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Edoardo Persico e la crisi dell'architetura

di Leonardo Sinisgalli
in La Casa. Quaderni di architettura e di critica
n. 6, De Luca  editore, Roma 1959

 

A circa dieci anni di distanza dalla sua morte ci tornano in mente le sue parole. Persico non era un esteta, era qualcosa di più di un Apollinaire italiano. Egli soffrì e capì di più di tutti noi, che allora eravamo soltanto ragazzi, la grande crisi dell'architettura come il sintomo di una incertezza più grave e oscura che pesava sulla nostra sorte. Egli si accorse per primo che il sogno di un'architettura di Stato, come s'andava formando nella coscienza e nelle ambizioni del dittatore e dei suuoi vasalli, da Ojetti a Renato Ricci, da del Debbio a Morpurgo, fomentato dagli slogans non soltanto di Pensabene ma perfino di Ciocca, di Bardi e di Bontempelli, era un brutto sogno, un sogno spaventoso; e allora, per distrarsi da quell'incubo, egli commentava le vive e gracili strutture di una cabina di Luigi Cosenza, o il gusto di alcune vetrine di Gigi Chessa, o le sculture astratte di Lucio Fontana, o i manifesti di Nizzoli. In quell'epoca, quando la rivista Quadrante aveva lanciato la tesi di una architettura ispirata ai principici dello Statuto Corporativo, egli scrisse un saggio, Punto e da capo, che resterà un modello di critica spinta al di là delle analisi formali, in una zona di interessi umani, religiosi, politici. Fu allora che col suo inseparabile Nizzoli (un artigiano degno della nostra vera tradizione, piccolo, tarchiato, con le mani sporche ma con una intelligenza penetrantissima, non inferiore a quella di Cassandre, di Bayer, di Bill) egli progettò i due negozi Paker, al Corso e in Via Santa Margherita, che restano (se le bombe non li hanno frantumati) gli esempi più belli della sua capacità creativa. Persico si opponeva coi fatti ai dogmi meschini dei cortigiani casalinghi, i quali trafficavano coi Castiglioni, con gli Scalera, coi Vaselli, con gli Innocenti, coi Lasa, con tutti gli imprenditori e fornitori di pietre untuose, di intonachi rancidi, e costruiva, soltanto con qualche chilo di ferro e alcune spanne di vetro, due interni di negozio che stavano a dire, nel cuore di Milano, poche chiare parole, consolanti parole, a chi credeva ancora nell'energia dell'intelligenza europea. Si sa quanto i satrapi di Roma avessero in sopetto quest'aggettivo, che affiorava ogni tanto nei rapporti che l'Ovra di Torino, di Genova, o di Milano spediva al Viminale. Ma mi preme dire altro. Non voglio far la storia dei clans milanesi, i piccoli covi della sinistra intelletuale che si adunavano sempre al di qua di Via Solferino e preferivano a Bagutta le osterie del Verziere e del Bottonuto. Di quella sinistra Persico è stato, fino alla morte, l'animatore. Persico che a noi emigranti offrì asilo e aiuto, ma soprattutto la speranza di poter lassù mettere alla prova qualcosa che avesse più valore della nostra intelligenza, non la pigra capacità di scrivere una buona pagina, ma la attiva e affettuosa collaborazione con gli uomini: tipografi, vetrai, disegnatori, architetti, industriali. Persico presentandoci degli artigiani come Lucini, come Nizzoli, come Buffoni (anzichè le eminenze della città: Padre Gemelli, Mattioli e la signora Ruskaja), sapeva di farci un dono che ci avrebbe giovato per tutta la vita, sapeva di allargare la nostra educazione nell'unico senso veramente utile. Così il miraggio dell'architettura significò per noi tante cose, più che un problema di stile, la possibilità di adeguare la vita nostra, le nostre aspirazioni, le nostre virtù, a quelle di tutti gli uomini. Il frutto di una civiltà ci offriva da spremere il suo succo: succo amaro per noi meridionali terragni che avevamo ancora sulle labbra il sapore del nettare. un critico, se ci sarà, un critico che non si farà sedurre soltanto dalle crisi della metrica, potrà scoprire molti fenomeni curiosi nelle pagine di quei tre o quattro poeti del Regno delle Due Sicilie, trapiantati