Santo Stefano 1944
di Leonardo Sinisgalli
in La Giustizia
28 dicembre 1954
La molta neve caduta quell'inverno sui terrazzi della città aveva costretto alcuni nostri amici a consegnare per qualche tempo le loro splendide abitazioni nelle mani degli spazzacamini e dei fumisti. I marmi delle halles d'ingresso, i corridoi, i bagni e tutte le parti lucide della casa erano stati coperti e mascherati di felpa. Le lussuose Regge dei Parioli e dei Pariolini, le grandi ville dei Quartieri Alti dove a tramontana, sorpassata la cortina degli alberi e dei lecci, s'insinuava tra gli interstizi degli infissi, eccitando i lampadari, si erano spopolate giono per giorno. Molte famiglie si trasferirono negli alberghi, altre chiesero asilo per qualche mese ai parenti che abitavano negli antichi Palazzi del Centro. «E' destino» diceva la vecchia baronessa Zaira de Cousandier «che la nostra città conservi anche un un'epoca come questa, tormentata da una così grave crisi di domicilio, uno strano squilibrio: da una parte gli straccioni, i diseredati che dormono sotto i tunnel, nei colossei, e nelle caverne sparse sui Sette Colli, dall'altra i Principi della Corte e della Curia che lasciano deserte le tetre dimore dei loro antenati e preferiscono una comoda camera in pensione o un mezzanino nella Suburra».
La nostra amica Irene D. aveva comprato da poco un appertamento nei paraggi dell'aristocratica chiesa di San Bellarmino. Quasi presàga della eccezionale durezza della stagione aveva chiamato un illustre Sellaio, che si adattava per capriccio a fare qualche volta il Tappezziere, e costui, era riuscito con l'aiuto di una squadra di operai magri e delicati, un po' nevrastenici per via di quel minuto lavoro più adatto forse alla pazienza di una donna che all'irrequietezza di un uomo, a imbottire le pareti di due stanze contigue, sì da ricavarne il soffice guscio di una alcova.
Era venuto poi un Antiquario del Babbuino «a sistemare i divani, le poltrone, le specchiere, i lumi, e infine un letto sotto un superbo daldacchino. Poi un Mercante di tappeti orientali che vantava la freschezza dei colori e la minuzia del disegno di quelle opere, le quali soltanto ̶ egli diceva ̶ potevano sopportare la carezza di un piede piccolo e nudo, un piede fondo di ninfa o la leggera zampa di un gatto o l'unghia di un uccello, ecc... capolavori di oculatezza e di fantasia che le nostre pupille occidentali difficilmente intendono, ecc..., orditi così perfetti da far invidia solo ai ragni, ecc... e colori, colori che la polvere dei secoli conserva ma non distrugge come la polvere difende una gemma, ecc..., ecc...».
La nostra bellissima amica s'era ritirata in quella nicchia, e dentro quella nicchia, proprio come si vede nei vecchi Templi distrutti, aveva fatto il suo nido. Non è una metafora: Irene s'era raccolta dentro il letto per trascorrervi i mesi crudi. Allorchè ci telefonava, dall'altezza di un cuscinno, il suono della sua voce scarnita dalla porosità dei crini, delle lane, delle piume, e della forte coibenza dei sugheri e delle altre artificiose sostanze in fiocco, somigliava allo scampanellio fioco delle porte in mezzo al mare quando avvertono che il tonno è entrato nella tonnara. «Venite» ella diceva, «non mi fate aspettare. Ho preparato per voi un Saint-Honorè».
Irene si faceva trovare distesa sotto il baldacchino, cogli ochhi chiusi. Ma lo scherzo di far la tonta con noi non le riusciva mai, perchè proprio nell'attimo in cui sporgevamo le teste delle pieghe delle tende per salutarla ed entrare, sempre col dubbio di trovarla qualche volta veramente assopita, essa tirava fuori delle imbottite, come il cigno tira il collo di sotto l'ala il suo lunghissimo braccio e si grattava la punta di un àlluce.
«Irene!» gridavamo noi «ti abbiamo sorpresa. Anche Sant'Orsola non sapeva reggere il gioco troppo a lungo!».
Eravamo nella immienza delle feste di Natale e la turba degli sconosciuti Ammiratori della nostra amica, che un giorno per caso l'avevano vista passare lungo i viali dei Pubblici Giardini o si erano voltati in teatro, nel secondo intervallo dell'Opera, verso il suo palco, non dava requie alla portinaia dello stabile ̶ che pure era situato in una Via Privata, in fondo a un viale oscuro e poco invitante ̶ e alle fantesche, costrette ad ogni trillo a spalancare i due battenti dell'uscio d'ingresso per far pasere le monumentali carbelles di rose.
