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Panorama dell'architettura nuova

di  Leonardo Sinisgalli
in La Lettura
Anno XXXV, n. 6 (1 giu 1935)

 

Siamo lieti di pubblicare questo articolo del Littore Leonardo Sinisgalli sull'architettura nuova. le idee del sinisgalli, anche se non possono esser condivise tutte da tutti, sono generose idee d'un giovane per cui il problema dell'architettura «investe gli stessi fondamenti della nuova civiltà».

 

E' molto allusiva quell'eslamazione di Berenson, notata da Emilio cecchi, a proposito dei grattacieli di Manhattan: sembrano le torri di San Gemignano! Interpretata nel giusto senso, la frase del più celebre critico d'arte d'Europa non va certamente a scapito di quel paesaggio di Nuova York che Dos Passos, invece, in uno dei suoi libri paragona a delle cattedrali di ghiaccio alzate dagli uomini nuovi al loro dio, armato di compasso, di filo a piombo e di sestante. Qualcuno potrebbe subito scorgere nell'immagine del romanziere americano il dio protestante, legislatore ironico e severissimo giudice, per il quale non valgono le intercessioni dei santi. Certo, si capisce abbastanza chiaramente perché i cattolici abbiano guardato con diffidenza alla nuova architettura. Noi non siamo di quelli che rinnegano il Partenone o l'Eretteo per Santa Maria del panorama architettura nuova lettura 1Fiore, la piazza dei miracoli di Pisa e le cattedrali gotiche. I Greci costruivano con le loro architetture delle porte al Mediterraneo per lo sbarco delle loro divinità marine, così felici e così di stratte, e pensavano di comporre con le loro colonne delle ossature più resistenti e perfette del torso di Alcibiade.
L'architettura d'oggi, più d'ogni altra arte, appare legata al complesso fenomeno della nostra civiltà. La civiltà d'oggi ha imposto all'uomo delle esigenze, ha fornito all’uomo dei mezzi per soddisfarle. Parlando un giorno con Le Corbusier ci era sembra to di trovarci di fronte a un demiurgo che non voleva affatto esagerare le ragioni dell'intelligenza a scapito dei sensi e che voleva contribuire a creare delle forme di felicità, magari di comfort a questa «bête humaine» in cui giorno per giorno crescono i dubbi e le inquietudini. L'architetto è troppo legato ai fattori della vita collettiva. Non vuol tradire il borghese, né secondarlo. Tuttavia resta uno dei responsabili più resoluti del gusto nuovo. Chiamato a disegnare l'arredamento di una casa, a creare la vetrina di un bar, la sua responsabilità nei riguardi dell'arte è la stessa, se pure diversi sono l'impegno e l'intelligenza con cui risolve il paesaggio di una piazza e il piano di una città. Il credo della nuova architettura, almeno come lo ripete Adolfo Loos, che è da segnarsi tra i banditori dello spirito nuovo, lo si ritrova in quella frase di Leon Battista Alberti: «Ciò che non è pratico non può essere bello. Un oggetto è bello quando è impossibile toglierne un elemento o aggiungervene un altro senza pregiudicarne il valore e la forma». Abbiamo nominato un artista del nostro 400, e aggiungiamo al suo nome quello di Leonardo da Vinci, per richiamare l'attenzione su un'epoca di artigiani, che per noi è stata la più quadrata, la più robusta, la più genuina di tutte. Quando Leonardo descrive l'elica, in uno dei fogli del Codice Atlantico usa un linguaggio che oggi non sembra neppure paradossale: «nella macchina non esistono che giunture utili» e stabilisce uno dei corni di quel dilemma tra la perfezione e la bellezza contro il quale dovevano spezzarsi le armi di tutti i polemisti.
Nel 1902 l'architetto Van der Velde così del resto riassumeva la sua teoria della linea-forza: «la linea è una forza, per cui ogni linea ad eccezione della retta reclama una complementare: ogni linea che non sia fondamentale o complementare non si giustifica e deve essere bandita». I piani vanno disposti a trar profitto dalla luce. La superficie piatta è una superficie che non mente e la linea dritta è certamente la più sincera: non nascono così i cristalli? Così è nata la nuova architettura.panorama architettura nuova lettura 3
Questa sarebbe l'eresia contro cui combattono da tempo i chierici di tutta l'Europa: l'eresia della fabbrica sviluppata dal di dentro, l'eresia che qualunque materia porta dentro delle necessità di forma che sta all'artista scoprire, e che una torre in ferro o un edificio in cemento armato non potranno mai rassomigliare alla torre di Pisa o a una villa del Palladio.
Ma come ha reagito il borghese al gusto nuovo? Dicendo semplicemente che le case d'oggi sono «belle di dentro e brutte di fuori», Molti hanno chiesto le sedie in metallo cromato, ma hanno voluto le incrostazioni sulle facciate delle loro case. Hanno trovato degli architetti pronti a far questo, architetti che noi non nomineremo; ma il cui nome purtroppo è sulle bocche di tutti. Così perfino le ragazze si sono messe a disegnare tappeti novecento, ad allevare piante grasse, ad esigere pavimenti di linoleum, pronte tuttavia ad imprecare contro le facciate delle «case minime», che erano costruite nel parco dell'ultima Triennale. Questo lo riferiamo non per dare all'argomento una nota piccante e comunque pittoresca ma per trarre una conclusione: che cioè la gente più facilmente si attacca a delle ragioni puramente decorative dell'arte, quelle che entrano nella moda e formano il cattivo gusto; per dirla ancora più paradossalmente: del razionalismo il borghese si è preso quello che gli è servito, ha badato a soddisfare i sensi piuttosto che la «ragione». Per educarlo non c'è che da imporgli delle opere, fino all'adattamento. La nuova architettura è entrata piuttosto nell'abitudine del popolo che in quella della borghesia. Il contadino, l'operaio hanno capito che si lavora per loro e per lo Stato. Un'architettura proletaria? Chiamatela come volete: certo un'architettura di Stato.

