Sarebbe stato giusto morire
di Leonardo Sinisgalli
in Inventario
A.III, n.3 (autunno 1950)
Le case dove vivono le nostre tribù non sono mail al livello della strada: più in alto o più in basso. Ci sono due o tre gradini davanti alla porta, oppure una rampa e un pianerottolo. Ma le abitazioni che giacciono sotto ripa hanno la scala interna, e prendono luce dai balconi sul fosso. La loro facciata guarda in strapiombo il torrente e le vigne, anche se l'ingresso è sulla rotabile.
Seduti sulla pietra, fuori la porta, noi facevamo la siesta dopo cena nella stagione dolce. Mia madre poco prima si era arrampicata sullo sgabello e aveva spento il lume. Lasciava invece appesa la lucerna alla catena del camino.
Per quei pochi minuti, approfittando della sua stanchezza, dell'oscurità e del sopore che l'assorbiva durante le orazioni (ho visto mia madre pregare sempre a palpebre chiuse) noi riuscivamo a toglierci le scarpe e a godere, se pure per un tempo brevissimo, la felicità di toccarci coi piedi l'uno con l'altro.
Quando mia madre si svegliava da quel deliquio, - aveva aperto gli occhi, s'era fatto il segno della croce, si era alzata, - tirava dentro casa la sedia e andava nell'altra camera a prepararci i letti.
Una sera ci trattenne più a lungo.
S'era avvicinata a noi, uscendo dall'oscurità e sporgendo il volto verso il vano della porta, una donna.
«Carmina» disse.
«Pòlita, chi ti manda?» chiese mia madre sorpresa.
Si parlarono sommesse nelle orecchie. Il borgo tornò silenzioso quando Pòlita scomparve avvolta nel suo panno nero.
Ci fu per qualche tempo un insolito viavai a casa nostra. Paolo Nicola con la punta ferrata della mazza batteva i tre colpi alla porta; appariva gigantesco e doveva piegare la testa per non toccare i grappoli di agli attaccati al soffitto. Poi veniva il Notaio accompagnato dal nonno. I tre vegliardi, seduti attorno a un tavolinetto, inforcavano gli occhiali, e allora si accorgevano di noi, intenti nell'angolo opposto della stanza a svestire le pannocchie di granturco. Con le barbe d'oro delle spighe fabbricavamo delle trecce grandiose, cappucci, code, criniere. La nostra mitologia infantile era assai rudimentale e domestica: non andava oltre il mistero della capra e del montone.
I tre Soloni discutevano i capitoli dello strumento, inzuppando biscotti nel vino, sbadigliando, aspirando la polverina micidiale delle tabaccherie. Noi, dalla penombra, coperti coi velli di granturco, e tinte le facce col carbone, zoppicanti e a saltelli, ci buttavamo contro i vecchi mugghiando. «Aiuto, aiuto, aiuto!»ridacchiavano.
I Tre Soloni discutevano i capitoli dello strumento, inzuppando biscotti nel vino, sbadigliando, aspirando la polverina micidiale delle tabacchiere. Noi, dalla penombra, coperti coi velli di granturco, e tinte le facce col carbone, zoppicanti e a saltelli, ci buttavamo contro i vecchi mugghiando. «Aiuto, aiuto, aiuto!» ridacchiavano.
La mamma che si era appartata per rassettarsi ricompariva. Noi tornavamo nell'angolo, accanto al fuoco, a riempire le ceste di quei chicchi scarlatti.
Le sedute pomeridiane si ripeterono. La cerimonia della frima, l'ultima volta si svolse con una certa solennità. Fummo accolti anche noi. Anche noi ascoltammo dalla voce commossa del Notaio la lettura dei paragrafi.
Passarono molti anni prima di trasferirci coi nostri arredi nella casa di fronte. Paolo Nicola ne conservò l'usufrutto fino alla morte. Quando mia madre ne prese possesso fu dolorosamente colpita da una serie di circostanze strane. Le carte sulle pareti erano state squarciate senza nessun discernimento. Tutte le porte interne erano state rimosse. Dei pochi mobili era rimasto soltanto lo scheletro. Il vecchio aveva dovuto trascorrere l'ultimo inverno in condizioni assai tristi: quasto er ail pensiero di mia madre. «Acrà alimentato il fuoco con le carte e gli infissi. Ha bruciato i tiretti. Ha smantellato le botti. Pçlita gli ha portato via tutti i risparmi.»
Trascorremmo ancora alcuni anni nella casa natia prima di fare il trasloco. L'abilitazione di Paolo Nicola era lì a pochi passi, distante da noi appena la larghezza di una strada di paes, eppure noi non ci eravamo mai entrati.
Le sale ampie erano disposte tra la via e gli orti, i soffitti curvi. Il torrente non scorreva più dientro i letti.
Per molte stagioni dentro quei vani vuoti furono stese le lenzuola a seccare. Sui mattoni furono scaricati i sacchi di ghianda.
Ho il ricordo ancora vivo di una lontana notte di angoscia che io vi trascorsi. Non so perchè mai quella sera mia madre volle punirmi così duramente. I vicini dovevano aver riferimento qualche cosa circa un'intesa tra me e i miei compagni. Qualcuno sicuramente aveva scoperto il nostro giuoco. Ci mettevamo in fila contro un muro come per una scommessa a fabbricare il nostro miele, a fabbricare la cera e il miele con voluttà. Lo spiazzo recondito dove quei riti impuri venivano celebrati sporgeva sul fosseo, a pochi metri d'altezza sopra il torrente; ed era difeso alla vista dall'alto, dalle cime spesse delle acacie. Tuttavia da una cantina sotterranea qualcuno doveva spiare le nostre manovre clandestinamente, il nostro tremante delirio.
Trascorsi al buio tutta la notte nella casa vuota, accucciato dietro la porta. Non piansi, non gridai, non chiesi soccorso a nessuno. Pensai che sarebbe stato giusto morire, e me ne convinsi così ciecamente che riuscii a prender sonno, vinto dal terrore di dover continuare a nascondere a mia madre le mie vergogne e ai compagni la mia viltà.
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