Tre poesie di ieri
di Leonardo Sinisgalli
in L'approdo letterario
A.XI, n. 29 (gen-mar 1965)
I.
Torno alle mie storture,
alle mie fandonie.
Torno alle stanze vuote,
ai miei terrori.
Mi porto dietro
le confidenze di una formica
e carte di petunie e di begonie.
Troverò qualche bene
per l’inverno che viene.
Mi contenterò di una mollica.
II.
Mi riabituo a sopportare il semibuio
delle stanze tappate.
Mi stendo semicieco
sui tappeti,
resto immobile lunghe ore.
Odo lo sterminio
delle bottiglie vuote
nel corridoio seminterrato,
il trillo del venditore di piumini,
gli appelli reiterati
di un telefono nel condominio.
In dormiveglia, supino,
guardo in alto la larva
di un cane che vola.
III.
Ti siedi intorno al lago
al mattino, presago
del tuo declino.
Giri a vuoto nei viali,
ti appoggi alla palizzata,
cerchi requie sul prato.
La Bellezza è invecchiata,
l’hai riconosciuta, l'hai abbracciata.
Anche se la spuma,
la polvere, il polline
non bastano a farti credere
a una resurrezione.
Tanta libertà gratuita
ti fa vergogna.
Cammini sulla ghiaia
e incespichi, sull’erba
scivoli come il povero.
Rifiuti quest’oro
che non sai spendere.
Meglio un pugno di lupini
che una moneta in un giardino
dove tutto il tesoro
non si vende.
Sei qui per nasconderti,
non vieni per ispirarti.
Hai la commiserazione
dei giardinieri e dei soldati.
Il sole affratella i malati.
Un piccolo lago in città
è come la neve
conservata dentro un sacco.
Gli alberi chiari
sempre più leggeri.
Le parole non vengono sulle labbra,
solo un alfabeto da carcerati
parlato con le dita.
Tu ti penti di aver perduto
la vita per dovere.
Puoi trascorrere ore e ore
a guardare le foglie nuove.
Il mondo è lontano, di là.
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