Lettera da Montemurro
Giuseppe Tedeschi
Ero legato a poche notizie "legali". Avevo solo insegne, versi, nomi, caratteri, campagne. Avrei potuto come una preghiera parlarvi di ciò e parlarvi dei tralci di certe viti, parlarvi di un bruco, di una nottola o di una civetta. Parlarvi di Gannàno e di Libritti così come me le ero fantasticate. Avrei potuto dirvi quanti passi misurasse la Vigna vecchia e parlarvi a perdifiato di Belliboschi, di Vena, di Canalette e di certe aie a circolo sul paese o del vino delle Piane. Avrei potuto scrivere sulle misure di certi "vicoli stretti e squillanti" o su come " sono veramente incredibili i colori dell'immondizia ".
Ma come avrei fatto a dirvi di tutto il resto, di tutto ciò che non era entrato nella poesia? (Ciò che è "legale" non entra nella poesia). Cioè distanze, chilometri, biglietti di viaggio, cambi, stazioni, percorsi, numero di abitanti, altitudini, economia, ecc.?
Montemurro appunto non era niente di preciso: era versi e nomi che esistevano perché esisteva la Poesia. Montemurro avrebbe potuto essere anche a Tahiti o sulle Ande, in Normandia o in California invece che in provincia di Potenza. Che importanza faceva. Di Montemurro esisteva tutto per iscritto. Ed era poesia.
Ecco perché allora la mia confusione fu grande quando decisi la partenza verso la tahitiana e californiana Montemurro. Alla Stazione Termini le informazioni erano disastrose. Era davvero più facile andare in California che a Montemurro. I nomi si accavallavano. Fino a Napoli o a Battipaglia tutto sembrava felice. Qui le incertezze. Gli informatori mi parlavano di Potenza di Matera di Brindisi di Taranto di Metaponto di Lagonegro senza riuscire a trovarmi una via. Non esisteva linea ferroviaria. Avrei dovuto scendere in un certo posto e poi proseguire con autobus. Non mi raccapezzavo, nè si raccapezzavano gli addetti all'Ufficio Informazioni della Stazione Termini. Bene. "Chi mi ha messo il pallino di Montemurro, dell'Agri e di Verdesca ora deve "legalmente" istruirmi", pensai. Mi precipito a Via Torino. Non c'era. Già partito. Esposi le idee a Vincenzo Fortuna. Anche Vincenzo era in procinto per quel viaggio. Ci accordammo di telefonarci, di stare in contatto. Ma i contatti si persero. Alla ventura il giorno stabilito, pensando che Vincenzo non venisse più e che fosse partito per Bologna come mi aveva accennato, faccio un biglietto per Battipaglia. Qui avrei trovato la strada (Data : 13 agosto).
Non pensavo più a Vincenzo. Ero triste. Anche in Prima Classe gran folla. Il caldo lo ricorderete. Il vento dei finestrini era rovente. Leggevo "Il Punto". Qualcuno mi tocca. Guardo: era Vincenzo. L'abbraccio come fosse stato il Salvatore. Era destinato che il viaggio si doveva farlo insieme perché altri inconvenienti avrebbero potuto non farci incontrare. (Scompartimenti, biglietti e controllori).
A Napoli il caldo scoppiava. I treni presi d'assalto. Scena di un gruppo di marinai diretti a Taranto. Tre i partenti, altrettanto i restanti. I restanti avevano con loro una donna piagnucolosa. La madre di qualcuno dei partenti. Aveva chiappe e petto monumentali. Da descriversi e si lamentava in un gergo altrettanto da descriversi. Per tenerla su i compagni si esibivano in lazzi e in epiteti. Qualcuno veniva chiamato "u sardulill", un'altro "capa e bomma". L'ironia era: "Capa e bomma è chillu là, evviva evviva u baccalà".
Comprammo colazioni ma il caldo ci vietava di mangiare. Decidemmo di farlo a Battipaglia. Arrivammo a Battipaglia a respiro mozzo. Vincenzo se ne stette con la testa sotto la fontana. Mangiammo. Riprendemmo treni. A Sicignano degli Alburni un altro treno che avrebbe dovuto fermarci a Montesano Scalo. Qui avremmo preso una corriera per l'ultimo tratto del nostro viaggio.
Cominciavo a capire, respirando quest'aria, come è che si possono scrivere libri come "Fiori pari, Fiori dispari", come è che ci si può confessare con parole di Poesia, com'è che tutto può assumere sapore onirico, del primevi.