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Verso il 1880, parve a tutti che una rivoluzione violenta e clamorosa dovesse cambiare la faccia dell'architettura universale. Il ferro come materiale principe di costruzionepanorama architettura nuova lettura 2 suggerì nuove strutture, permise nuove proporzioni, impose nuovi ritmi. Eiffel lanciò la sua torre a 300 metri di altezza. Fu costruito in Francia il famoso Palazzo delle Macchine che doveva essere il tempio della nuova legge: «il ferro mai deve essere nascosto ma apparire alla superficie con i suoi bulloni e le sue piastre. Non vi deve essere menzogna. Se il monumento è in ferro deve avere anche l'apparenza del ferro: non è il caso di ritornare ai progetti di scuola». E così veniva commentato un progetto razionale presentato al concorso per l'Esposizione di Parigi, nel 1889: «L'architetto ha adottato un sistema di costruzione francamente metallico e il suo progetto tura moderna, e precisamente il neo-classicismo fa piacere all'occhio: tuttavia noi indicheremo come non confacente alla natura del metallo la travata ad arco delle facciate. Questo sistema di archi è vecchio. Noi sappiamo ormai che, essendo il ferro tirato in barre diritte e lavorandosi esso più vantaggiosamente in tali condizioni, deve essere impiegato esclusivamente in forme dritte e non arcuate.» E per un altro progetto: «La grande arcata è falsa quindi brutta. Se si fossero fatti discendere i piloni fino a terra senza legarli con archi, avremmo avuto maggior franchezza e quindi bellezza. Bisogna cercare oramai un'architettura metallica, assolutamente razionale». Si capisce che la rivoluzione fallì, perché gli architetti vollero costringere il ferro ai loro gusti neo-classici, vollero costruire dei rosoni e perfino dei capitelli. Basta guardare ancora certi magazzini generali.
C’è uno studio di Agnoldomenico Pica sulla nascita dell’architettura moderna in cui vengono precisati i rapporti della civiltà dell’ottocento con l’architettura, rapporti che in diversissima maniera giovarono al determinarsi dell’architettura moderna, e precisamente il neo-classicismo degli inizi, l’erudizione archeologica e finalmente il formarsi delle nuove tecniche e il conseguente stabilirsi del regime industriale. I veri protagonisti della riforma architettonica compiutasi alla fine dell'ottocento sono i nuovi materiali di costruzione e ancora la conoscenza della loro natura, nei riguardi della statica, la quasi definitiva estensione tecnica su basi teoriche del calcolo di resistenza. Il ferro, il vetro, la pietra e il cemento armato sono da considerarsi come materiali di natura elastica, vale a dire capaci di resistere in diversa misura agli sforzi di trazione, di compressione e di flessione, cui variamente li assoggetta la loro funzione come elementi di un sistema di equilibrio, che può essere una travata, un ponte o una gru.
Ma questa è veramente pura analisi. E l'ottocento in gran parte l'ignorò. Così accanto alle goffagini di tutte le speculazioni decorative e dei ritorni ai più ambigui primitivismi, nello stile dei villini, dei magazzini, delle chiese e delle stazioni, sorsero i primi edifici nuovi, quelli che trovavano lo schema già pronto nelle tavole del Vignola. La torre d'Eiffel è del 1889. Il palazzo di Cristallo di Londra, in ferro e vetro, è del 1951. Tra il 1886 e il 1889 viene costruito a Chicago il primo grattacielo con ossatura di cemento armato: il Tacoma Building. Il grattacielo sorge per esistenze urbanistiche ignorate fino allora o ancora trascurate nel tracciato di un quartiere e di una città. La trazione meccanica, l'agglomeramento centripeto degli affari, contribuiscono al suo sviluppo.

