Una città è nata in mezzo agli alberi
II, n.4 (luglio 1954)
A LIGNANO PINETA, TRA VENEZIA E TRIESTE, UN ARCHITETTO MODERNO RISTABILISCE L'ANTICO ACCORDO TRA NATURA E GEOMETRIA.
Una freddissima notte di maggio, il corpo imbottito di giornali, in un treno lento e semivuoto mi sono spinto da Milano a Trieste. L'architetto Marcello D'Olivo aveva disegnato una città. Aveva fretta di guardare le sue carte e correre sui luoghi dove già le prime squadre di operai, nel folto della giovane pineta, scavavano trincee, piantavano pali, macinavano calcestruzzo, dopo che felicemente era stato coperto di bitume il primo nastro stradale. Due anni prima era stato a trovare il mio amico a Udine, sua città natale. Avevamo trascorso insieme una sera sulle colline di Buia, insieme ai suoi muratori, Ursella padre e figli, le figlie del capomastro friulano e i nostri familiari e i loro amici. Avevamo mangiato e bevuto e gli adulti alla fine avevano cantato. Con la collaborazione affettuosa di quegli artigiani fuoriclasse, di quegli inarrivabili operai, D'Olivo aveva già costruito a Opicina il più bell'edificio italiano, la più geniale architettura di questo dopoguerra: il Refettorio per i fanciulli di Don Shirza. E si apprestava già a preparare il progetto per le altre fabbriche del villaggio, la Tipografia e la Chiesa.
Fu proprio quella sera a Buia, prima di cena, che io vidi nel cortile i primi esperimenti in cemento precompresso, il primo fungo, il primo albero matematico. E D'Olivo mi confessò che non avrebbe potuto mai, senza la comprensione e la capacità del vecchio Ursella e dei suoi figli e dei suoi operai, non avrebbe potuto mai dar vita ai suoi numeri e ai suoi segni, perché il lavoro sulla carta conta assai poco nell'arte di edificare. Non avrebbe potuto certo imporre ad altri costruttori il rispetto dei suoi angoli, dei suoi spigoli, delle sue losanghe, delle sue piramidi, delle sue superfici oblique. L'architetto aveva trovato un interprete paziente ed entusiasta nel venerabile muratore, e insieme avevano già costruito le opere audaci di cui avevo avuto 1'onore di scrivere per primo, quello stesso anno, quando appena le palanche delle nuove casseforme erano state rimosse e le superfici nette e il contorno tagliente del cemento era venuto a nudo. Poi, a lavoro avanzato, tutto il mondo (e l'altro ieri il New York Times) hanno esaltato l'architettura del Villaggio come "architettura del futuro". Sono tornato con D'Olivo sul colle di Opicina, l'altra mattina, e ho visto oltre il Refettorio, ormai compiuto e in servizio, lo scheletro del grande quadrifoglio della Tipografia che ho presentato nell' ultimo numero di questa rivista. Siamo andati con 1'amico a guardare dal basso uno di questi fiori matematici, ci siamo spostati sotto l'ombrello, pesante circa una ventina di tonnellate, sospeso a quello stelo, vibrante, sottile, eppure resistentissimo alla bora che lassù scoperchia le case, ho visto le due serie di tre borchie che stringono i fasci di 42 fili d'acciaio ciascuna, alla tensione di due tonnellate per ogni filo. Quel misto di matematica, di meccanica, di scultura, quella forma legata alla terra e all'aria con l'energia di un albero, quella forma con radice e con muscoli, quella forma vivente a me dava le vertigini. Perché pensavo che 1'anima è qualcosa di simile a quella tensione, a quel1'attenzione, e basta il vento a suscitarla proprio come alla nostra anima basta un sospiro, e basta il peso della neve (o degli anni) ad affaticarla.