Qualche volta lasciavo le due amiche ai loro colloqui e mi recavo io stesso a dare una mano alla donna, al ragazzo del fiorista e al portinaio. Non che le rose fossero pesanti o meritassero da parte nostra molto rispetto (Irene mi aveva detto: «Lascia fare a Fanny, io non le guardo neppure»); ma i cesti erano stati confezionati con una cura paziente che reclamava, almeno questa, l'ammirazione di qualcuno. E poi, io ho un debole per i fiori; al primo che mi capita domando: qual'è il nome di questa rosa?
«E' la gloria di Roma», mi rispose il ragazzo, «il più bell'esemplare che ci sia arrivato quest'inverno dalla Riviera». Fanny apriva la porta dell'immenso salone gelido e vuoto, dove erano ammassati i bauli, le casse, le cappeliere, e noialtri con la delicatezza che si trasporta un cadavere dal letto nella cassa, depositavamo l'effimero trofeo accanto a quelli che erano arrivati il giorno prima, e che sprigiovano un lezzo pungente. La cameriera spalancava i balconi, ma un turbine di granuli bianchi la assaliva: pareva uno sciame d'insetti antartici avidi d'avventarsi sopra quei cespi fragranti.
Nella nostra città così popolosa di Statue ̶ è la Città delle Statue più popolosa del mondo ̶ io non avevo mai avuto l'occasione di conoscere il complicato dispositivo dei dislocamenti di così grevi e così preziosi corpi.
Un pomeriggio eravamo da lei, nella sua cuccia zeppa di pantofole spaiate, di vestaglie varipinte, di piatti e di giornali. Irene stava a letto e la luce di una lampada obliqua dava al suo volto una soave trasparenza, cadaverica. «C'è una giornata magnifica di fuori!» dissi io. E Irene ci raccontò che dopo parecchie settimane, quella mattina s'era provata a uscire, ma aveva dovuto subito chiamare un taxi e tornarsene a casa, poichè il sole, di colpo, l'aveva nauseata al punto di farla svenire. «La luce fredda mi inibisce di camminare, di pensare. Devo trascorrere l'inverno in letargo, non c'è rimedio». Parlava guardando il soffitto del baldacchino. «Leggo molto, leggo troppo», ci disse, «mi pesano un poco le palpebre. Ho letto tutti gli Annunci Economici di questa settimana. Sono più divertenti di un romanzo giallo. Sapete che ho comprato una statua e un pappagallo? Arriveranno tra poco». Verso il crepuscolo Fanny venne ad annunziarci l'arrivo di uno dei nuovi Ospiti. Era difatti un Esculapio. L'Annunzio offriva Veneri, Cariatidi, Ercoli, Discoboli, Augusti, Minerve. Irene aveva scelto un esemplare unico, che l'anonimo collezionista dava come «pezzo più pregevole della Raccolta». Il marmo aveva un solo vizio: «il sesso diligentemente scalpellato». le altre Statue, invece, avevano soffermato amputazioni molto più gravi. I due uomini, padre e figlio, adetti alla rimozione di quel personaggio non impegnarono che qualche minuto per sistemarlo nell'ingresso. La loro tecnica mi fece grande impressione: il padre dava comandi, espressi da parole quasi tutte di due sillabe, gìra, alza, vòlta, mòlla, tìta, ecc..., e il figlio, con un leggero movimento della mano, toccando semplicemente qualche leva, o abbandonando il capo di una fune, o spostando con la punta del piede la posizione di certi rulli, muoveva tutto il complesso apparecchio di manovra. Esculapio salì vittoriosamente tredici gradini, poi slittò verso la sua nuova dimora.
Il lettone mi perdonerà l'eccessivo risalto ch'io do a queste inezie. Il lettone mi grida di spingere la punta del pennino dentro il cuore di Irene. Non è impresa facile. Dubito che Amore sia riuscito mai a colpirla con la sua esile freccia. «Sono quaranta anni, signore», mi disse l'uomo «che io trasporto statue da un punto all'altro della città. Abbiamo impiegato soltanto un'ora a venir su da Via Ripetta, perchè il trasloco mi piace farlo a passo d'uomo. Michelangelo e Bernini hanno lasciato istruzioni precise per questo lavoro. Quando nevica andiamo più rapidi: la gente ci gurda meno».