dal destino in una città di pianura, carica di nebbia, di ciminiere e di coke metallurgico. Quegli emigranti che per otto ore al giorno stavano chiusi in una camera d'affitto a tradurre romanzi americani, o si alzavano alle cinque per raggiungere l'ufficio del Genio Civile di Sondrio, o correggevano le bozze degli annunci economici del Corriere, o giravano tra Mantova, Varese e Pavia con la borsa piena di campioni di linoleum, incontravano Persico, a tarda ora, al caffè Donini. Milano non è una bella città, ma i lombardi sono una grande razza. Gli alberi sparsi e radi di Porta Nuova, di Piazza Tricolore, i tigli di Porta Venezia, di Piazza Tricolore, i tigli di Porta Venezia ti aprono il cuore. Noi ci affezionammo ai bagni popolari, alle mense a prezzo fisso, alla grande sala della Pelota. Per più di un anno, il mio primo anno di lavoro, io riuscii a scrollare il torpore triste del mio sangue e la mia terribile avidità di sonno: dovevo tornare in ufficio alle due del pomeriggio, e ricordo l'affanno di quelle giornate. Riuscii a cronometrare tutti i miei passi, tutti gli itinerari, la durata dei pasti, il tempo per lavarmi, per vestirmi, per fare le scale, per fumare una sigaretta. Mi fidavo della grande precisione degli orologi della città, del buon funzionamento delle sveglie: dormivo dieci minuti dall'una e mezzo alle due meno venti. Lo squillo delle due sveglie nella piccola stanza al sesto piano di Via Rugabella metteva in allegria tutti i miei vicini. Prendevo gusto alla precisione, mi costruivo un'attitudine alla puntualità, insensibilmente, come le giraffe riescono a farsi il collo lungo. Ero addoloratissimo della rinuncia al sonno pomeridiano e Persico mi spiego che il sonno non ha durata, ha invece una profondità. «Basta toccar fondo, basta addormentarsi. E’ come girare un interruttore. Un secondo vale un tempo infinito». A quell'epoca, verso il 1935, egli raccolse in un volume delle Edizioni Domus alcuni scritti di Venturi, di Levi, di Argan, di Pica, di Pasquali, di Pacchioni, di Pagano, di Marangoni, sotto il titolo: Dopo Sant'Elia. (Neppure questo libro trovo citato nel recente saggio di Bruno Zevi, che brulica di nomi inglesi, scandinavi, francesi, americani, russi, australiani; ed io non so come rammaricarmi di questo con l'autore. Vorrei dirgli che egli ci fa fare la figura dei Persiani di Montesquieu di fronte al mistero della Trinità. Ma anche Giasone credeva di trovar barbari, quando mise piede nell'isola irsuta e trovò invece triangoli disegnati sulla sabbia. «Qui ci sono degli uomini» avranno esclamato gli ufficiali dei commandos nell'avvistare a poca distanza da Battipaglia il Tempio di Pesto). Persico fu eccessivamente discreto: fino all'ultimo aveva promesso d'includervi un suo saggio, ma il libro usci senza il suo nome. E’ un bel libro lo stesso, è un libro di Persico, che allora aveva preso molto a cuore i problemi della tipografia. Tra il dannunzianesimo di Bertieri e il surrealismo libertino di Longanesi, egli trovò soluzioni più serie, e tutti sappiamo quanto le sue esperienze abbiano giovato a Modiano, a Frassinelli, a Einaudi. Alcuni manifesti impaginati con la collaborazione di Nizzoli, restano tra i pochi documenti capaci di reggere il confronto con i cartelli di propaganda sovietica. Una casa, un libro, una sedia, un film, un manifesto, un'insegna di negozio, erano per lui testimonianze molto serie, testimonianze positive di un modo di vivere, di sentire, di vedere. Si sa che gli infissi delle case romane non sono seri, si sa che un giornale stampato a Roma non è un giornale serio, si sa che i libri sfornati dalle tipografie romane sono mal rilegati, mal cuciti, mal stampati, zeppi di refusi. Persico sapeva che una grande architettura può nascere solo dalla collaborazione di un artista con una maestranza giudiziosa, progredita; che il magutt milanese e il mastro salernitano costruirono i duomi e le terme; che la crisi dell'architettura in Italia è stata pure inasprita dalla fretta imposta dal Calendario del Regime