Gallo reale
di Leonardo Sinisgalli
in la lettura
A.XXXV, n. 3 (1 mar 1935)
Quella era la nostra età d'oro. Mia madre conservava nel grano le uova fresche che le donne gravide della corte nascondevano in petto. Era la settimana di Pasqua col cristo morto, i santi coperti di un panno viola nelle nicchie e le campane sigillate. Poi vennero i giorni dell'Angelo. La fioritura dei peschi fece la primavera precoce negli orti stretti tra i muri delle case. Le donne se ne stavano davanti alle porte, trionfali, il ventre enorme, la lunga gonna colonnare, a guardare le colombe sul culmine dei tetti bassi.
Andavo superbo tra i compagni di quel gallo con gli speroni dal piumaggio nero con riflessi azzurri sul collo e sulla coda, le zampe rosse, la cresta irta e sanguigna. Quel gallo era legato alla sorte della mia casa: più vecchio di tutti noi bambini eppure così ardito e lucente. Fu il solo gioco di tutta un'infanzia povera e piena di prodigi.
Venne il tempo dei romanzoni d'oro quando al sambuco si fanno dolci le midolla. Si parlava tra ragazzi di certi fiorni che nascono tra i cocci e scoppiano appena toccati. Allora s'andava scalzi per i fossi e si misurava l'ardore del sole dalle impronte lasciate sui sassi. L'ordine terrestre sembrava affidato alle nostre mani. Le uova nei nidi erano ricchezza nostra.
Per la festa di San Giovanni, noi fanciulli aspettavamo le albe precoci, supini sulla pietra calda delle terrazze mediterranee. Gli uomini abbandonavano i mestieri per i lavori della mietitura nelle terre alte. Così imparammo a tenere al giogo i buoi che trascinavano la pietra sotto la quale si sgranava la spiga, nelle aie disposte a belvedere sulle balze dell'Appennino.
Sdraiati per terra si teneva ascolto al vento giusto per separare il chicco dalla paglia. Il vento aveva tutti inomi che aprivano distanze dietro l'orizzonte. C'era il vento della marina favorevole alle migrazioni delle gru, c'era il vento che portava le pernici. Il giorno di San Giovanni noi ragazzi raccoglievamo il piombo per sapere dalla nonna il responso alla nostra sorte. Il piombo veniva fuso e gettato in un vaso pieno d'acqua. Raffreddandosi germoogliava forme bizzarre d'animali e di stelle, da cui la donna traeva l'oracolo.
Nella controra pomeridiana il gallo dall'alto del fumaiolo gridava l'inizio del vespero estivo. I campanili battevano i trentatrè colpi litugici, le case aprivano i balconi e risuonava contro i muri il martellare del fabbro sui ferri roventi dei cavalli.
La nostra infanzia era piena di qul'urlo che apriva il giorno con fragore e che noi credevamo fosse davvero l'urlo del sole.
La nostra fantasia poi, era stata turbata da una storia che si raccontavano i vecchi del paese: un gallo aveva cantato tre volte in una lontana notte, nessuno s'era svegliato e all'alba le case furono rase al suolo. Abituati a quella idolatria, noi ragazzi un giorno scoprimmo il gallo dipinto sullo stemma di famiglia.
Anche il gergo della mia casa era tutto derivato da quella figura araldica. Noi maschi eravamo veramente i galletti e le femmine crescevano sontuose e feconde come pollastre dal petto bianco. La parola «spavento» nel mio dialetto diventava «scanto», come dire privo di canto, muti per lo spavento.
Io non riesco a spiegarmi altrimenti certe mie avversioni e la mia diffidenza per il fuoco, che del gallo è il nemico capitale.
D'autunno, quando le strade odorano di mosto e i primi freddi fanno le mani rosse, noi ragazzi gridavamo i nostri nomi nelle cisterne a squarciagola.
Una mattina riuscii a portare il gallo in classe, di nascosto. L'aula fredda era situata in fondo al corridoio di un vecchio convento, dove nessuno di noi voleva entrare da solo a causa delle scene infernali ch'erano dipinte sulle pareti. Le scene dovevano riprodurre i miracoli di Sant'Antonio, da cui prendeva nome tutto il caseggiato. Erano vecchi affreschi, assorbiti dall'umido delle pareti, in cui si riconosceva appena la testa del Santo con l'aureola e i grandi occhi spaventosi.
Erano alla tavola pitagorica, ricordo, quando il gallo cantò.
Avenne un putiferio in cui riuscii a stento a salvarlo dalla furia del amestro che voleva torcergli il collo. Io fui cacciato dalla scuola per un anno, ma il gallo era salo nelle mani dei carabinieri, che erano corsi al fracasso.
Le galline della corte incominciarono ad avvizzire, le piume perdevano di splendore, le teste erano di un viola cadaverico. Non c'erano più uova nelle case. Allora le donne del vicinato decisero di andare tutte insieme a intercedere presso il maresciallo. Noi eravamo ad attendere nella piazza sotto gl'ippocastani secchi.
E comparvero difatti le donne dalle vesti abbondanti con il giallo in mano, che portammo in trionfo per le strade come un trofeo.
