Un lucano a New York. Il grattacielo non è che l'albero della cuccagna
di Leonardo Sinisgalli
in Corriere d'Informazione
13-14 novembre 1954
Dall'America mio padre chiedeva ai suoi rimasti in Italia le ricette delle sopressate, capicolli, salsicce da affumicare, salsicce da arrostire e da cuocere
New York, novembre.
Dopo le prime ore di assuegazione all'altalena della nave, le zuccae contro gli specchi, gli scivoloni per le scale, gli abbracci improvvisi alle imperterite fantesche, finisci col trovare quello che ti ci vuole per non sembrare un tantoccio. Ti ci vuole la poltronmamma, aro Savinio.
Stringi le tue parentele: una sedia a sdraio sul ponte della passeggiata, una poltrona nell'angolo del bar. Le sedie sulle navi sono imbullonate ai pavimenti oppure hanno le gambe piene di ferro, secondo la distanza dal centro di spinta. Noi abbiamo sprecato un paio di giorni per capire il meccanismo del galleggiante, e l'applicazione del principio di Archimede. «Se volete fare un viaggio tranquillo», ci disse il maggiordomo, «camminate il meno possibile. Statevene in cabina sdraiati, oppure seduti lì, in quell'angolo».
Una piccola inchiesta
Io non mi mossi più da quella cuccia. Quando ero obbligato ad abbandonare la mia poltrona ci lasciavo il mio libro. I miei amici scendevano al bar, vedevano il libro sulla poltrona, pensavano naturalmente «Leonardo è in cabina a dormire». A nessuno passò in mente di avvicinarsi, di guardare, di aprire quel libro. Sulle navi i libri hanno meno fortuna che qui in terra. Non potendo leggere i giornali si perde il vizio della lettura, e quei bollettini quotidiani, che ti spingono in cabina sotto la porta, sono talmente sciapi da scoraggiare il lettore più intrepido.
Le traverse degli oceani servono a far riposare gli occhi e i piedi.
Io feci un piccola inchiesta una sera fra gli amici. «Indovinate il titolo del libro che mi son portato nella valigia». America amara, America primo amore, De America; Cecchi, Soldati, Piovene.
Rimasero un po' sorpresi quando io mostrai la Raccolta di traduzioni popolari lucane, stampato a Matera nel dicembre del 1953. E spiegai che la ragione del mio viaggio non era la speranza di arricchire la mia cultura, di misurare l'altezza dei grattacieli, il numero di automobili che passano ogni giorno sul Waschington Bridge; io non andavo a Nuova York per vedere le cento versioni dello spogliarello.
ci andavo per assaggiare qualche salsiccia di Montemurro. I miei paesano per cinquant'anno erano andati in America a fare i lustrascarpe, poi tutti si eranno messi a fabbricare le nostre impareggiabili salsicce. Anche mio padre era andato a Nuova York, prima bambino, poi adulto, per fare qualunque mestiere. Dopo qualche mese chiedeva per lettera a mia madre, a mia nonna, a mio zio, le ricette minuziose per fare sopressate, capicolli, salsicce ad arco, a catena, a collana, salsicce da affumicare, salsicce da arrostire, salsicce da cuocere.
Partivano nell'infanzia da Montemurro per Nuova York, Thompson Street, i sacchetti odorosi pieni di peperone pestato, di peperoncino in polvere, di grani di pepe, di semi di finocchio. Partivano le istruzioni della nonna, della zia, di mamma. Spiegavano che la carne del porco va divisa in dieci mucchi, spalla, lombata, prosciutto, costata, ecc. ecc. Che i muscoli, secondo la classificazione, vanno tagliati in pezzi e pezzetti, vanno conditi con tanti acini di pepe, tanti grammi di peperone, peperoncino, finocchio. Tutto va mescolato con le mani, con mani di donna, e poi insaccato negli intestini, gl'intestini lavati e profumati con spicchi d'arancia.
I miei parenti, i miei paesani avevano portato a Nuova York, al Greenwich Village, questa cultura.
Questa cultura non era quella dei campi, o degli orti, non era la cultura della vite o dell'ulivo, non era neppure la cultura artigiana dei muratori e dei sarti, non era cultura della mente.
I montemurresi avevano preso l'America per la gola, come fanno i lupi con gli agnelli.
"Oche come vitelle,,
Erano diventati ricchi e potenti. Sulle insegne delle botteghe di Thompson Street erano scritti i nomi nostri, quelli dei nostri registri municipali, dei registri di scuola: Falotico, Caropreso, Angerami, Sinisgalli, robilotta, i nostri bei nomi quadrupedi.
Ma a Montemurro da tanti anni non si sa più nulla dell'America.
Un tempo gli emigranti tornavano a curarsi la vescica, le reni, gl'intestini con le acque madri della Tufara, di Belliboschi, della Verdesca. Da anni non viene più nessino. Nessuno parte più. il mio timore, il mio terrore non era tanto di trovare i grattacielo qualche metro più in basso di come li avevo immaginati, o le ragazze della 52a Strada meno belle di come le avevo sognate, non era tanto il timore che le oche nelle vetrine non fossero «grandi come vitelle» (ce l'aveva giurato un'amica): la mia paura era che i montemurresi, mancando gli scambi diretti con la tribù, non sapessero più fare buone salsicce.
I miei compagni di viaggio si divertivano a queste mie dichiarazioni. «Leonardo è adorabile in viaggio» diceva Iole. «Quando ti fermi, tu metti i vermi» diceva Arturo. Nessuno prese sul serio le mie ragioni.
E quando arrivammo a Nuova York, io non tirai fuori la guida Hachette come tutti i viaggiatori, come gli onorevoli Andreotti e Bonomi, come i coniugi Pagliara, Cavatorta, Arata: io avevo in mano il mio libro con i tanti lucani che certamente i miei congiunti ricordavano ancora e il canto di una ragazza:
«Io sono già pronta
E mi voglio sposare.
Ho la casa lavata,
una treccia d'agli,
una cesta di cipolle.
E una zucca piena di sale pestato».
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