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Ragazzi senza età

di Jean Cassou
traduzione di Leonardo Sinisgalli
in Prosa
A.1, n. (1945)

 

In Lorena, in mezzo a una campagna irta e feudale, l'opificio del signo di Wastville dava lavoro a un centinaio di operai e ad alcuni ragazzi, intenti a riempire di cascame i carrelli o a sorvegliare, in piedi, la dipanatura delle trecce. Era questa l'occupazione del piccolo Carlo. Aveva imparato come i giorni sono lunghi anche quando si accendono le lampade a olio: l'interno della fabbrica prende un'aria fantastica e il cigolio delle porte e il rumore dei vetri sembrano assopirsi e sciogliersi come un uragano interminabile. A quell'ora la consuetudine si fa più profonda, il fetore dei sacchi, dei fiati e dell'aria chiusa pare stinto; lo spirito, gli ochhi e le spalle son diventati inerti., Tuttavia, specie d'inverno, quest'ora arriva prestissimo, ed è un inganno, perchè il pomeriggio resta sempre molto lungo da trascorrere e la stanchezza torna e il piccolo Carlo deve appoggiarsi e premere l'inguine contro uno dei banchi dei telai per ritrovare una specie di esaltazione, soprattutto se in quell'istante può guardare le gambe mature di Firmina. pechè è nell'istinto delle membra maschili generare, come un rigurgito di linfa, nel sesso, anche quando si va verso il patibolo. Forsè è questo l'ultimo desiderio del condannato a morte: aggrapparsi alla trave della ghigliottina, disperatamente eretta verso il cielo, es esaurire in quell'abbraccio un'energia quasi inestinguibile. A dispetto di un'oscura stanchezza, a dispetto anche di una virilità ancora acerba, Carlo si sentiva colpito da uno stimolo vago che poteva coglierlo di sorpresa in qualunque momento della giornata, ed era forse per soffocare quel fragile richiamo che egli si piegava a ridosso del banco e cercava con gli occhi un'immagine di donna qualunque fosse la corposa figura di un'operaia, o più gracile e pungente, Melania, la piccola compagna della sua età, che era lì, china come un gatto, a raccogliere per terra i cascami di filo. Allora il padre di Carlo interveniva e con una frusta colpiva il ragazzo, per un patto cpncluso all'alba tra loro due, venendo in fabbrica. «Padre, tu mi frusterai non è vero? E ti inquieterai e mi sgriderai. Non voglio essere punito dal capo reparto». Costui durante la picoola scena strizzava l'occhio, ma con aria cattiva, sotto il suo berretto di lontra. carlo si raddrizzava, suo padre riprendeva il lavoro brontolando. nessuno alzava gli occhi. Melania con la schieana curva spariva tra le gambe degli operai e delle macchine.
C'era qualcosa tra Carlo e Melania? Si poteva dire che Carlo era innamorato di Melania? Certamente, lo si poteva dire. E Melania di Carlo. Era proprio amore quel sentimento brutale che li avvicinava l'uno all'altro durante la mezz'ora consacrata al desinare, tra le grame erbe del cortile, e li spingeva a strofinarsi i magri polpacci. Era amore l'accorata pietà che aggrediva Carlo quando Melania aveva da mangiare meno di lui, ed egli non esitava ad offrirle uno spcchio della sua mela acida.  La bambina afferrava quel boccone di mela con le mani sporche della terra che avevano raspato, e vi affondava i denti, alzando gli ochhi sotto le palpebre azzurre verso il suo piccolo amico. Carlo sorrideva: era l'unico sorriso della sua giornata lunga, un sorriso tenue, estenuato, che screpolava la sua minuscola faccia di gesso. Poi il padre arrivava e li faceva bere allo stesso fiasco, un sorso di vino. Più che mai era amore che colava nella gola stretta del piccolo Carlo; e Melania lo guardava con una soddisfazione più viva e con un'aria di dedizione totale. Carlo tirava fuori dalla tasca una cicca raccolta in terra e la fumava: al sapore acre del vino si sostituiva nella bocca quello più irritante del fumo. La sera, al ritorno, camminando vicino a suo padre nell'ombra di un viottolo, e stringendo nella sua piccola mano affaticata la grande mano paterna, Carlo si sentiva uguale a lui, come lui capace di bere amore e  veleno. Mai gli venne il sospetto di sentirsi colpevole di fronte al padre; ma egli era colpevole davanti agli altri, al capo reparto per esempio, davanti al bancone del telaio, al signor di Wastville, e lo era pure suo padre nella stessa misura. Melania rientrava a casa, sola; non aveva più il padre, e abitava in fondo al paese presso una vecchia. Non aveva nessuno a cui poteva sentirsi uguale, ma aveva in compenso molto coraggio, perchè poteva fare da sola quella lunga strada notturna, saltando i fossi quando c'erano da saltare, scottandosi le gambe nude fra le ortiche. Non aveva nessuno col quale poter concludere un patto, nessuno a cui dare la mano, nessuno con cui poter dividere la fatica, il desiderio, la collera. La piccola non poteva paragonarsi altro che alle erbe della notte, agli animali, alle piante roche che vagiscono nella campagna, e a tutte le cose malefiche che spuntano da terra all'improvviso e sulle quali si rischia d'incespicare.