che stabiliva un termine di nove mesi per costruire una città. E io credo che uno studio utile, uno studio da tentare, degno della memoria di Persico, degno della memoria di Gramsci, sarebbe una storia dei muratori italiani, gli unici che, a differenza dei meccanici e dei contadini, hanno saldato il genio del Nord e del Sud, hanno risolto il dissidio tra il benessere e la povertà, tra le macchine e la terra. Mi spiego: sarebbe utile conoscere la provenienza, l'ingaggio, i contratti, il regolamento di lavoro degli operai che hanno lavorato a Roma con Bernini, con Borromini, con Della Porta, con Vignola. Sarebbe utile conoscere la provenienza, l'ingaggio, ecc., degli operai che hanno lavorato a Roma con Valadier. E così via, fino a quelli che hanno lavorato con Morpurgo, con Del Debbio e con Piacentini. Ebbene io ho l'impressione che la manodopera al servizio degli architetti fascisti fosse costituita di bulli, di burini raccogliticci, che scelsero un mestiere più lucroso degli altri, semplicemente perché non si chiedeva loro un impegno o un'abilità particolare. Mentre gli operai di Bernini, di Borromini o di Michelangelo forse non erano di Roma. Il romano di Roma è nato per vendere abbacchi, per coltivare carciofi, per spegnere moccoli nelle chiese; nel migliore dei casi può fare il cortigiano o lo scriba; non credo sia nato per fare il muratore. Per questo io vorrei sapere se il barocco di Roma e romano come è leccese il barocco di Lecce. Il fallimento dello Stile Littorio io me lo spiego così, ricordando i ciabattini, i sarti, i contadini che al mio paese furono reclutati dai fratelli Del Fante per costruire le tristi case degli impiegati del capoluogo. L'Arte Muraria non aveva subito mai una così grave umiliazione. Problemi del genere nascono tutte le volte che l'esecuzione di un'opera affidata a un medium che lega l'idea di una cosa alla cosa creata. Più che l'insufficienza degli architetti io credo che noi scontiamo ancora la crisi provocata dallo standard nel campo dei mestieri. E’ il destino delle arti applicate, ed è merito della Bauhaus aver insistito sulla necessità di creare un artigianato capace, progredito. Questo spiega le simpatie di Persico per Gropius e le sue preferenze per il gotico piuttosto che per il rinascimento. Persico insomma aveva già superato la stasi decadentistica, geometrica, il muro lirico dei discepoli di Le Corbusier. Uno dei suoi ultimi scritti: Profezia dell'architettura (questa sera lavoro a memoria, all'ottavo piano, senza libri, con le jeeps e gli usignoli che mi danno fastidio) contiene un elogio commosso dell'opera di Frank Lloyd Wright. In quella Profezia Persico parlava con commozione del grande pioniere, del Patriarca di Taliesin, e citava a commento della sua opera, non so se una favola di Andersen o un racconto di Anderson: ma al centro c'era un personaggio felice, una ragazza, questo ricordo bene, una specie di Virginia viva e poetica, che gli pareva l'abitatrice ideale di una casa di Wright. Cosi che alla gelida Arcadia di Le Corbusier, al mito della machine à habiter, ai poncifs della réaction poétique e della costruction spirituelle, alla magia di Eupalino, egli opponeva alcune semplici verità che potevano apparire barbare ed erano umane e innocenti. Wright aveva scritto: «Portare il buon senso nel regno sacro dell'arte è cosa offensiva e quanto mai impopolare nei circoli accademici. Una specie di volgarità...». E gli illuministi di Europa, i mistici del lucido ordine si trovarono confusi di fronte all'ostinazione, alla sincerità del yankee che aveva osato dir male della cupola di Michelangelo. Persico fece in tempo a scoprire i termini della crisi e a capire che il modo di essere dell'architettura non è l'alveare ma il guscio della chiocciola. A distanza di dieci anni molti dogmi, molti idoli sono tramontati, molte posizioni si sono chiarite. Nessuno pensa più a fabbricare Templi, fossero pure i Templi della Pace, della Giustizia, della Libertà; tutti si affannano a predisporre materiali e maestranze