Il capitolo Viaggio di "Belliboschi" assumeva sapore attimo per attimo. La Poesia "Lucania" era per me. Inconcepibile, terribilmente inconcepibile come riuscissi a ripeterla verso dopo verso mnemonicamente: io che non ero mai riuscito a ripetere, anche dopo dieci minuti, le parole a me più congeniali. Io che non avrei saputo ripetere allora neanche tre dei versetti più belli dei Salmi o un verso di Novalis o uno il Rimbaud, o di Jessenin, o di Leopardi o alcuni di altri "miei" poeti. Pavese e Luzi, riuscivo a ripetere "Al pellegrino che s'affaccia ai suoi valichi, a chi scende per la stretta degli Alburni o fa il cammino delle pecore lungo le coste della Serra, al nibbio che rompe il filo dell'orizzonte con un rettile negli artigli, all'emigrante, al soldato, a chi torna dai santuari o dall'esilio, a chi dorme negli ovili, al pastore, al mezzadro, al mercante, la Lucania apre le sue lande, le sue valli dove i fiumi scorrono lenti come fiumi di polvere. Lo spirito del silenzio sta nei luoghi della mia dolorosa provincia. Da Elea a Metaponto, sofistico e d'oro, problematico e sottile, divora l'olio nelle chiese, mette il cappuccio nelle case, fa il monaco nelle grotte, cresce con l'erba alle soglie dei vecchi paesi franati. ... Io tornerò vivo sotto le tue piogge rosse. Tornerò senza colpe a battere il tamburo, a legare il mulo alla porta, a raccogliere lumache negli orti. Vedrò fumare le stoppie, le sterpaie le fosse, udrò il merlo cantare sotto i letti, udrò la gatta cantare sui sepolcri? ".
Viaggiavamo intanto tra boschi e gallerie, tra strapiompi e verdi cupissimi. Non immaginavo così questo versante della Lucania. Mi ero fermato alle impressioni di un altro viaggio, di un'altra Lucania: quella che da Potenza va verso Brindisi attraversando Tito, Baragiano, Grassano, Salandra. Mi sono accorto come nessuna regione è tanto dispari da zona a zona più della Lucania. Mi ero fermato alla zona "araba" della Lucania: Pisticci, paese di Bianca Trezzi, Tricarico, paese di Rocco Scotellaro, Stigliano, Garaguso, Ferrandina, Matera.
Questa che vedevo era una Lucania "umbra", densa di verde e di Humus. Vedevo Tramutola, Montesano (spiccavano due guglie altissime. Vincenzo mi spiegava di un riccone venezuelano oriundo della zona che faceva costruire chiese e edifici scolastici con lo stile sudamericano). Viggiano, Marsico Vetere. Erano anni che non vedevo cieli così tersi su monti e colline. Era buio e tutto era limpido. Il nostro autobus filava verso Montemurro. Dai finestrini entravano grilli e falene. Da tutte le parti toccavamo i limiti dei boschi. Le strade sembravano corde che docilmente si snodavano solo sulla maestria dello sterzo di un nottivago autista. Vincenzo mi indicava le luci di Montemurro. Mi diceva che forse stavano allargando la strada o "la stanno restringendo" si allarmava "anche questo può succedere" sorrideva. Lo humor di Vincenzo mi aveva reso leggero, limpido come il cielo nero e limpido di Montemurro.
L'arrivo della corriera nei paesi lucani e anche nei miei paesi è una festa. La corriera è le notizie, le novità, i forestieri, l'imprevisto: una festa che si ripete ogni sera.
Scendevo sulla Piazza di un paese che un poeta era riuscito a farmi amare, un paese che costruivo sul filo di alcuni versi. Era questo il paese da cui a nove anni partì il Poeta.
Sentite: sono parole sue "Io dico qualche volta che sono morto a nove anni, dico a voi amici che il ponte sull'Agri crollò un'ora dopo il nostro transito; mi convinco sempre più che tutto quanto mi è accaduto dopo di allora non mi appartiene... io so di essere stato tradito per tutta la vita uscendo fuori dalle mie dolci mura, FORSE SIAMO POCHI A LAMENTARCI DI NON SAPERE PIU' TROVARE UNA PATRIA FUORI DALLE NOSTRE COLLINE".
