Fontana e la libertà dello spirito
di Leonardo Sinisgalli
in Il dramma
A.47, n.3 (mar 1971)
Quando gli raccontai che nello studio di Philip Johnson, nel più bel grattacielo del mondo, quello del Seagram in Park Avenue, avevo visto un suo «taglio», Fontana non si mostrò sorpreso. Allora, dieci anni fa, le opere « spaziali » o concettuali di Fontana (tagli e buchi) si esibivano come simboli di una setta. Erano le creazioni più insolenti dell’epoca; non s’era visto niente di simile, di così incisivo e semplice e urtante, dal tempo in cui Duchamp aveva messo i baffi alla Gioconda. La carica blasfema è in parte perduta, ma quelle opere le guardiamo sempre con rispetto: sono ex voto destinati a santificare la libertà dello spirito. Teresita non ha perduto tempo dopo la morte di Lucio, la cui scomparsa non avrebbe tanto sorpreso qualche anno addietro quand’egli accusò l’improvviso collasso cardiaco ma che ha scosso tutti, abituati ormai a celiare con lui sulle sue magagne e a considerarlo immortale proprio da quando, vitalissimo, si era piegato a qualche cautela. Non andava a studio che di mattina, e non più prestissimo, come io ho scritto nella mia Ode, ma verso le dieci; e non tornava il pomeriggio a Monforte. Certo tirava a starsene fuori casa più a lungo possibile, faceva colazione in trattoria e, verso le tre o le quattro, dopo una capatina in una mostra, rincontro con un amico, rientrava nel suo quartiere, Loreto o Lambrate se non sbaglio.
Franco Russoli ha presentato il «Fontana» di Ballo alla Galleria «Il Naviglio», in coincidenza con una valida mostra dello Spazialismo,allestita da Renato Cardazzo.
In poco più di due anni una folta équipe di esperti si è messa intorno alla vedova affettuosissima, che alla scioperataggine di Fontana vuol mettere riparo con raziocinio ammirevole, ma forse tardivo. Si tratta di tentare un inventario delle opere autentiche, dopo il boom delle falsificazioni scoppiato fulmineo a pochi mesi dalla morte. Non è difficile, ahimè, manovrare il punteruolo e il trincetto e spargere sul mercato come una manna i «concetti spaziali» (buchi e tagli) a metà prezzo. Quasi tutti i mercanti che contano avevano acquistato da Fontana, per simpatia, stock di venti, trenta o cinquanta tele all’ingrosso, mettiamo per un milione in blocco. Mi diceva uno di loro che non riesce a persuadersi di poter vendere, non oggi che è tranquillissimo, ma domani quei «concetti» di dimensioni medie (100x70) a cinque milioni l’uno. Ho dovuto convincerlo io: «Arriveranno nei capoluoghi, nei municipi, nelle fabbriche, nelle scuole d’arte, e non soltanto da noi ma nel terzo e quarto mondo». «Avremo una galleria in ogni cantone - continuavo a dire al mio mercante perplesso - c’è più fame d’arte che di proteine».
Dopo i tributi ultimi di Michel Tapié, di Guido Le Noci (la sequenza di splendide fotografie più eloquenti di un saggio critico), di Paolo Fossati - e rimandando i più curiosi o i più eruditi al volume sullo spazialismo del compianto Gianpiero Giani, che fu con Carlo Cardazzo uno dei padrini del «movimiento» - ci è arrivato come strenna preziosa il libro di Guido Ballo, stampato in maniera impeccabile ed esemplare a Torino dalla lite, con un bel testo e belle riproduzioni: Fontana: idea per un ritratto. Guido Ballo è critico e poeta, capace di riflettere, di capire e, poi, di illuminare. È stato vicino a Fontana per quasi trent’anni; è naturale, quindi, che spetti a lui il privilegio della consacrazione. Certo una ragione del raptus di Fontana non la troverà nessuno. E anche certe dichiarazioni del «Manifesto Bianco» e altre ancora raccolte dalla viva voce dell’Artista non persuadono. Il ricordo, poi, della boria futurista, specie quella verbale, infastidisce. Credo che bisogna, specie per lui, pensare allo «scultore» più che al «pittore», anche se la gloria è arrivata quasi come un surrogato. Fontana sentiva la voluttà di percuotere, di penetrare, non certo di lisciare. La fonte più certa per me rimane Arp, il colpo di for bice dadà, poi il collage, il papier déchiré, la filosofia del discontinuo, la fisica dell’eterogeneo, e una specie di cosmologia (si pensa alle nebulose guardando certe tele iridescenti, crespe, vetrose) che tien conto degli stati della materia più impalpabili.