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Dalla fine dell'ottocento, che rappresenta la preistoria della nuova architettura, ai primi anni del novecento, per opera di Hoffman, di Loos, di Perret, di Van der Velde e di Sant'Elia, vengono stabiliti veramente i canoni dell'architettura moderna in Europa. Come la poesia ha avuto il suo Rimbaud, che rivoluzionando tutta la sintassi ha saputo imporle un nuovo ordine e ritrovare un'illuminazione nuova, come le scienze matematiche hanno avuto il loro Galois che, in una notte avanti la mattina del duello che a ventidue anni doveva dargli la morte, lascia quella teoria delle sostituzioni che doveva portare tanta evidenza nell'analisi algebrica e stabilire i veri legami tra algebra e geometria, vale a dire tra numero e figura, Antonio Sant'Elia, anche lui giovanissimo, ha sognato i modelli della città nuova. Nato a Como il 30 aprile 1888, a diciasette anni capomastro a Milano, fu addetto al canale Villoresi, poi al Comune. Si iscrisse all'Accademia di Brera e ne seguì i corsi. Diede gli esami di architetto a Bologna, poi ritornò a Milano dove aprì uno studio di architettura. A ventiquattro anni entrò nel movimento futurista lanciando il famoso Manifesto dell'architettura ed esponendo i suoi progetti alla «Famiglia Artistica». Scoppiata la guerra si arruolò volontario ciclista. Sottotenente dei bombardieri il 10 ottobre 1916, comandando una pattuglia di assalto presso Monfalcone, una palla in fronte gli diede la morte degli eroi, meritandogli due medaglie d'argento. Il suo Manifesto Tecnico dell'Architettura e del 1914, i suoi cento disegni per la Città Futura sono del 1913: con essi egli gettò le basi tecniche ed estetiche della rivoluzione architettonica ed urbanistica contemporanea. Vale la pena di riportare alcuni passi più importanti di quello scritto. «Dopo il settecento non è esistita più nessuna architettura. Un balordo dei più vari elementi di stile, usato a mascherare lo scheletro della casa moderna, è chiamato architettura moderna. La bellezza nuova del cemento e del ferro viene profanata con la sovrapposizione di carnevalesche incrostazioni decorative che non sono giustificate né dalle necessità costruttive né dal nostro gusto e traggono origini dall'antichità egiziana, indiana e bizantina e da quello sbalorditivo fiorire di idiozie e di impotenza che prese il nome di neo-classicismo. In Italia si accolgono codeste ruffianerie architettoniche e si gabella la rapace incapacità straniera per geniale invenzione, per nuovissima. I giovani architetti italiani (quelli che attingono originalità dalla clandestina compulsazione di pubblicazioni d'arte) sfoggiano i loro talenti nei quartieri nuovi delle nostre città, ove una gioconda insalata di colonnine ogivali, di foglione seicentesche, di archi-acuti gotici, di pilastri egiziani, di volute rococò, di putti quattrocenteschi, di cariatidi rigonfie, tien luogo seriamente di stile ed arieggia con presunzione al monumentale. Il caleidoscopico apparire e riapparire di forme, il moltiplicarsi delle macchine, l’accrescersi quotidiano dei bisogni imposti dalla rapidità delle comunicazioni, dall’agglomeramento degli uomini, dall’igiene e da cento altri fenomeni della vita moderna non danno alcuna perplessità a codesti sedicenti rinnovatori dell’architettura. Essi perseverano cocciuti con le regole di Vitruvio, di Vignola e del Sansovino