Il signor di Wastville amava il teatro. Pensava che nessuna cosa fosse più efficace per educare i cuori e lo spirito dei suoi operai, specialmente dei bambini. Certi giorni di festa li faceva recitare sul piccolo palcoscenico allestito in una galleria del suo castello. A sentir lui la più bella scoperta era il talento di Carlo e di Melania. Non c'era rappresentazione a cui non prendessero parte i due bambini, insieme a un ragazzo più grande, di tredici o quattordici anni, chiamato da tutti il gran Rodolfo. Quest'ultimo aveva sempre per compagna nelle rappresentazioni la figlia del signor di Wastville. Rodolfo faceva la parte di amoroso, si innamorava di Madamigella Wastville e il suo servo era il piccolo Carlo; questi faveca la corte a Melania che aveva la parte di cameriera di Madamigella. Seduto in prima fila tra gli spettatori, il signor di Wastville, paonazzo sotto il ciuffo di capelli grigi, incassato in un colletto rigido, assaporava quel giuoco mentre i signori e le signore del vicinato si scambiavano sorridendo i loro giudizi. In fondo alla sala gli operai della fabbrica e la gente del villaggio era ammessa ad applaudire, ma erano così lontani che gli attori non potevano riconoscerli. Difatti non vedevano altro che la faccia tonda del signor di Wastville: il resto si perdeva nell'ombra confusa delle candele. Ma potevano guardarsi l'uno con l'altro, e Carlo poteva ammirare a suo agio tutta la grazia di Melania sotto i suoi travestimento. Si sentiva pienamente gaio e puro nel suo costume. «Briccone!» gli gridava il gran Rodolfo. Che cosa non avrebbe fatto per Rodolfo e per la felicità di lui? Rodolfo era un cavaliere così galante, ed era còmpito di Carlo inventare mille scaramucce, sempre più ingegnose, pur di venire in suo aiuto e favorirne gli amori. «Pensa, amico mio, gli diceva Rodolfo, è la più bella di tutte le donne, e da quando siamo sbarcati in questo paese, son pazzo di lei!» Quella donna era Madamigella Wastville, alla quale, dal suo canto, melania dimostrava una devozione e una fedeltà assoluta. Madamigella Wastville faceva la sua comparsa: bellissima e in tutto degna della statura di Rodolfo e delle adorabili attenzioni della sua servetta Melania. La più giovinetta sapeva in quelle occasioni  mostrarsi straordinariamente civetta e voluttuosa, chinandosi e voltandosi da ogni parte e scoprendo nell'ombra del suo corpetto la fulgida aurora dei seni. Anche le sue braccia erano luminose, e la sua voce carezzevole trovava le vie più impreviste oer arrivare in fondo alle anime. E che vestiti belli e vaporosi: di seta, della stessa seta che veniva fabbricata nella manifattura e che alla luce della ribalta scopriva come una sostanza nascosta e viva, uno splendore particolare. «Da quando ho messo piede in questo paese, confidava il gran Rodolfo al suo valletto, passo di meraviglia in meraviglia, di sorpresa in sopresa. briccone, che ne dici se ci fermiamo qui per sempre? Ah! Ridi, eh? Questa idea ti piace... » Questi dialoghi, nei quali il grande Rodolfo e il piccolo Carlo si scambiavano le loro impressioni e i loro voti, producevano in tutti e due un visibile, immenso piacere, Si sentivano a loro agio, in grande familiarità. Ma quando appariva sulla scena Madamigella Wastville, Carlo scopriva, sotto il trucco, che il viso del suo padrone si sbiancava, perchè qualcosa di torbido e di oscuro stava per accadere. «Lasciaci soli» diceva il padrone in tono brusco, e Carlo ritornava dietro le quinte, dove anche per lui cominciava una schermaglia amorosa, perchè alle galanterie dei padroni seguivan quelle dei domestici. Allora egli ricompariva sulla scena insieme a Melania, alla quale doveva fare delle moine non senza probabilità di successo. «Davvero? Ma allora io sono l'uomo più felice del mondo! - Non divagate, non vi ho detto niente che possa farvi credere... - Beh? Ho capito, conosco il cuore delle donne. - In questo caso... » Un bacio furtivo, ancora un bacio... E' un po' troppo, e tuttavia... Sì, può dirlo forte ch'egli sarà l'uomo più felice del mondo. Perchè quest'attesa, quell'ansia, e l'eco ancora viva nell'aria delle parole che sono state pronunciate, quella musica rimasta come una ghirlanda appesa alle trpide luci della scena, può rendervi l'uomo più felice del mondo. Nella sala gli spettatori si agitavano sulle sedie dicendo che quei due monelli erano veramente adorabili. Il signor di Wastville, lusingato, salutava a destra e sinistra sorridendo.