Ma dovevo vedere nascere una città e non potevo indugiare troppo tra quei pilastri come i pellegrini romantici sotto l'architrave del Partenone. In una domenica di pioggia e di vento, dentro un capitolo di romanzo di Svevo o di Hemingway, noi corremmo verso Monfalcone, verso Aquileia, verso Latisana e imboccammo, subito dopo, la strada che ci portava dentro la nostra piccola giungla, la Pineta di Lignano, dove un gruppo di pionieri aveva affidato a Marcello D'Olivo il compito di studiare il tracciato di una città per le vacanze, tra il fiume poco lontano il Tagliamento gli alberi e il mare. Una città tra le piccole dune di sabbia d'oro. Il verme di Mobius non si accorge di passare da una all'altra parte del nastro famoso, che per un'astuzia del geometra è diventato di una sola faccia; anch' io ero già entrato nel trapezio sacro e non mi accorgevo di percorrerlo, quasi fosse bendato. Mi pareva di giocare a moscacieca dentro il bosco perché non vedevo mai la strada. L'architetto infatti, a imitazione di un suo leggendario antenato, aveva rifiutato la linea dritta, per costruire il suo labirinto, e per offrire agli occhi, in ogni tratto dell'itinerario, un punto di fuga sempre diverso. Avevo visto nel suo studio delle grandi mappe che abbiamo dovuto svolgere sul pavimento per poterle guardare. In una c'erano segnati tanti piccoli cerchietti, anche poco più grandi di un puntino, gli alberi individuati sul terreno. "Non ne abbiamo dimenticato nessuno" mi ha detto, "e spero proprio di salvarli tutti". Perché egli ha già tracciato il piano di massima, con la sistemazione di circa un migliaio di appezzamenti a una media di mille metri quadrati per lotto. "Ognuno potrà diventare proprietario di una cinquantina di alberi, e avrà l'obbligo di non occupare col fabbricato che una giusta aliquota del terreno". Le case studiate da D' Olivo per questa città orizzontale non hanno nessuna somiglianza con le case di città. Niente sovrastrutture, niente intonaco, solo il letto per dormire la notte al coperto e stare all' ombra nella controra (ma con un ricambio d' aria continuo), qualche parete, o quinta, qualche pezzo di pavimento, o pista, e il minimo necessario. Insomma, una tenda, un ombrellone in cemento e in legno, un ricovero non una casa. "Chi viene qui dentro deve sentire il gusto di camminare tutto il giorno a piedi nudi, coi calcagni bagnati o asciutti, deve potersi sedere per terra, deve attingere il più possibile alla inesauribile fonte di vigore che scaturisce perennemente dal mare, dalla sabbia e dalle foglie". Lungo la spina dorsale della Grande Via, come provvisoriamente viene indicata sui progetti, sono stati costruiti i primi negozi, i primi ritrovi, le prime sale per la comunità dei villeggianti. La città sarà composta di nuclei diversi, ma saranno tutti autonomi e tutti tra loro complementari. Non ci sarà bisogno di filo spinato o di muri con cocci di vetro per difendere la propria libertà o la propria solitudine. Basteranno gli alberi, gli arbusti, e i crinali delle dune.
" Non sembra una città terrena, sembra piuttosto una città sulla luna", ho detto al mio amico. "Flammarion spiega che gli abitanti della luna sono molto più leggeri di noi. Io credo che gli abitanti della Pineta proveranno davvero questa sensazione. Quando usciranno dall'acqua continueranno a sentirsi meno densi e un poco immortali, interplanetari, vedrai".
Non volevo spingere agli estremi i paradossi del mio amico, che mi aveva già abbastanza sconcertato con il giuoco dei chioschi satelliti disegnati su una carta intorno a un sole: era il progetto di un albergo con i servizi centrali, e i vani distribuiti intorno, dentro il bosco. "Come lo chiamerai? Ti ci vorrebbe un poeta del Settecento a dare i nomi a questi tuoi sogni". Del resto una curiosa aria di giardino per illuminati o per illuministi spirava intorno a quelle idee. Si capisce che c'entrava anche Rousseau e c'entravano i grandi viaggiatori che scoprirono 1'Oriente. In un lontano miraggio si intravedeva una umanità che avrebbe preferito vivere per terra, vivere molto più in basso dell'altezza di una sedia o di un divano. Una umanità che cercava un antidoto all'intelligenza, stufa di stare in piedi, di stare all'erta, una umanità orizzontale. E del resto D'Olivo non nascondeva le sue predilezioni. Bastava guardare tra le cime dei pini le linee dei suoi tetti e scoprire proprio il profilo di una pagoda. Gli ricordai che l'estate scorsa ero andato apposta a Palermo per visitare la Casina cinese costruita per la favorita del viceré. Parlammo degli orizzonti così cari a Baudelaire, dì paesi calmi e voluttuosi. Stavamo coi piedi premuti su una breve striscia di terra che nel giro di qualche anno sarebbe diventata almeno per una estate, lunga o corta, un luogo di pace se non proprio di delizie. Venezia era a un braccio da noi e l'altro braccio indicava il Regno della saggezza seduta, del dormiveglia, dell'estasi, del farniente.
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