Fontana, per istinto, capì che il mondo era diventato più profondo. Doveva sentirsi molto vicino a un sommozzatore, a un paracadutista. Ricordo le sue meraviglie per i miracoli delle onde elettromagnetiche, l’essenza della luce, la curvatura dello spazio. In una conversazione nel salotto della Marucelli ci lasciò tutti allibiti per l’ingenuità, che era invece lungimiranza. Un furore di quella specie per le cosiddette «conquiste spaziali», radio, tv, voli interplanetari, vita e morte degli astri, ecc., era davvero genuino. Fontana pareva toccato dalla grazia: joie, foie, joie, avrebbe potuto ripetere tre volte come Pascal.
La sua opera è tutta sotto il segno dell’allegria, un’allegria belluina un po’ raccapricciante. Voleva portare il cielo nelle stanze. I suoi soffitti, dal primo per Cardazzo, a quello per la Triennale, e all’ultimo (stratigrafico) per il padiglione dell’energia all’«Italia 61», dimostrano che Fontana era della famiglia dei primi scrutatori notturni, i babilonesi che non te mevano l’umidità. Egli si era fatta una coscienza specifica della «terza» dimensione, che noi sentiamo tattilmente o perché ci dà il voltastomaco. Fontana la sentiva come i pesci e gli uccelli: la penetrava. Guido Ballo ha descritto bene i diversi momenti del Fontana d’après-guerre; dovrà, nella seconda edizione, approfondire la posizione del Fontana d’avant-guerre, quello appunto di cui si intrattiene Persico nella prima monografia del 1934, edita da «Campo Grafico». Fontana e Melotti erano aggregati al gruppo degli astrattisti della Galleria del Milione, ma erano i più vicini agli architetti razionalisti, Figini, Pollini, Terragni, Palanti, Baldessari. La scultura non celebrativa era rappresentata da Martini, che però aveva sparato quasi tutte le sue cartucce. Marini e Manzù non affrontavano grandi rischi, stavano con Dio e col diavolo, con i vescovi e con i banchieri (e le ricche signore). Fontana, il Fontana di via Lanzone, era il più ardito e il più intelligente di tutti.
Ho detto in versi che era anche il più generoso, e questo conta moltissimo. Solo le persone mediocri sopravvalutano la propria opera. Quelle tavolette di cemento sorrette da spezzoni di ferro, girate o sbalzate in aria su un perno, o ancorate come segnali, Ballo non le ha viste nel clima di allora, che, fatta eccezione di poche sacche resistenti a Roma a Firenze a Milano, era cotto di trionfalismo. Il « primario » di Fontana, quelle ricerche di sillabe plastiche sembrano giuochi, e invece sono contemporanee della poetica della parola e della migliore pronun zia ermetica. Ma proprio il capitolo L’esperienza astrattista mi sembra tra i più felici del libro di Ballo, che qualche anno dopo conoscerà Fontana di persona e non lo abbandonerà più. In questo capitolo c’è la definizione più giusta e illuminante: «Nel caso di Fontana tutto diventa chiaro se si tiene presente la sua esigenza di purezza, la semplificazione estrema dei mezzi espressivi, il bisogno di parlare a bassa voce». E mi sembra che così Fontana viene riportato al suo intimo, al suo silenzio, alla sua solitudine, fuori dalla cronaca spicciola e dalla aneddotica livellatrice.
Col tempo si precisano le parentele, i cromosomi perdono le frange superflue: Wildt e Boccioni sono incontri accidentali. Anche nell’Ode a Fontana ho nominato un solo capostipite, Arp. Ma oggi vedo Lucio in cielo, queste notti d’inverno, accanto a un altro puntino d’oro, Duchamp. Lo vedo fratello nella vocazione antiretorica, antimistica. Fontana che odiava i bulli e i bauscia non badava tanto agli esiti, ma alla strategia. Bisognava intralciare il passo agli accademici, ai pompieri. I suoi «concetti» sono intralci, ostacoli, barricate. Ebbero un grandissimo effetto deterrente. Fecero paura ai filistei. Poi è venuta l’assuefazione e la sua opera dà l’impressione di un arsenale di armi disinnescate. Egli, come Fermi, ebbe il coraggio di brindare pochi minuti prima della catastrofe. Dopo Duchamp, dopo Fontana, per la loro terribile forza di dissuasione, è difficile ricominciare. Meglio così.
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