Quando una gallina non faceva più l'uovo, il paese si metteva in allarme. Venivano a casa nostra le donne con i grembiuli pieni d'orzo e i vasi colmi di granturco: volevano vedere il gallo e noi con la lucerna in mano le accompagnavamo scalze nel pollaio.
Il gallo stava solo in bilico sulla verga più alta. la testa nascosta tra le piume. Le galline erano in fila sulle verghe più basse: le giovani più vicine al re, più sotto le adulte. La luce gialla le scopriva, alzando il collo e guardava fisse verso di noi. Il gallo scendeva dalla verga, puliva il becco sugli speroni e cominciava a dibattersi infuriato contro le sbarre.
*****
Scendevano di sera le donne dall'Appennino con sulla testa grosse fascine di castagno, le vesti colme di ricci. Le donne della case vicine si raccoglievano a dire le preghiere. Le castagne arrostivano w il vino veniva colato nelle tazze. Poi in circolo, attorno al fuoco, una dopo l'altra, si raccontavano i misteri gaudiosi.
Cauti allora noi ragazzi salivamo in alto a convegno nelle colombaie. In quelle ore eravamo veramente felici, per le strade, con i tizzi accesi nella mani.
Il paese ci sembrava terra nuova, appena segnalata dai vetri rossi delle case. Dovevamo salire una lunga scala di legno, uno alla volta col fiato sospeso fin in alto. I colombi alla cova facevano un rumore cupo che pareva venisse di sotterra, continuo e lontano, come ci immaginavamo il suono delle trombe del giudizio. Uno di noi, il più perfido, si toglieva le scarpe e saliva da solo in cima. Poi tornava con la cesta piena di piccioni ancora implumi.
Io mi ricordo ora di quel ragazzo dai riccioli rossi che scambiava le uova nei nidi, per gioco. (Un giorno la gazza lo scoprì e gli ferì il volto a sangue). Egli era tra noi l'angelo ribelle, il lucifero di quelle sere. Quante volte siamo tornati a casa con la testa rotta dai sassi della sua fionda! Era veramente il più bello e le nostre mamme lo odiavano a morte. Fra noi tutti riusciva a raccontare i sogni più complicati. Era certo il solo ad aver coraggio di guardare in faccia i morti nelle case, il solo che distingueva dal canto il sesso degli uccelli. Non bisognava fargli torto, chè si sarebbe vendicato perfino sulle nostre sorelle.
Il gallo gli dava fastidio e fu lui a fargli questa beffa: un giorno il gallo comparve in mezzo alla piazza con la coda tagliata. Ricodo l'ira di mia madre e delle mie sorelle che lo avrebbero squartato, come le baccanti fecero di Orfeo, se io non ne avessi preso la colpa. Riuscii perfino a perdonargli lo sberleffo del suo chichirichì, tutte le volte che passava qualcuno dei miei familiari. Quella misteriosa rirannia io la subivo senza dolermene: sapevo di essere fra tuttto il solo a fargli invidia con l'ancora d'oro sul mio costume di marinaretto.
Un gorno, mentre tornava dalla campagna, un fulmine lo colpì a cavallo.
Noi ragazzi gl'invidiammo soprattutto quella sua morte da arcangelo.
Vennero poi le fiere di bestiame e nell'attendamento d'una compagnia di zingari un altro gallo cantò.
Noi stavamo attorno a loro curiosi del lavoro di stagnatura che essi facevano ai vecchi arredi di cucina delle nostre famiglie.
Fummo i primi a dare l'allarme.
Il paese no doveva sopportare un doppio dominio.
Corremmo dalle nostre mamme gridando per le strade contro l'insolenza degli zingari dalle orecchie pelose adorne di orecchini d'oro.
Si riunirono le donne nelle gonne lunghe, il panno rosso in testa, secondo un'usanza araba, e precedute sa tutti noi chiesero di parlare col capo.
Il patto fu presto raggiunto, anche perchè agli zingari premeva di non abbandonare il paese prima di vendere qualcuno dei loro cavalli, a cui, si diceva, essi limavano i denti e davano a bere succhi d'erbe eccitanti, per camuffarli da puledri.
Il gallo degli zingari passò a noi in ostaggio per tutti i giorni che durò la fiera. Lo portammo in cantina dov'era appesa l'uva e i lenzuoli stavano ad asciugare dulle botti.
Ma una mattina i fornai che escono alla prima alba a gridare la sveglia a quelli che devono lievitare la pasta del pane portarono la rivolta nelle case. I pollai nella notte erano stati saccheggiati. Essi avevano raccolte nelle strade le galline uccise e le portavano in giro nelle famiglie per accendere la furia delle donne.
Le piume erano nell'aria.
Si pensò prima a un assalto notturno delle volpi. Poi si seppe che gli zingari erano fuggiti sui carri veloci nelle prime ore della notte, dopo aver fatto quello sterminio.
All'alba il gallo non cantò. Gli zingari l'avevano rubato e portato via.
Noi corremmo all'inseguimento per le strade basse della valle.
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