Tre elegie
di Leonardo Sinisgalli
in Le tre arti
A.I, n. 3 (1 dic 1945)
I.
Mia madre diceva il 16 settembre poco prima di morire sulla mezzanotte, che una pulce le pungeva sull'addome «una pulce pesante come un cavallo». Una zampa oscura la premeva sul letto. Mia madre doveva sudare per resistere, e spirare bocconi, senza aver trovato la forza di dire una preghiera.
Sono tornati i fiori sulla loggia, più nessuno li ha innaffiati. Hanno rimesso i ferri ai puledri e i giorni si sono consumati. La brutta bestia miagola ancora tra le crepe della vecchia casa.
Una sera del mese di agosto noi stavamo sul terrazzo a guardare in cielo l'immenso vespaio. Il vento di agosto che distoglie la pula dal grano e dà l'ebbrezza ai trebbiatori incappucciati sulle aie, e fa splendere le paie sulla paglia, schiariva ai nostri occhi la speranza di una pace lavorata. Mio padre si addormentò sulla sedia al soffio di quell'aria serena. Mia madre parlò a me che fumavo: «L'acqua torbida», disse «scorre avanti all'acqua sincera, il fiume trascina la verità».
Nasce ogni sera dalle crepe deei muro il canto della bestia che non si è addomesticata. Gufo o donnola, civetta o faina, mezzo mammifero, mezzo uccello, stermina le galline, lacera le lenzuola nelle casse. Non è gatto, non è gallo, è demone che si nasconde nei solai che preferisce il fumo la penombra i calcinacci, e ha ribrezzo delle foglie: animale legato alle pieghe dei panni all'odore dei morti.
Mio padre siede a mattutino sulla pietra del focolaio. La gente va e viene con le bottiglie nascoste negli scialli a cercare aceto per combattere l'afta. Le donne parlano dei porci alle vicine, dei porci puliti come cani e allevati sotto i letti. Epidemie di buoi di pecore di galline. Li anumerano le donne che si sono sedute sulle fascine attorno al fuoco a commemorare mia madre.
II.
Quando partisti, come è nostra usanza, inzepparono la cassa dei tuoi piccoli oggetti cari. Ti misero l'ombrellino da sole perchè andavi in un torrido regno e ti vestirono di bianco. Eri ancora una bambina, una bambina difficile a crescere per mia madre. Pure fosti accolta con rassegnata dolcezza, custodita, e portata alla luce come matura la spiga in un campo esausto. Io ricordo, sorella, il tuo pigolio quando ti chiudevi a piangere sulla loggia, perchè volevi andare sul tetto a stare. Eri felice soltanto se potevi sollevarti un poco da terra.
Ti misero nella cassa gli oggetti più cari, perfino una monetina d'oro nella mano da dare al barcaiolo che ti avrebbe accompagnata all'altra riva. Noi restammo di qua nella grande casa che tu sapevi rivoltare come un sacco. Per un po' di fiorni nessuno ebbe voglia di riassettarla. Ci raccogliemmo intorno al camino pensando al tuo grande viaggio, alla tristezza di mandarti sola in un paese sconosciuto. La nonna stava ad aspettarci da anni. Da anni nessuno di noi era stato chiamato. Nell'immensa plaga, in quella lunga quarantena come avete fatto a riconoscervi?
Ti avevamo messo dentro la cassa gli oggetti più cari, il tuo ombrellino, il tuo pettine, e un piccolo mazzo di fiori. Mia madre ti seguiva ad ogni tappa, dalla casa alla chiesa, dalla chiesa al cimitero. Mia madre dava ricetto nella sua stanza ad ogni farfalla, e tenne per lungo tempo la casa aperta nella speranza che tu potessi tornare.
Un giorno una donna venna a bussare alla porta a dirci che ti aveva sognata. La donna avva una bimba malata, una tua compagna e tu l'avevi visitata. Parlasti in sogno a quella donna, chiedesti qualcosa che ella non sapeva: perchè non sentiva in sogno e tu parlavi e pareva che chiedessi qualcosa chenei preparativi del viaggio erano stata dimenticata. Mia madre rocistò tra le tue carte, stette a lungo a cercarne a uno a uno i tuoi quaderni. Noi guardammo per l'ultima volta la tua scrittura tenera, il tuo esile nome scritto dalla tua piccola mano. Furono legati con un nostro bianco i tuoi quaderni che avevamo dimenticati. La bambina te li avrebbe portati. Aggiustammo i tuoi quaderni nella cassa della compagna che tu avevi predilla. Anch'essa venne vestista di bianco nel torrido regno da cui nessuno è mai tornato.
III.
Ecco l'agro, il verde stento, il fiume che ha preso il colore dei cocci. Da anni io non guardo che lapidi sui lembi delle facciate e delle grotte: scritte nel vano bianco della mano di un angelo calligrafo ricordo le belle maiuscole, le eterne parole, e un solo nome, Prisca che dorme giovinett a con le Muse.
Accatastati nei muri di una chiesa davanti alla Fontana di Trevi (il Tempo ha le zampe di gatto, ha i denti dei gatti romani) chi ha deposto i cuori dei Pontefici? Santa Teresa ha il manto che trasuda quando a settembre lo scirocco risale dalla costa africana e dà un timbro diverso alle campane. La città ruota come una meteora alla luce del tramonto: i trali crpitano nei soffitti delle dimore dei viscovi, scendono dai muri della case d'affitto gli scarafaggi. Michelangelo tra queste macerie cercava la testa bianca di Apollo.
Chi conosce le tue estati, Roma, sa di aver toccato la luce fino all'osso, ricorda i capestri, i catafalchi, le camere di tortura, l'odore di strame che colpisce il pellegrino alle tue porte.
Tra questi quartieri io fui ragazzo pieno di sonno e di appetito. Fui un giovane letargico che si nascose a leggere nei tuoi giardini in compagnia delle statue. Cercai le funebri siepi del Celio per pascere il mio tedio di mussulmano avido di odori. Chi avrebbe potuto battezzarmi alla tua fede, frustare i miei panni, quale Vergine poteva carezzarmi i capelli, quale Benedetto, quale Pio ch'io portai nel paniere?
Ho ignorato per anni le tue cattedrali. Mi ricordo una sera che vidi spaccare in Via Baccina un agnello sul tagliere. Oggi cammino più lesto suoi tuoi ponti in campagnia di Raffaello. So quando fioriscono al Pincio le mimose, quando gelano i carrubi, conosco la forma delle tue rose, delle tue nubi. Ho visto i cavalli scintillanti guardare il cielo sui terrazzi, i santi sui parapetti, le donne dai petti mostruosi, le rondini, i ragazzi sulle rive dell'Aniene. Conosco il bene di tanta bellezza. Sono questi i mirti che scrollano polvere se li tocco, sono queste le pietre della giovinezza.
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