Dopo duemila anni nella terra solare di Orazione
di Leonardo Sinisgalli
in L'illustrazione italiana
A.LXIII, n. 47 (24 novembre 1935)
Questa terra va goduta intera con le sue vigne e i suoi vulcani, le sue rose e i suoi terremoti: bisogna far credito al suo dialetto e alla sua sollennità dei matrimoni e delle sepolture. Dalle argille della costa ai calcari degli altipiani fino alla pietra viva delle rupi e dei valichi è un progressivo rassettarsi del suolo ad accogliere in treno la superbia di questi cieli duri e senza misericordia. La rondine, l'allodola, il falco, non escono fuori dal loro dominio, dalla creta o dal sasso. Gli uccelli riescono ancora a tenersi liberi da quella gelosa tirannia domestica a cui l'uomo ha assoggettato la donna e gli animali. Dove non arriva la frusta, arriva l'occjio col suo carico di doni e di grazia.
Popolose albe dei paesi del Sud! Il giorno si apre con fracasso tra le grida dei bambini lattanti e le ciarle delle donne che dicono dal letto le ultime dolce ingiurie ai mariti forti e distratti. Allora l'acqua viene attinta dalle cisterne e cominciano presto, a mani lavate, le fragorose libagioni del mattino: si mangia in faccia al sole che è appena alto quanto un cavallo sulla pianura. Gli uomini si avviano alle terre con una verga agile nella mano, le donne rientrano in casa per attendere alle cure dei parti. I fanciulli sono lasciati per terra nei vichi umidi d'ombra, i più piccoli, messi a giocare nelle ceste hanno meno esigenze degli angeli. Di mattina non accade mai nulla e i bambini, quando muoiono, passano per le strade e nessuno se ne accorge. Neppure le donne si affacciano alle porte. Il fabbro continua a battere il ferro rosso, la pasta bianca dello stagno viene stesa nei recipienti di rame e una mano tiepida da esleo è passata sui muri. L'imbianchino sol suo camice chiaro è il solo personaggio che non stonerebbe al seguito di questo mortieino che i compagni di giuneo portano per la strada scalzi. I loro vestiti sono laceri e fioriti: a eccitare la furia dei pavoni.
C'è un'ora in cui le donne vengono fuori a stendere le lenzuola sulle logge. Il cielo un poco si asciuga così che i colombi sentano l'umidità giusta per salire a coppie sul culmine dei tetti: il piumaggio lisca l'aria che si accarezza con quelle zampe rosse e libertine. I colombi sono qui gli unici uccelli trattati ancora con rispetto. nessuno dubita che essi siano venuti dal cielo per virtù dello Spirito Santo. Gli sposi ne fanno ancora un grande consumo alla vigilia delle nozze: per sette giorni, prima del matrimonio, è di obbligo guadagnarsi l'innocenza, nutrendosi della sola carne bianca di questi volatili. Così che rimane questa l'industria più redditizia della contrasa. Basti dire che, in occasione delle feste comandate, tutte le famiglie povere hanno diritto a una coppia di piccioni che la congrega di carità, costituita da ricchi immigrati di Argentina, della Colombia e del Brasile, distribuisce per accattivarsi la simpatia dei santi, che godono qui il rispetto di tutti. Le compagne sono sotto la loro giurisdizione: le vigne a San Maurizio, le messi a Sant'Antonio, gli orti a San Vito. La frutta doppia, come le noci, le pesche è messa sotto la protezione dei santi gemelli Cosma e Damiano.
Il giorno resta vuoto per lunghe ore in preda alla funesta ira della luce. E' l'ora avversa, l'ora leonina, l'ora della maligna siringa. Le donne si lasciano vincere da questa calma che stordisce. la testa perde il suo accordo col corpoo. Appoggiate ai davanzali spiano al varco il serpente. Una volta gli dei scendevano a quest'ora sulla terra: bisogna tenersi desta perchè la scelta tante volte è caduta su una bestia. Cos' erano nati i mostri. Ma gli uomini mettono in dubbio queste storie: sono curiosi e astuti quanto basta per vincere ogni resistenza. Essi hanno una cieca fiducia nel sangue, che pure è la parte più oscura di noi stessi. Sono aspri, capricciosi ed esaltati. Confessiamolo senza xautela: più che sulla terra erano destinati a restare nel paradiso terrestre tanto ancora è il lusso della carne e la pigrizia del gesto.
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Venosa ha celebrato Orazio, suo santo patrono, con una festa prosperosa e felice. Ha cacciato in mostra turra la richezza del suo sottosuolo: i leoni dell'Antiteatro, gli esili capitelli, le statue acefale e le epigrafi dei suoi gladiatori. Sulle pareti del tempio di Imene sono riapparsi gli affreschi di San Biagio e di San Chirico, le immagini di Santa Caterina, della Vergine e di San Vito: bocconi ghiotti per i palati più esigenti. E' tornata in luce la loggetta romantica con gli angeli accovacciati sotto le pietre.