e progetti per ricostruire la casa dell'uomo. Non so se gli ideali modelli di città pensate da Le Corbusier, in un momento di euforia protestante, finiranno nei musei, con quelle grame alberature posticce che fingevano le zone verdi tra le immaginarie case di gesso, non so quanto la cura dell'«aria esatta» potrà consolare ancora gli impiegati della Montecatini o della Viscosa; e come hanno resistito alla guerra le serrature di alluminio, le batterie di ascensori e le pareti a coulisse. Il pessimismo cattolico ha mostrato agli uomini l'insania di molte chimere, le profonde e inesauste sorgenti del male nella coscienza dei popoli. Les splendides villes delusero anche Rimbaud. Io credo che un immenso flusso a ritroso ricondurrà le genti verso la campagna. Roma, Gerusalemme, Babilonia, La Mecca, non avranno che la consistenza di un miraggio agli occhi delusi dei pellegrini. Verrà un'era di grandi esodi, di sciami di popoli che ritroveranno intorno a un cespo di rose il principio di una più ardente carità? Spetterà al nostro secolo, dopo un avvio cosi oscuro e catastrofico, ricondurre agli ovili le greggi stremate? Nessuno meglio di Kafka ha espresso l'angoscia di noi povere bestie, strette nelle prigioni che i nostri padri progressisti murarono per offrire ai loro figli una felicità positiva. Kafka era un semita e conosceva più di tutti le nostre colpe. Così come le conosceva Persico che era sinceramente cristiano e cattolico. Vorrei avere sotto gli occhi, questa sera, le lettere scritte da Persico a Garrone, da Persico a Garbari. Potrei definire meglio la sua religione. Vorrei poter citare qualcuna di quelle presentazioni che egli scrisse per artisti come Manzù, Sassu, Birolli, Del Bon, Menzio, Cantatore, Broggini, Spazzapan, e la sua nota su Zandomeneghi. Persico diffidava della critica dei professori e dei poeti. Gli piaceva definire un clima, un costume, un vizio di gusto. La sua stessa scrittura non era mai uno sterile esercizio, non girava mai a vuoto intorno a un'idea o a un oggetto, era fertile di analogie, succosa, polimaterica. Egli pensava che l'arte deve agire sulla coscienza degli uomini, sulla vita degli uomini, veramente aiutarli a vivere. Pensava che un'opera d'arte, un libro, una statua, un quadro, una casa valgono nella storia dei popoli più di un trattato di alleanza. Si capisce come l'architettura, infine, dovesse assorbire tutti i suoi pensieri. Tutti gli ingredienti spurii, tecnici, giuridici, biologici, lo interessavano enormemente. Come Loos, come Breuer, come Aalto, egli avrebbe lavorato dieci anni per costruire il modello di una sedia o di una serranda o di una maniglia, ma non avrebbe perso un minuto per stabilire la preminenza del quadrato sul rettangolo o del cilindro sul prisma. Tanto che all'estetismo di Le Corbusier egli preferì il tecnicismo di Gropius, e più tardi, primo fra tutti i critici europei, riconobbe il genio di Frank Lloyd Wright. Ma ora non c'è più luogo a equivoci: quella di Wright è architettura flagrante, inevitabile, sincera. Non è pseudo-architettura, para-architettura, ultra-architettura. Oggi noi sappiamo che egli ha vo luto dire sempre la verità. Non sappiamo invece se la poesia che ci viene dall'America, la poesia pseudo metafisica, pseudo-eroica degli allievi di Eliot contenga la stessa garanzia di autenticità delle case di Wright o dei racconti di Anderson. A noi puzza un po' di surrogato, di poesia in scatola. Noi pensiamo che Eliot e Auden e Mac Leish, in confronto alla Bibbia, all'Iliade, alla Divina Commedia stanno nello stesso rapporto di Jules Verne e di Flammarion ai Paralipomena di Keplero, al Nuncius di Galileo, ai Principia di Newton. Persico ci ha lasciato il titolo di un suo libro, forse un libro mai scritto, un libro di quelli che si potrebbero scrivere in fin di vita e tante volte non si fa in tempo a scrivere, il libro in cui si vorrebbe dire la verità ultima. Quel libro si chiamava: Mari e Monti della Luna.

25 Maggio 2021

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