Misura del tempo
di Leonardo Sinisgalli
in Ulisse
A.IV, n.11 (apr 1950)
La nostra epoca, l'epoca che noi chiamiamo moderna, ha rifiutato l'obbedienza ai dogmi e si è trovata a dover riscoprire il mondo dalle ceneri. E badate bene, a quest'opera un poco sacrilega non hanno partecipato solo i Poeti, ma gli architetti con l'abbandono delle regole canoniche, e i pittori, forse più clamorosamente di tutti, con il rifiuto di tutto uno stupendo macchinario capace di risolvere un atela, una cupola, una muraglia, un soffitto. Dobbiamo confessare sinceramente che, forse, come succede nelle dissipazioni dei patrimoni familiari quando basta la sventatezza o l'inettitudine di un erede a distruggere un immenso capitale di beni e di tradizioni, anche l'opera dei nostri apòstati bruciò non solo le stoppie, ma arse profondamente la terra buona. Chi porta la miccia, nella furia e nell'ebrezza delle devastazioni, non distringue un'Accademia dall'altra, un Portico dall'altro, un'immagine viva da una spoglia d'insetto.
E' noto che le grandi leggi astronomiche trovano la loro conferma in una lettura attenta dei residui del calcolo, residui trascurabili per l'intelligenza nostra, residui fertili di suggestioni e di suggerimenti per l'occhio del geometra. voi sapere che la differenza tra un cerchio e una ellisse si può rendere minima quanto si vuole, e che la costituzione di un atomo di diamante non è diversa dalla costituzione di un atomo di carbone. Uno sforzo formidabile, una mandibola di fuoco, una tenaglia di fiamme, può di un nero acino di carbon fare una splendida gemma. Petrarca e Gongora possedevano questa virtù; borromini possedeva la stessa virtù nel godere delle minime aberrazioni di un cerchio; galileo e Keplero sapevano tener conto dei decimali anche nel manipolare cifre astronomiche. Oggi i Poeti, gli Architetti, i Pittori (e forsr perfino gli Astronomi), forse perfino i Filosofi, sono diventati più sciatti. Noi siamo fisiologicamente inefficienti a sostenere la grande fatica di un'opera compiuta: un Canzoniere, un Trittico, una Cattedrale sono imprese superiori alle nostre forze. A noi sgugge, dell'opera d'arte, la sua organicità, la sua automaticità. Perchè non c'è nulla che riposi tanto il Poeta quanto il lavorare dentro una forma chiusa, dentro una regola, dentro un dogma. Inventarsi un dogma fu per tutta una vita la pena di Pascal, fu per tutta la vita una letizia per Paolo Uccello. La fertilità d'un dogma trova solo un paragone nella fertilità dell'errore. Pensate all'inesauribile voragine costituita dal piano pospettico e agli infiniti meccanismi scoperti per inseguire la chimera del moto perpetuo. Oggi qualcosa che somiglia a un dogma, a una chimera, ci potrebbe essere suggerito dalla tecnica cubista, mentre i Poeti, al contrario, sembrano ormai tutti succubi del démon du hasard, del Caso.
Il Dio dei Poeti rassomiglia stranamente al Dio di Spinoza, un Dio polimorfo, un Dio polivalente, un Dio che cresce e si disperde e ci sfugge all'infiniro, un Dio che si spezza, che si moltiplica, che si frantima. Un Dio che sarebbe più di noi stessi vicino alle cose, intrinseco alle cose, coinvolto al destino dell'Universo. Il Poeta non avrebbe altra misura, altra ambizione che documentare la sua possibilità di esistere. La sostanza della Poesia non genera più quei mirifici paesaggi cristallini, quegli splendidi e sonori edifici simmetrici, ma qualcosa di instabile, in cui la crescita è molto visibile, qualcosa che non si placa, che non si interrompe, qualcosa di catalettico di raccapricciante che rassomiglia a una bava, a una pruruggune, a uno sputo o a uno sbocco di sangue. E, dove abusare di una terminologia troppo personale: il Poeta, oggi, è viviparo.
Pochi mesi addietro un ragazzo di provincia fece una curiosa scoperta acustica che ribadì con l'aiuto di argomenti statistici e con preziose analogie dedotte dalle formule dei fiori e dalla ripartizione dei denti nelle mandibole dei mammiferi e dei rettili. Aveva guardato in bocca a una poesia come si guarda in bocca a un marsupiale, il Phascolaretus cinereus; aveva contato le vocali come si contano i petali di un fiore dalle qualità mediche portentose, la Poligala Virginiana. Aveva estratto da ogni poesia la «formula vocalica», una frazione cioè che porta al denominatore gl'indici delle vocali ricorrenti nel testo e al numeratore dli indici delle stesse vocali accentate. Aveva così trovato in molte Stanze di Poliaziano un'alta frequenza della vocale a, nei Sonetti e nelle Canzoni del Petrarca un indiscusso dominio della vocale e, e nei Canti di Leopardi l'accentuata periodicità della i.