Loreto si fece annunziare da una lettera del suo padrone, l'ottantenne baritono venezuelano Manuel Del Rio, abitante in una soffitta in via del Vantaggio, che per indigenza, non poteva accudirlo più. Irene ci lesse una sera quella lunga lettera patetica. Mi sarebbe piaciuto trascriverla, parola per parola, ma quando la chiesi alla mia amica, ne ebbi per risposta una gran risata: «Ti pare che io possa conservare una lettera? Riesco appena a richiudere i fogli che già mi volano via dalle mani. Ho l'impressione che tutta la mia posta ritorni indietro ai mittenti». Io ricordo ora vagamente le frasi accorate che il vegliardo scrisse con mano tremante per dar l'addio al suo fedelissimo compagno e per enumerarne i meriti alla nuova padrona. Raccontava tra l'altro come Loreto si fosse miracolosamente salvato dalla terribile epidemia di psittacosi che nel 1907 fece strage nel mondo di tutti i pappagalli venezuelani.
Diceva che cinquant'anni nel pieno fulgore della sua carriera, «per una terribile fatalità», aveva dovuto abbandonare il teatro e correre il mondo in cerca di «un po' di pace». Loreto gli era stato sempre vicino, nelle ore più difficili. «Per lungo tempo ci siamo divisi i semi di girasole». Il baritono raccomandava alla nostra amica di cambiare l'acqua due volte al giorno, di tenerlo possibilmente in penombra e di mettergli accanto «una boccetta vuota di profumo». E le virtù? «Loreto canta come un angelo».
L'uccello fu sistemato in uno sgabuzzino semibuio e per due o tre giorni ebbe l'uomore triste. Irene scrisse un biglietto disperato al baritono. «Loreto non tocca nulla. Non canta, non beve, non mangia. Ho paura che mi muoia». Ma il signor Manuel Del Rio risultò «sconosciuto» al postino. Il padrone aveva scongiurato di non legarlo mai al trespolo per la zampa. Consigliava, tuttavia di tener chiuse le finestre della casa almeno per qualche giorno. E Fanny ebbe un gran da fare a spiare le minime mosse dell'Ospite taciturno. Irene fu svegliata dall'urlo della donna. «L'avrà beccata», pensò, «le avrà portata via un ocio!» e si girò dall'altra parte. Ma Fanny, che pareva impazzita, entrò nell'alcova. «Signora, il pappagallo non c'è più!». «Avrà lasciato almeno una piuma o un pizzico di cenere» rispose calma Irene. Scese dal letto. Percorsero insieme la casa in lungo e in largo. «Ci sarà qualche finestra aperta. O si è cacciato dentro una cassapanca».
«Loreto! Loreto! Loreto!» gridarono insieme la serva e la padrona. «Muchachas!» disse una voce lontana e affettuosa.
«Machuchas!» ripetè più dolce ancora, è più lontana. L'idolo verde stava lì, dietro di Ioro, immobile sulla testa di loro, immobile sulla testa di Esculapio. E pareva impagliato, tant'era rigido. Più piccolo di un corso più grande di una gazza, sulla testa nerissima portava applicata una mascherina di piume bianche, rade, che coprivano appena l'arida pelle del muso scimmiesco, in cui i due piccoli fori delle narici, così distanti dal rastro imperioso, sembrava piuttosto due pupille spente per atofia.
gli occhi grossi, rotondi, cerchiati di giallo, erano spostati quasi sulla nuca al posto delle orecchie.
Le due donne lo guardarono impaurite. Ma, infine, Irene si fece coraggio, salì sopra uno sgabello, e sospirando con un filo di fiato, «Loreeeto, Loreeeto», portò la mano sulla nuca, affondò dentro le piume la punta rosea delle dita e lo carezzò a lungo. «Loreeto, caro, caro ...». L'uccello piegò il collo, portò la testa sul petto intimidito. Irene con delicatezza lo sollevò tra due mani. «Com'è gracile!» disse a Fanny, «com'è leggero! Porta uno straccio, Fanny, vieni a pulire il cranio del vecio!».
La nostra amica aveva dunque trovato un passatempo per l'inverno. Era lei che abbrustoliva i crepitanti chicchi di granturco sulla padella arroventata. Loreto era ghiotto di quel mangime inzuppato nel caffè. Ma le sue prodigiose corde vocali dovevano essere assai fiacche, perchè alla tempesta di domande, di frasi premurose , di teneri vezzeggiativi, che gli vevivano rivolti, rispondeva piegando un poco la testa sull'ala, muto come un pesce.
L'anno entrava nell'ultima luna. Quando rincasavamo a tarda sera, dopo aver lasciato la dimora della nostra amica, passando sotto le finte rupi del Giardino Zoologico, non potevamo fare a meno di guardare in alto le stelle silenziose. «Queste notti miti nei cieli meridionali annunziavano già la primavera» diceva alla mia compagna. «Il Caaro ha già cambiato rotta.»