e con qualche pubblicazione di architettura tedesca alla mano. Non si tratta di trovare nuove sagome, nuove marginature di finestre e di porte, di sostituire colonne, pilastri, mensole con cariatidi, mosconi, rane; non si tratta di lasciare la facciata a mattone nudo o di intonacarla o di rivestirla di pietra, né di determinare differenze formali tra l’edificio nuovo e quello vecchio, ma cercare nuove forme, nuove linee, una nuova armonia di profili e di volumi, un’architettura che abbia la sua ragione d'essere solo nelle condizioni speciali della vita moderna, e la sua rispondenza come valore estetico nella nostra sensibilità.»
Quando Antonio Sant'Elia reclama i diritti dell'invenzione è difficile dire fino a che punto egli si confessi devoto di quell'estetica idealistica che ai principi del secolo, nelle più semplici formule, doveva, qui da noi, giustificare l'equivoco del futurismo. In fondo il suo errore sta nel credere nello stesso tempo all'efficacia delle «parole in libertà» e all'estrema servitù dei «mezzi tecnici» ch'egli pure invoca a fondamento del nuovo ordine. Noi siamo sicuri ch'egli troppo concesse al «sentimento», nel richiamarsi ai principi di un'arte di cui a un certo punto avremmo voluto più chiaramente definita la sintassi. Egli comprese sopra tutto che la rivoluzione doveva adeguarsi alla nuova civiltà, al nuovo spirito. Un'altra sua frase: «Le case dureranno meno di noi», ci fa vedere come profondamente la sua certezza spingesse le radici nel fondo della nostra inquietudine.panorama architettura nuova lettura 4
Nel periodo della guerra l'architettura subisce una stasi, la tecnica del cemento armato trova basi di calcolo più sicure. I cantieri si industrializzano. La casa viene colata nelle sue forme. I grattacieli salgono a 50 piani. Bastano pilastri di 30 centimetri a sostenere una casa di sei piani. Si possono fare sbalzi anche di 10 anche di 20 metri senza la necessità di sostegni, si può coprire un fiume con un solo arco di cento metri e con soli 70 centimetri di spessore in chiave. Cogli anni l'architettura europea abbandona il pretesto lirico per una sua logica e una sua moralità. Entra definitivamente nella vita. Le Corbusier vorrà fare della casa un utensile, una macchina da abitare, prestare all'umanità degli oggetti, delle forme che siano le più utili possibili e ritrovare una bellezza standard, come la colonna del Partenone. Anche le linee della mano, noi abbiamo letto un giorno, sarebbero decorative se non fossero profetiche.
Le Corbusier è nato in Svizzera nel 1887. Il suo curriculum vitae è tutto qui: dal 1907 ha lottato contro l'accademismo, nel 1928 il suo progetto è stato bocciato al concorso per un Palazzo della Società delle Nazioni, nel 1932 la stessa sorte ebbe un suo progetto per il palazzo dei Sovieti a Mosca, nel 1933 ha studiato il piano della città di Algeri. Le Corbusier ha voluto segnare i suoi insuccessi, ma anche questo è un vezzo, il vezzo del «plus grand architecte du monde» come una sera a Milano egli disse sorridendo a una donna che non aveva ben capito il suo nome. Ma Le Corbusier, consigliano gli intenditori, bisogna cercarlo nelle sue opere più che nei suoi principî. La villa a Garches è del '27, la villa Savoje é del '31, il padiglione svizzero della città universitaria è del '32: tre opere capitali nella storia dell'architettura moderna.
