La gatta milanese
di Leonardo Sinisgalli
in L'Unità
21 settembre 1947
Che cosa sarà accaduto alla mia signora Anna? E Bianchina, la nostra gatta amorosa, dove sarà sepolta? Più di dieci anni di pioggia, di nebbia, di neve sono passati tra me ed i miei due cari personaggi. Gli inverni si son fatti più crudi. Intorno alla nostra casa, lì a Lambrate, la città si era estesa fino a ieri, aveva toccato i binari della ferrovia. Ma la guerra ha spazzato via le giovani fabbriche, quelle che io vidi spuntare dai larghi solchi aperti al margine dei prati.
Quando arrivava lungo il vialone della periferia il carro del vetraio, trascinato da due miti buoi, era una festa per noi che guardavamo dal balcone le cime rosee delle Alpi. «Hanno tirato su un’altra casa in Via Teodosio» diceva la signora Anna. E il carro del vetraio dopo un mese ricompariva con le sue belle lastre ingabbiate.
Si sa che un giorno, vagabondando come facevo tutte le mattine verso il tocco, vagabondando sotto le ciminiere della Lips Vago, capii che bisognava scrollare la pesante inerzia che mi portavo addosso. Camminare lavorare non dormire. «Non dormire»!. Io che allora ero molto debole e solo, promisi di non dormire. «Non dormirò, mi stancherò prima, morirò molto prima di quando la signora Anna ha letto nelle carte».
Cambiò casa pure lei. Mi accostai al centro della città e qualche volta mi recavo a trovarla.
Aveva raccolto tutti i suoi beni in un’unica stanza, aveva inforcato gli occhiali. «Sa che Bianchina ha avuto due micetti, uno nero, uno bianco?» «Sono nati qui?» domandai. «Nacquero laggiù, a Lambrate. Carlomagno s’è portata via la gatta. I muratori girarono tutte le case del quartiere per trovare i due sposi.» Si avvicinò a una cassetta posta accanto alla stufa, sollevò il panno di lana che la copriva e mi mostrò le due bestiole che dormivano su una guancia. Povera signora Anna! Avrebbe voluto che me ne portassi una con me. «Il bianco!» disse. «È una femmina.»
Ma ci tornai sempre più di rado, fintanto che una domenica mi dissero che la signora era partita un mese prima. «Ha cambiato casa?» domandai. «Ha cambiato città» mi risposero.
Pensai tante cose impossibili sul suo conto: «Forse il marito è finalmente ricomparso dopo dieci anni di assenza»; «forse è ritornata in provincia».
Scendevo le scale di quella casa sita in fondo a una strada che era la più lunga della zona: Via Archimede, se la memoria non mi tradisce. Le scale erano buie, difficili. «La signora Anna aveva terrore delle scale». Così apprensiva, così delusa del prossimo, «come avrà fatto a scendere da sola con quell’ingombrante scatola di gattini?». Lei che provava tanto sgomento a passare da un marciapiede all’altro le rare mattine che andava a rifornirsi di matasse in città.
Mi ero distratto a scendere, mi ero fatto avvitare dagli innumerevoli gradini di quel buio imbuto. Avevo perduto l’orientamento e procedevo a tentoni. Mi appoggiai a una parete e a piccoli passi cercai di arrivare fino in fondo. «La signora Anna ha cambiato città» mi ripetevo. «Ma non avrà sbagliato treno?» E mi consolavo pensando che proprio le persone più irresolute, perplesse, finiscono con l’imboccare sempre la strada giusta. Bisognava che io uscissi fuori dai vani intricati di quel sotterraneo. Provai ad accendere un cerino per trovare l’interruttore della luce: la fiammella si spense come schiacciata tra due dita. Provai a chiamare qualcuno ad alta voce, a rifare il cammino a ritroso, a risalire le scale. Non so quanto durarono quei miei tentativi.
Forse appena un istante, perché laggiù, come nei sogni, io ero naturalmente portato a dare al tempo una misura soltanto visibile, e scambiavo l’attimo della riflessione con la lunghezza incalcolabile di quel groviglio senza principio né fine.
Mi giunse un trapestìo di passi e un mucchio di voci confuse. Poi il lampo di una lanterna. «Chi va là?» gridai come un automa stringendo le spalle alle pareti del labirinto.
Da una botola che si era aperta quasi sopra la mia testa irruppe all’improvviso una cascata di materia nera, iridiscente. Le voci degli uomini erano più vicine. Mi sentivo soffocare. Quando ebbero scaricato una ventina di sacchi di carbone si calarono uno dopo l’altro da quella buca.
Non ebbi timore di farmi vivo finalmente. E proprio mentre stavo sollevandomi dalla mia angustia con i tre neri fantasmi (calzavano stivaloni di gomma che ricoprivano anche le ginocchia), dall’oscura profondità della caverna una larva chiara si mosse. Miagolando ci chiamò a fissare nella tenebra fumicosa le sue pupille. Il più mansueto di quei tre mostri affondò nel buio le braccia e riuscì a stringere tra i grossi guanti il tenero animale. «Bianchina!» urlai. «Bianchina mia!» Mi guardarono stupefatti perché la mia voce doveva essere tanto lontana. Doveva essere la voce di chi chiama in sogno e quegli uomini forse avevano la facoltà di udire le parole gridate in sogno.
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