Eravamo da Irene la sera di santo Stefano, il 26 dicembre del lontano anno millenovecentoquarantaquattro. La guerra era appena finita, e le porte dei Teatri d'Opera, erano ancora sprangate nelle nostre città. Fanny aveva imbandito per noi una tavola lussuosissima accanto al letto della padrona.
Irene, che durante tutta la giornata aveva sofferto a causa di un sibilo nelle orecchie era infine raggiante perchhè il treno - disse - era finalmente partito. «Ma non ha fatto molto cammino, l'è ariiivà dentro il diton del piè!» e si grattava la punta dell'àlluce. Ma quella sera volle far veramente festa alla nostra amicizia. Si fece portare dalla fantesca uno stupendo vestito di gala, di raso bianco ricamato di fiori d'oro; appuntò sui capelli biondi uno spendido diadema, infilò un anello al dito mignolo e ai piedi un paio di sandali esigui. Era adorabile. E fu con noi due veramente fraterna. «Che aspettate?» dise di «diventar nonni prima di sposarvi?». fanny ci girava attorno, inappuntabile e operosa come una sordomuta. le pietanze erano squisite... «Una cena da tabarin» dissi io, «brava Fanny!».
Allora Irene si ricordò di aver avuto in donato da Papà Natale un minuscolo apparecchio radio, che entrava tutto in una trousse di madreperla. Fece tirar fuori la scatola, sollevò il coperchio. «Che sciocchi!» disse «non ci siamo accorti che manca la corrente, stiamo mangiando a lume di candela!».
ma remoto da noi ̶ nella penombra del suo camerino, erto sul trespolo, accanto a lui una boccetta vuota di profumo francese ̶ il pappagallo cantava.
Quant'era distante quella voce? Pochi metri: una striscia di corridoio e l'ampiezza di una camera, e in più un intervallo incalcolabile, lo spessore della memoria del pappagallo.
... Un gelo
Mi serpeggia nel sen...
trema ogni fibra!...
Vacilla...
Ci alzammo da tavola, uscimmo dall'alcova, ci avvicinammo lungo il corridoio alla porta dello sgabuzzino.
...Un'armonia celeste,
Di', non ascolti? Ah, l'inno
suona di nozze!...
«E' matto» disse Fanny. Il canto era limpido e puro, un filo lontanissimo che pareva sgrovigliarsi da un gomitolo sporco di lacrime e di sangue, un gomitolo che era stato nascosto per diecine di anni nel ventre di Loreto.
... Ogni piacer più grato
mi fia con te dipiso..
Del ciel clemente un riso
La vita a noi sarà!...
Noi fummo tentati a spingere la porta. «Non bisogna più lasciarlo al buio», disse Irene, «un giorno o l'altro potremmo trovarlo impiccato al trespolo!».
«E' un medium» dissi io. «Da chi avrà imparato tutte queste folli parole?».
«Da una donna, è chiaro!» rispose la mia compagna. «Loreto deve essere stato il port-bonheur di una cantante». Loreto ricominciò querulo.
«Que tienes querido? Porqué estas enfadado con migo?»
Noi stavamo attentissimi a origliare. La donna, dalla profondissima ugola del pappagallo, dopo una breve pausa, riprese crucciata:
«Eres tonto! Estas echo una furia!».
«Con chi ce l'ha? Parla con qualcuno». «E' matto» disse Fanny.
«No es cierto! Te lo juro! Te lo juro por tu vida!».
«C'è un uomo che l'accusa. Un uomo geloso di lei che l'accusa di tradimento».
«E' matto» disse Fanny.
«Socorro! Socorro! Loco! Manuel eres loco! Yo no quiero morir a Caracas ...».
«Qualcuno lo strozza» disse Fanny. Ma Irene aveva già spalancato la porta. «Una candela Fanny, presto!». Come una furia la nostra amica si era precipitata nello stanzino, spingendo avanti le mani nel buio. «Corri Fanny».
Fanny non aveva perduto la calma.
Tolse la mano davanti alla fiammella. Alzò il braccio per far luce. Loreto stava immobile sul trespolo. E pareva impagliato tanto era rigido. Più piccolo di un corvo, più grande di una gazza, sulla testa nerissima portava applicata una mascherina di piume bianche, rade, che coprivano appena l'arida pelle del muso scimmiesco in cui i due piccoli fori delle narici così distanti dal rostro imperioso sembravano piuttosto due pupille spente.
Stampa | PDF | E-mail | Condividi su facebook