E' facile immaginae che durante la settimana e le lunghe ore di lavoro, i ragazzi pensassero a quelle feste e ne approfittassero impazienti la ricorrenza. Ma non era così. E può darsi ch non facessero nessuna differenza tra la pena delle giornate di lavoro e il miracolo di quei momenti in cui, sulla scena del teatro, essi creavano così incantevoli sortilegi. In compenso quei momenti non erano turbati dal pensiero del domani e dei colpi di frusta davanti ai telai. Se questa contrarietà, insopportabile perfino a immaginare, poteva esistere in qualcuno, era unicamente forse nella mente del signor di Wastville. La sua coscienza avrebbe potuto dire che egli ne soffriva. E che lui, mentre si svolgeva la rappresentazione, sentiva pungersi con raccapriccio dall'idea che poco più tardi, Carlo, il gran Rodolfo e Melania avrebbero ritrovato i loto focolari oscuri e la minaccia di una settimana da ricominciare. Ma solo la sua coscienza avrebbe potuto confidargli l'esistenza di quelle considerazioni. perchè il volto del signor diWastville, durante lo spettacolo, si rasserenava ai festosi sproloqui e alle risposte appropriate, e gustava il giuco eccellente di quei piccoli commedianti, sembrava soddisfatto di avervi fatto partecipare sua figlia, essendo sempre una buona cosa, per una giovanetta così bene educata, poter confrontare il proprio talento con quello di quei piccoli monelli.
Melania, Carlo, e il grande Rodolfo recitavano la commedia degli amori e delle meraviglie senza cavarne nessuna speanza per la loro vita, e se Rodolfo diceve: «Da quando sono sbarcato in questo paese ...» essi non immaginavano minimamente che si potesse partire e arrivare in altri luoghi. Questa totale assenza di desiderio e d'illusioni non impediva loro di recitare le parti con una completa buona volontà, con una voce commossa e un cuore palpitante. Così Melania, quando curva sul pavimento della fabbrica inseguiva i rimasugli di filo abbandonati, metteva in quel lavoro tanta attenzione da non ricordare nessuna delle storie che si raccontano alle bimbe di nove anni. Capitava lo stesso al piccolo Carlo: tutto era così uguale ai suoi occhi che egli non faceva nessuna distinzione tra i diversi momenti della sua vita, tra i giorni crudeli e le notti benefiche, durante le quali non si pensa che a dormire. Il sonno arrivava sempre troppo presto per lui come l'alba e il risveglio, senza che ci fosse mai un solo momento d'indugio e qualcuno che ti solletica la nuca col dito e ti chiama micetto o uccellino. In tutto questo tempo opaco no c'erano per Carlo che due soli bagliori a incantarlo veramente: quando appoggiava l'inguine al bancone del telaio e un bizzarro e rozzo istinto d'uomo l'aggrediva, e quando, sopraffatto dalla fatica, temeva di veder comparire il bastone alzato del capo reparto. Allora il suo istinto l'avvertiva del pericolo ed egli veniva a battere il suo bambiino come era stato convenuto tra loro due.
