Donghi
di Leonardo Sinisgalli
in Beltempo
Roma 1942
Certo la firma di ntonio Donghi è la più brlla firma della pittura vivente. E' forse più bella della firma di Morandi. Donghi dice che ha bisogno di almeno mezz'ora per scriverla con la punta del pennello e sembra scritta con la penna. Anche certi alberi dei paesaggi di Donghi sembrano scritti con la penna, e le foglie, le memorabili foglie dei personaggi di Donghi. Gli amici citavano l'altra sera, alla Lungara, quei versi in cui si parla dei cinesi «au coeur limpide et fin» e dei tramonti disegnati sulle tazze di porcellana (une ligne mince et pure serait un lac); gli amici parlavano della stupida ebbrezza del paradiso di Donghi. (Bisogna parlare di paradiso a proposito di Donghi, come per Cranach e per Rousseau). Certo questa pittura, questi fiori che sembrano dipinti sui piatti, questi simulacri, i ritratti e le figure a coppie, così totalmente privi di ombra, così limpidi a furia di star fermi, hanno una fissità placida, commemorativa, transumanata, medianica.Le figure di Donghi ci guardano perplesse come ci guardano i morti. (Si può parlare di atonia, alla maniera di...?). La sua pasta troppo stirata ci mette un poco in orgasmo, come ci mette un po' soggezione la pittura troppo fotogenica. Ma non è colpadi Donghi se egli non si accontenta di finire il quadroin un'ora o in un giorno e neppure in una settimana. Donghi ha bisogno di mesi come Usellini e come Seurat. Ha bisogno che il modello gli posi per ore intere, fermo su un piede solo e col cappello a cilindro sulla punta della stecca che stringe tra i denti. Ha bisogno che i fidanzati indossino il vestito nuovo, un vestito che non sia sporco o acciaccato. E' una dolce mania questa di credere il mondo così terso e i sentimenti così piatti. Ma è la mania senza di che il pittore non muoverebbe un dito, non sporcherebbe una tela. I suoi quadri, le sue figure, sono lì a un passo dalla cartolina, come certa bella poesia che solo di pochi numeri si stacca dal disco o dalla canzonetta. Ma chi nega ormai la grazia lunatica, l'ironia del pittore Antonio Donghi? Una pittura nient'affatto innocente, una materia pressochè liquefatta, in cui non c'è quasi più imbroglio. Per questo Donghi non fa scalpore: vive aristocratico e assente, fuori dalla mischia, alla periferia della città, coltivando questa curiosa serra, una serra un po' funebre, una serra senza odori che danno alla testa.
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