I versi del poesta, che Svetonio ci descrive piccolo di statura e tangoccio, che Mecenate, grande amico e favorito di Augusto imperatore, ebbe caro più delle sue viscere «Ni te visceribus mele, Horati - lus jam diligo», si leggevano sopra i muri delle case, stampati su manifestini a colore. «Rammentati di conservare nelle cose avverse un animo tranquillo, non meno che alieno dalla smodata allegrezza nelle prospere o Delio, che pur sei per morire, sia che tu abbia vissuto in ogni tempo mesto, sia che nei festivi giorni della gioia ti sia beato col più vecchio vino, sdraiato mollemente ove il gran pino e il bianco pioppo coi loro rami intrecciati amano congiungere le loro ombre amiche, e la fuggitiva linfa del fiume si affatica a scorrere trepida sul suo letto obliquo». Ci siamo recati alla sua casa natale, soli e tra le cancellate della porta siamo riuscisciti a vedere nella cameretta bassa sul livello stradale, un solo tavolo grande a reggere di traverso la nudità delle pareti e della volta come un catafalco. Nella piccola strada piena di botteghe di maniscalchi io pensavo se mai Orazio avesse accennato nella sua «Arte Poetica» a un paragone che mi veniva in mente, tra la difficoltà di cuocere il ferro al punto giusto perchè il lavoro dell'utensile trovi nel metallo caldo un consenso pari alla resistenza, e il difficile equilibrio che l'attenzione del poeta deve creare perchè il fuoco dell'ispirazione non alteri la continuità viva, il confine naturale delle parole. Ma io lo sapevo troppo espero per dubitarne, se anche il suo guasto s'era condito di sale attico ed egli aveva invidiato a Pindaro le ardite metafore, le espressioni rischiose, le mobili figure e gli effetti audaci dei ditirambi. Certa avventatezza che è in alcune sue composizioni, trova sempre la grazia giusta e la misura. Mi ripetevo questi versi: «A me un tenero vitello che abbandonata la madre, fra abbondanti pascoli ringiovanisce per i voti miei, con la cornuta fronte imitando i curvi splendori della luna, allora che ne riporta il terzo giorno, bianco, qual neve a vedersi, ove ha contratto una macchia, in tutto il resto rossiccio» dove la cesura del verso saffico, vale a dire l'orma del secondo «piede» e del terzo si attaccano per creare una cadenza più incisa.
Passavano le donne, una dietro dell'altra meraviglia, ed io pensavo i nomi bellissimi delle «Odi»: la magica Canidia. Lice che vuol parer bella e scherza e beve senza freno e dopo aver bevuto col canto sollecita all'amore, Cinara dei gesti agili e il leggiadro colore, e Nevra spergiura. Erano venute in costume da Avigliano, da Pietragalla, da Picerno, le vesti lunghe dalle tinte violente, le trecce torte sulla nuca, i grandi occhi degli uccelli di razza. Ecco Làlage, che si trascina dietro la sua giovenca: - Togli via questa tua avidità d'uva acerba - gli diciamo. - Il variopinto autunno colora i grappoli e là e già dietro alle spalle, con la tuo giovenca. L'età della ferocia è perduta: è necessario che tu aggiunga alla tua bestia gli anni che a te stessa avrai tolti. - Làlage dell'aperta fronte, ben presto andrai in cerca di marito. Làlage a tutti diletta, le bianche spalle lucenti al pari della luna: inganneresti certo degli ospiti astuti coi tuoi capelli arricciati e il volto di fanciullo ambiguo.
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Noi abbiamo sentito la presenza del Poeeta, nei nostri tempi nuovi carichi di cronache memorabili, quando un coro di giovanetti e di fanciulle, in mezzo alla piazza, è venuto a gridare il canto della gloria imperiale di Roma.
I due cori congiunti chiedono ad Apollo e a Diana di ascoltare le loro voci scelte e caste. I fanciulli gridano al Sole che nulla mai possa vedere più grande di Roma e le fanciulle chiedono alla Luna di aprire i parti maturi al tempo giusto, di conservare le madri, di accrescere la prole e far prosperare le leggi per le nozze più feconde.
«Fertile di frutti e di bestiame la terra presenti a Cesare in dono una corona di spighe e salubri acque e venti prupizi».
Per virtù della Poesia, dopo duemila anni, quei fanciulli riconsegnavano intatto il destino della Patria alla tutela degli Dei, quando ancora una volta le acuri erano tolte dai fasci e le acquile delle legioni e le armi, oltre il mare stabilivano a legge di Roma.
La spada è stata gettata sulla bilancia, Roma riconferma la primogenitura del suo dominio sulla terra, e i suoi figli non hanno tardato ad occupare con fausto augurio le navi: ora, ledando la seta, bevono l'acqua delle sabbie in un casco di guerra.
Più tardi le fanciulle hanno danzato sull'erba con tanta allegrezza di sangue: i lori piccoli piedi saggi, così bianchi, erano più mansueti degli animali che i bambini fanno col panno bianco dei fazzoletti.
Poi siamo tornati sulla Via Appia. Sotto l'ombra giovane si un elce giace l'infanzai del poeta.
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