Così vivevano quei ragazzi senza soffrire la tristezza e l'angoscia delle feste. A commedia finita, la sala diventava più confusa e sfolgorante e la folla spariva senza che essi se ne accorgessero. Gli spettatori, o forse la coscienza del signor di Wastville, si domandavano con malinconia se quei felici commedianti, rimasti sempre nel paese dove per fortuna erano sbarcati, avrebbero conservato i loro costumi di festa, dietro la scena, tra le quinte, avrebbero pranzato allegramente e continuato a scambiarsi, attraverso le luci, i frizzi leggeri. O se forse essi andavano a deporre le loro ali e subire così l'amarezza di un ritorno alla intollerabile realtà. Ma si sarebbero rassicurati, se avessero potuto capire che quei piccoli attori non si ponevano simili problemi. E se per caso avessero avuto fantasia di entrare, la mattina dopo, nella fabbrica: quale sarebbe stato la loro sorpresa di non trovarvi neppure i sogni cancellati della vigilia! Chinandosi verso Melania le avrebbero detto: «Che cosa cerchi? Un pezzetto di filo? E' divertente. Ma no, prendi prima questo: è una regina vestita di malva che si annoiava tra gli interstizi dell'ammattonato. Laggiù c'è un papavero rosso nasconsto tra le spighe. Quesro odore di polvere è l'odore dei campi, non è vero? e i campi sono immersi; presto tu abiterai al confine estremo dove comincia la foresta e troverai dei funghi che ti divertirai a raccogliere». Ma la bambina li avrebbe allora guardati come si guarda la gente che farnetica. Lei, Melania, non farneticava; solo la sua schiena prendeva una piega dura e rotta. La gente si sarebbe ancora domandato come si può così a lungo giuocare sempre allo stesso giuoco: per reprimere un'attenzione che non aspira ad altro che a svolazzare, non bisogna inventare delle finzioni?
Questo rifugio era inutile per Melania che chiusa nella fabbrica a raccogliere cascami di filo per quattordici ore, non aveva bisogno di credere che le cose possono sforzarsi di sembrare diverse da quelle che sono.
I ragazzi soffrivano dunque soltanto il sacrificio imposto alla loro piccola statura. Piuttosto gli altri sono da compiangere, perchè non c'è nulla più straziante dell'idea di un contrasto, quando diventa ossessiva, e lo spettacolo del mondo ce la ripresenta perennemente allo spirito. E' certo dunque che a causa di questa idea morì il signor di Wastville. La tensione che essa aveva generata in lui era troppo forte, ed egli scoppiò. Un colpo apoplettico l'abbattè sulla poltrona, rantolante, le gance violette, gli occhi bianchi, la lingua di fuori in pieno teatro; mentre sulla scena sua figlia, a cui il gran Ridolfo in quel momento stava baciando la mano, cacciava fuori dalla gola un urlo spaventoso. Saltò dalpalcoscenico vestita da principessa, mentre Rodolfo rimane col braccio in aria e il madrigale interrotto, e Carlo e Melania si domandavano quale contegno dovessero assumere. Dovevano continuare a recitare o disfarsi dei costumi e ritornare in fabbrica? Calato il sipario, ci fu un momento di panico.

Dopo il seppellimento del signor di Wastville, che fu una cerimonia molto ben riuscita, la vita riprese il suo corso. Al mattino tutti gli operai, comprese le donne e i ragazzi, assisterono alla messa e seguirono il funerale convoglio fino al cimitero. Ci fu una piccola ritenuta sui loro salari per concorrere alle spese di una corona che fu attaccata al feretro e sulla quale si leggevano queste parole: «Al nostro benefattore». I ragazzi scorsero Madamigella Wastville tutta ravvolta nei suoi veli, che singhiozzava. fu fatta salire su una carrozza. Ma essi ebbero il modo di guardare a lungo i tre figli del signor diWastville, che non cessarono di farsi notare e di vigilare ogni cosa. Erano vestiti per la circostanza di abiti neri, ricavati da una stoffa ruvida e prelatizia. Erano tre grossi cacciatori, ossuti, spilungoni, che portavano vigorosi favoriti come conviene ai figli della Provvidenza, ai fratelli dell'Eternità. Nessuno li aveva mai visti, ma quel giorno tutti capirono che esistevano e che la fabbrica sarebbe rimasta in buone mani. Gli abitanti del paese si domandavano se per caso essi avevano ereditato i gusti delicati del padre e se al castello sarebbero continuate le rappresentazioni. I ragazzi non si domandavano nulla. A sepoltura avvenuta fu portato a conoscenza degli operai che in segno di lutto il lavoro sarebbe stato ripreso alle cinque del pomeriggio. Tutti erano liberi fino a quell'ora. I fanciulli ne approfittarono per ritrovarsi dopo colazione davanti agli opifici chiusi e passeggiare un poco tra l'erba brulla. Un silenzio insolito pesava sui fabbricati; l'aria era bianca e cupa. Il piccolo Carlo succhiava e mordeva la mano, ritrovando un sapore di pane bruscato. Guardava Melania,magra nella sua veste a quadri, con gli occhi verdi ficcati nel viso come due piccoli buchi, i capelli arruffati, le gambe legate al ginocchio da una pellepiù bruna e più ruvida di quella del palpaccio. Il gran Rodolfo stava con loto e sembrava assorto.