Vicino al nome di Le Corbusier, gli assertori di una tradizione moderna nell'architettura europea mettono i nomi di Walter Gropius, nato a Berlino nel 1883, di Konstantin Melnikoff nato a Mosca nel 1890, di Wilhelm Marinus Dudok nato ad Amsterdam nel 1884, di Ludwig Mies Van der Rohe nato ad Aquisgrana nel 1886, di Erik Mendelssohn nato ad Allenstein nel 1887.
Come si riconosce nella poesia d'oggi una tradizione moderna e se ne precisano le origini nel le pagine dello Zibaldone di Leopardi, come la pittura d'oggi ha trovato il suo principio nel l'opera di Cézanne, l'architettura europea ha ormai definito il suo linguaggio, ha stabilito la sua tradizione e anno per anno precisa i suoi valori ed afferma la sua unità. Fuori del suo cerchio, oramai nettamente delimitato, non c'è posto che per l'accademia. Il suo problema investe gli stessi fondamenti della nuova civiltà. E' un vero e proprio fronte unico che ha stabilito le sue ragioni nell'etica, nell'estetica, nell'economia del nostro tempo. L'architettura ha tenuto fede alla sua legge che è quella di costruire, vale a dire passare dal disordine all'ordine, usare dell'arbitrario per raggiungere la necessità, ha definito la sua azione che è certo la più completa che l'uomo possa proporsi. «Un edificio compiuto, - ha scritto Valéry, — ci rioffre in uno sguardo la somma delle intenzioni, delle invenzioni, delle conoscenze e delle forze che trae con sè la sua esistenza; manifesta alla luce l'opera combinata del volere, del sapere, del potere dell'uomo. Fra tutte le arti, ed in un istante indivisibile di visione solo l'architettura fa pesare sulla nostra anima il sentimento totale delle facoltà umane». Gli architetti sono stati chiamati a fondare le città, a costruire gli stadi e le piscine, a creare il paesaggio di una piazza. Essi si sono fatti responsabili d'uno stile, che non è più una moda o un semplice pretesto per il gusto, ma il risultato d’un'espressione, vincolata nei suoi cardini e stabile nel suo equilibrio. Basterebbe aver presente qualcuna delle opere tipiche esposte all'ultima Triennale di Milano, per convincersi che l'architettura d'oggi è uno stato di fatto e non più di semplici propositi.
Ma qual è la condizione dell'architettura in Italia? E passato il tempo del «barocchetto», della grossa mole del palazzo di Giustizia a Roma, della terribile scenografia di quel «quartiere delle fate» dove lo stile floreale chiamò in aiuto le rarità dei musei di botanica e di paleontologia: una contaminazione del gusto di Doré e di Alberto Martini, una cattiva illustrazione di Rabelais e dei racconti immaginari di Edgardo Poe. Siamo nell'anno XIII dell'era fascista. Basterà ricordare lo Stadio Berta a Firenze e lo Stadio Mussolini a Torino, le case di Littoria, qualche quartiere popolare, cinque o sei progetti presentati per il palazzo del Littorio e qualcuno dei fabbricati della Città Universitaria di Roma; e far i nomi dei seguenti architetti: Alberto Sartoris, Giuseppe Pagano, Carlo Emilio Ravà, Enrico Griffini, Sebastiano Larco, Pietro Lingeri, Luigi Figini, Gino Pollini, Luigi Baldes sari, Guido Fiorini, Agnoldomenico Pica, Giuseppe Terragni, Adalberto Libera, Pietro Aschieri, Piero Bottoni, Luigi Vietti, Ridolfi, Banfi, Peressuti, Rogers.
Noi abbiamo ancora negli occhi le bellissime linee ardite della facciata della Mostra della Rivoluzione.

 

07 Aprile 2021

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