agli angeli. Le case di quei morti furono lavate, se è vero che il demonio quando passa lascia tanta puzza. Il vescovo venne per la cresima, e lo Spirito Santo discese sulle nostre teste e sui tetti, gentile come una colomba in mezzo alle galline. Perfino i tagliaboschi vennero a farsi benedire. S’erano aggiustati, ma la polvere del carbone e il fumo delle fosse aderivano alla faccia come pulci. Le narici erano rosee e i denti bianchissimi. Il piccolo Leonardo imparò allora la preghiera all’Angelo di Dio: Illumina, custodisci, reggi e governa me che ti fui affidato dalla pietà superna.
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