Girarono intorno ai fabbricati e, a poco a poco, raggiunsero i confini che separavano la brutta erba della fabbrica dai giardini del castello. Il castello apparve ai loro occhi, e il prato e la vasca dei cigni. Niente più ricordava la fabbrica, e se c'erano degli strumenti dimenticati vicino a una capanna, erano arnesi di giardinaggio, quelli coi quali si rastellano i lucidi ciottoli dei viali, s'innaffiano i fiori felici delle aiuole. La capanna era pulita e accogliente; i rovi delle siepi spuntati e lucenti, sembravano incapaci di pungere; e quel sedile, sotto il chiosco alla svola del viale, sembrava dipinto di fresco. I tre ragazzi, continuando la loro passeggiata, arrivarono fino alle adiacenze del castello.
Si accostarono alle mura, e sotto una finestra, si fermarono. Tutto intorno era silenzio e solitudine. Rodolfo si alzò sulla punta dei piedi come se volessero provare a guardare dentro la stanza, e, benchè fosse il più alto, non ci riuscì. Allora sollevò Carlo sulle sue braccia e gli domandò che cosa vedeva:
- vedo Madamigella Wastville, rispose Carlo. E' sola in una grande camera. E' vestita di nero.
A sua volta Melania volle vedere Madamigella Wastville vestita di nero. Poi anche il gran Rodolfo aggrappandosi al davanzale della finestra gettò uno sguardo nella camera. La giovanetta stava seduta vicino a una lampada accesa. Aveva i capelli pettinati in due bande e un piccolo colletto bianco rifiniva il suo corpetto nero; in quel bianco spiccava il collo sottile e palldico. Il viso era quasi rivolto verso di loro e gli occhi erano rossi; sotto l'ombra delle ciglia le lacrime avevano deposto come una leggera bruciacchiatura. Pensosa la bocca, e le mani congiunte sul grembo. Non era più òa fulgida principessa che sotto la splendida parrucca incipriata invitava la fantasia a correr dietro alla bella avventura. Era una cosa intima e misteriosa che il dolore aveva colpito e che appariva lì, per la prima volta al mondo.
I tre ragazzi si uardarono tra loro, o piuttosto fu carlo che guardò melania, e insieme guardarono il loro amico maggiore Rodolfo. Cadde sui loro icchi un'ombra che sembrava stupore. Perchè d'un tratto, in quella scialba sera di ottobre, il grande Rodolfo aveva provato un sentimento che corrisponde a una precisa età della vita, un sentimento come quello che provano i ragazzi di quattrodici anni. Egli aveva guardato quella fanciulla con gli occhi della sua giovinezza e come si guarda un'immagine straziane. Il suo cuore aveva battuto, egli ne aveva ascoltato i battiti e l'aveva interrogato. L'immagine era rimasta al di là dei vetri, ma ad occhi chiusi la vedeva ancora, seduta nella penombra, ed egli si ripeteva con una specie di dolce terrore che la rivedrebbe ormai per sempre. I suoi piccoli compagni si accorsero che abbassava e riapriva le palpebre continuamente, che si appoggiava tremante al muro sotto la finestra meravigliosa. E fu quello un evento straordinario, ma più straordinario ancora per i due piccoli che, come si è visto, non avevano infanzia, a che, anche loro come Rodlfo, fecero un'intrusione subitanea nel tempo. E benchè non avessero in apparenza che otto anni, e in vero nessuna età, condivisero la disperazione dell'adolescente che si era addossato, stracco, almuro, le mani pensoloni e gli occhi socchiusi. Gli si accostarono quasi cercando di guarirlo, ma sapevano bene che il male era senza rimedio. Allora, remota, dietro il cielo delle fabbriche, la campana suonò. Ritornarono ai loro telai, i due piccoli affrettando il passo e ansimando per stare vicini al loro grande compagno. il giardino fu cancellato dalle ombra della sera, e le selci ruvide ricomparvero in terra. Ricomparvero anche le rosse vetrate della fabbrica chiusa dove covava il fetore dei sacchi, dei fiati, dell'aria torpida, il vapore che esala il tempo quando si restringe e si arresta.

 

18 Marzo 2021

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