Analisi di questo genere sono molto utili, se pure sembrano a prima vista oziose, come sembreranno oziose ai più le ricerche che Eratostene, applicando il suo mirabile crivello, faceva sulla natura dei numeri interi, quando di ogni numero estraeva i fattori primi, irriducibili. Nello stesso torno di tempo un giovane musicista con la punta del lapis disegnava certe sue preziose curve sonore e spiegava l'influenza che nella forma di quei grafici, di quei fonogrammi, avevano l'ampiezza di sillabazione delle singole parole, gli accenti, e gli spazi tra una parola e l'altra, e gli iati corrispondenti ai diversi segni d'interpunzione.
E' stato scritto che l'endecasillabo è il verso più naturale alla pronunzia italiana, è stato detto giustamente che la nostra lingua, non soltanto la lingua poetica, cristallizza in endecasillabi. E' una verità grossolana, ma è una verità: tanto è vero che da un pensiero di Leonardo da Vinci o da un semplice Avviso Economico si possono estrarre endecasillabi a iosa. Allo stesso modo che dal prospetto o dalla pianta di un edificio classico si può dedurre una molteplicità di schemi aurei. Io non credo nella fertilità dei controlli eseguiti sempre con gli stessi apparecchi: devo dire che ho più fiducia negli strumenti di misura, magari rozzi, magari rabbercianti che ciascuno si costruisce. Devo dire che molta poesia, come certe soluzioni colloidali dell'oro, sfugge a tutti i filtri, non si decanta, non si fissa, non si separa.
Tra prosa e poesia - è inutile farsi superflue illusioni - i confini che un tempo apparivano così netti ai retori e ai Sofistti, così visibili, che bastava a riconoscerli un semplice colpo d'occhio, come basta un semplice colpo d'occhio a riconoscere un muro romano; tra prosa e poesia è avvenuta formalmente una commistione, una mimesi per usare l'antica parola di Aristotele. E vorrei precisare (perchè è una considerazione utile a intendere il tessuto metrico della poesia moderna); la commistione di prosa e poesia si spiega come il risultato di una sovrapposizione di due curve, l'una armonica (il canto), l'altra rettilinea (il parlato). Lo scheletro discorsivo, vale a dire una sintassi umana più che divina, regge buona parte dei moderni edifici poetici, e ha permesso delle sinuosità, degli accidenti ritmici che in effetti si ricollegano a certi cori, a certi canti liturgici, a certa musica moderna e allo spartito di una banale canzonetta. Ecco perchè troverete in molti testi tanti settenari e perfino qualche punto esclamativo che risolleva a tratti il carico della colonna sonora.
Oggi la sembianza della poesia è inutile; l'edificio di parole e di suoni appare meno regolare, la perfezione geometrica dei modelli che per tanti secoli aveva accreditato l'incorruttibilità delle matrici creando uno standard stilistico capace di nobilitare l'elogio di una mano o la caducità di una rosa, un epitalamio o un epitaffio, non è più oggetto di idolatria, e suscita forse in noi più meraviglia che ammirazione.
La impressionante stabilità delle antiche forme, pari soltanto alla stabilità delle Piramidi e dei Colossei, delle Colonne e delle Cupole, ha ceduto il campo a strutture meno astratte, più snelle, più articolate, e certamente più caduche. L'apparecchiatura del linguaggio metaforico, la carica dei simboli e delle figure, dei fregi e degli emblemi, non eccita l'ardire dei Poeti. La metafora, estenuandosi via via, perduta la sua efficienza aggressiva, è scaduta nella sigla.
L'immagine si era staccata dall'oggetto, il sentimento si era illanguidito nella capillarità delle similitudini. Incredulo dell'effimera presa della lingua poetica, del formulario accademico, dei poveri relitti di un Mistero troppo remoto, il Poeta ha trovato nella barbarie, nel gergo radici ancora vive, ha cercato nella verità quotidiana, tra gli sterpi e i lugubri arredi delle camere mobiliate, non dentro le sfere e i tabernacoli, la testimonianza di eventi partecipi della sua inconsolabile solitudine.
Il Poeta ha dovuto attingere ai pozzi dell'instinto, alla sua tenerezza animale. Ha dovuto affidarsi al suo fiuto più che alla sua scienza, al suo dialetto più che alla sua cultura. Non imputiamogli d'averci dato tuberi anzichè gemme.
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