Testimonianze su Valéry di poeti italiani contemporanei
di Leonardo Sinisgalli
in Poesia
A.II, n.3-4 (gennaio 1946)
Mutato a volta a volta da Parca in Narciso, da Serpente in Pitonessa, prestando parole a Semiramide e a Eupalino, idee a Leonardo e a Cartesio, il genio di Valéry consisterebbe dunque in questa sua immersa virtù mimetica, in questa forza di simulazione? Egli ha lasciato il minimo appena sufficiente a farci ricordare la sua ombra di uomo: Valéry ha voluto esistere come spirito, come strumento, come principio; ha ribadito la necessità di rimuovere perennemente tutte le nostre ragioni, le nostre facoltà, la nostra fede, preoccupandosi di incantarci sempre, di sedurci, di convincerci qualche volta, senza commuoverci mai. Per riuscire in questo Egli ha, in un modo che oggi possiamo dire miracoloso, affilato la sua lingua. La frase di Valéry, prosa o verso, non è canto e neppure discorso: è uno «slogan», un indovinello, un proverbio. Nei momenti più alti pronunzia dei teoremi che non contengono, come i Teoremi di Pascal, una verità eterna, una regola; non frenano la natura, non la riducono, ma quasi sempre la complicano, la imbrogliano di eccezioni, di accidenti. Esempi: «Dal germe di un'idea può nascere Apollo oppure un mostro»; «Se un filo fosse perfettamente omogeneo non si spezzerebbe, non sarebbe dove spezzarsi»; «Per i mali dell'anima non ci sono che due rimedi: la verità e la menzogna»; ecc., ecc. Che significa questo? Che Valéry era uno scettico, un sacerdote che rifiuta i fedeli e crede che la verità, se esiste, è un poligono di troppi lati. Valéry non poteva mai essere interamente saggio, o interamente folle. Nè Socrate dunque, né Lucrezio. Era Lui, un temerario, magnifico, memorabile Lui.
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