Ci accolgono due nipoti di "zio Vincenzo". Non avrei mai considerato che Vincenzo poteva essere chiamato "zio Vincenzo" da due maturissime signorine. È notte. Montemurro dovrò "vederlo" ancora. Mi si fa strada per una discesa; Ricordo "scendo in piazza dalla corriera, percorro un centinaio di metri in discesa tra i sassi sempre ispidi, i fili di paglia, le groppe degli asini, le corna delle capre e dei buoi, giro il chiavistello del portone. Entro in casa mia". Ecco la casa del Poeta. Mi sembra di ravvisarlo sul volto saracino della sorella Anna (la più superba fu Anna tra le rose" ci dice oggi il Poeta). Sono le stesse fattezze somatiche. Lo stesso sorriso caustico, vivo, penetrante. Gli stessi occhi, gli stessi capelli, lo stesso dinamismo mimico, la stessa irruenza. Fu una sera di festa a me viaggiatore, timido poeta in cerca di Poesia, cuore sorpreso in tanti altri cuori che conoscevo solo in Poesia.
Non si può parlare interamente di certe sensazioni. Erano intorno a me i personaggi vivi e morti di opere che non morranno. Respiravo l'aria che aveva respirato Vito Sinisgalli "un fantasma saturnino azzurro e verde", sedevo al tavolo cui aveva seduto Carmina Lacorazza, guardavo gli oggetti che per tanti anni erano stati i compagni di un Poeta. Ho parlato con zio Giacinto, l'erudito zio Giacinto che mi parlava delle vie di Roma con un suo taccuino, sempre a portata di mano, come mi avrebbe parlato dei suoi vicoli e dei suoi poderi. Ho visto la sua casa. Un blocco di casa. Un'isola, aperta da tutte le parti al sole e al panorama. Una casa che non avrei mai pensato potesse esistere in questo o in altro paese. Nipoti, cugini, parenti tutti mi parlavano di certa Poesia. Tutti erano i personaggi forse anche inconsapevoli di certi libri indimenticabili.
La scoperta vera e propria di Montemurro avvenne l'indomani. Vito, il sereno Vito, figlio di Anna, era il mio compagno e il mio informatore. Mi faceva contare i cinque vicoli di Libritti. Mi mostrava la casa dove era nato lo zio Leonardo ("zi' Narduccio"). Mi indicava i Campi Elisi. Mi fece conoscere il "prete picaresco", mi illustrava le zone della Verdesca. Mi indicava le Canalette, dalla punta estrema di Gannano, e le Piane e la Vena e la Vigna Vecchia. Belliboschi non fu possibile vederli. Erano lontani. Vincenzo invece mi parlava di Montemurro nel ricordo. Mi indicava le aie e i fossi degli anni passati. Ma io ascoltavo e non ascoltavo, intento com'ero a farmi una mia geografia, a crearmi un mio ideale Montemurro. E Montemurro era lì.
Una penisola di case attaccate alla cima di una collina dal quartiere detto Concerie digradante a valle attraverso due fossi a strapiombo. Due gole, Libritti e Gannano erano l'acque di questa isola.
Quante sono le cose che potrei dire. Come sono state vere qui le poesie "Nessuno più mi consola", "Epigrafe", "16 settembre 1943" e le ultime di "La Vigna Vecchia". Che sapore acquistavano i racconti di "Belliboschi" e di "Fiori pari e Fiori dispari". Solo qui si può scrivere la Poesia "Paese".
La sorella Anna mi illustrava poi il clima di queste poesie, mi diceva come nascevano e mi mostrava il terrazzo e l'orto. Mi parlava di due mandorli. Il più verde, il più bello e lussureggiante non aveva dato mai un frutto, mi diceva, mentre l'altro, questo brutto e rinsecchito ci ha dato sempre la provvista. "Questo lo farò potare" mi diceva "e quello lo farò sfoltire". Poi volle mostrarmi la cantina proprio quella di pagina 49 di "Belliboschi" dove "mio, padre ci passa buona parte della giornata, ci cammina ad occhi chiusi". Ma adesso c'è la luce elettrica. Quanto ho voluto bene alla sorella Anna in quei giorni. Era l'unica che più parlava, che più voleva mostrarmi tutto. Vincenzo era taciturno e discreto.
Due giorni sono stato a Montemurro, a girarlo e a scoprirlo. Ho veramente capito che per un miracolo ci ha dato un Poeta. "Tu sarai poeta" era scritto da tutte le parti. A Libritti e a Gannano, sui Campi Elisi e alle Concerie. Quanti hanno capito questa poesia di un Poeta che è Filosofo o di un Filosofo che è Poeta?
Alla partenza avevo nel sacco una colazione preparatami dalla sorella Anna. Per frutti avevo le susine delle Piane.
La fiera letteraria, 15 settembre 1957
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