Le Memorie di Ozenfant
di Leonardo Sinisgalli
in Il dramma
A.45, n.6 (mar 1969)
Un libro monumentale, di seicento pagine fitte, semipatinate, alte e larghe come le pagine di un messale, da poco stampato a Parigi da Seghers, raccoglie i Mémoires 1886-1962 di un vigile pioniere dall'avanguardia e del movimento moderno. Per la ricchezza dei dati, l'ampio arco di esplorazione, la minuzia dell'informazione e la serena abbiettività, questi ricordi vengono a integrare un'altra storia anch'essa minta e nervosa a cavallo dei due secoli, l'autobiografia di Henry Van de Velde.
Il piacere della lettura è grane, ma ci vuole una settimana buona e una buona vista per arrivare alla foce. Sarebbe utile scorrere parallelamente anche l'opera dipinta e disegnata dall'autore, che qui è scarsamente documentata: solo alcuni disegni che col tempo diventano sempre più paradigmatici - i profili curvilinei di brocche, tazze e vasi - e pochi paesaggi che sembrano visioni e miraggi di un assetato. Si è un po' esagerato ad accostargli il nome di Mallarmè. Ozenfant non è un teologo, è piuttosto un artigiano. Ma la sua severità, la sua incorruttibilità, il suo magistero, non sfigurano al paragone delle sublimi quaresime e le ascesi dell'admirable Stèphane. Altra parentela stretta è stata sottolineata dagli storic, quella con Seurat.
Si dice appunto che Ozenfant e le sue teorie hanno rappresentato intorno al 1920, in coda alla rivoluzione cubista, ciò che cinquant'anni prima significarono, sulla scia dell'impressionismo, il rigore e l'equilibrio di Seurat: un mmento di riflessione. E anche quelli che possono avere avvertito un sentore di frigidità nel suo linearismo, e che non nascondono la ripugnanza per tutte le metriche chiuse, hano dovuto, contro l'istinto, ammirare la sua coerenza e l'arguzia dei suoi assomi. Il suo richiamo all'ordine, del resto, non si espresse con toni odiosi o burberi o accademici, ma con eleganza e tolleranza: guai a confondere la sua etica con l'ottusa cecità dei reazionari che prepararono, subito dopo, in Germania e in Italia, le loro purghe contro l'esprit nouveau. Il suo geometrismo si tenne ancorato agli oggetti, quasi li disincarnò. Nacque un equivoco, senza dubbio, tra simbolo e simulacro. Ehli non geometrizzava il mondo, mondanizzava la geometria. In un certo senso raccolse del mondo soltanto i pezzi nobili, rifiutando il resto, ch'era il di più, era la sostanza delle cose. Fuori difatti dai profili e dai puzzles delle sue suppellettili - bottiglie, piatti, coppe, e insieme qualche incastro da epoca d'oro - la sua scena non poteva accogliere forme viventi, forme bastarde, se non in sintesi, sforbiciate, sempre per tener fede alle curve e alle righe rigide degli strumenti, non dalla mano esitante.
I fedeli ammiratori del Maestro (perchè Pzenfant ha avuto discepoli fedelissimi ed è stato una guida ammirevole, un conoscitore di sistemi e di teniche, quasi un mago per i credenti) ribadiscono la sua predilezione per le forme semplici, alle quali sapeva conferire «monumentalità e incorruttibilità». Si è detto ch'egli intendeva con le sue linee tranquille, immobili, con la sua sobrietà, gareggiare con i Greci e con gli Egizi. L'astrattivismo è in debito con lui anche se il dogmatismo dei suoi postulati, dopo un certo tirocinio, per un eccesso di tensione s'infranse. A Cannes, negli ultimi anni che vi trascorse dopo il ritorno dall'America, la sua visione si fa contemplativa, quasi mistica, devota. Marine, albe, vele, nuvole, onde («une vague déroule sa conque parfaite, la mer accomplit un geste exact» scrive in sintonia, se non proprio in sincromia, con certi versi del Cimitero marino di Valéry). Valéry è un nome che qui viene pronunciato, incredibilmente soltanto due volte, e di sfuggita: di fronte all'architetto Auguste Perret, il maestro di le Corbusier, e a proposito di una discussione sull'hasard con Max Ernst. nello sterminato repertorio di notizie, di aneddoti, di idee, si potrebbero isolare anche alcune imperdonabili imputature, per esempio contro Duchamp e Pollock.
Ma andiamo dritti. Cristian Zervos fa un posto molto onorevole al Purismo nel suo panorama del 1938. Devo confessare che il quadro intitolato Cristalli del 1923 (ora al Museo di Chicago) ch'egli riproduce insime ad altri due, Fuga e Murale (di cui una variante a colori è riprodotta sulla copertina di questi Mémoires), è molto suggestivo. Il pericolo è sempre in agguato, il pericolo del décor, pannello o sportello più che tappeto. Anxhe il ricorso alle varianti - il cambio di un paio di pedine sulla scacchiera, in un giuoco che non è proprio una litugia - mette a nudo la carestia dei prototipi e una certa povertà inventiva.
io credo che Ozenfant sia rimasto vittima di una specie di abbaglio sintattico, la sopravvalutazione dei raccordi, come dire delle particelle, delle congiunzioni (dabate, erano i poncifs di Mallarmé!) tra rette e archi di cerchio. «Il quadro è la risoluzione di un'equazione» ripeteva; «l'arte deve esprimere l'optimum col minimo dei mezzi». Sono forzature di un fenomeno indefinibile, irripetibile. e i dogmi si sa che raffreddano il fervore dei credenti. Ozenfant portò molto avanti la sua analisi su quelle ch'egli chiamava le radici, le costanti, le invarianti delle forme. Troppo sedotto, io temo, dall'idea che davvero nel numero ci stia dentro tutto, una specie di pitagorismo o platonismo, insufficiente per le capacità percettive dell'uomo nuovo, quello dell'era di Planck e di Einstein. eppure l'antidoto alla sua arte «programmata» lo trova lui stesso, quando cita Laotze che prende in giro i metodisti o quando riporta i suoi incontri con Braque. («J'aime l'émotion qui corrige la régle», dice Braque, oppure: «Il faut toujours avoir deux idées, l’une pour détruire l’autre»). Egli che è uno spirito tollerante e nient’affatto retrivo perde le staffe quando parla di dadà e dell'action painting. L’arte cinetica, l’op-art, la minimal-art, esplose dopo la sua morte, rendono giustizia alla sua mente ordinata, puritana, al suo cartesianesimo.
Presentato da Auguste Perret nel maggio 1917, Charles Edouard Jeanneret s’incontra con Ozenfant. « Nous admirons, l’un comme l’autre, les chefs-d’œuvre de l’industrie moderne, et Jeanneret avait le sens des très belles choses de l’art surtout anciennes car il était encore tout à fait aveugle devant le Cubisme... ». ». Il 9 giugno 1918 il giovane architetto si confida al nuovo fraterno amico: « Vous êtes celui qui me semble réaliser le plus clairement ce qui s’agite confusément en moi ». Decidono insieme di firmare con i due nomi i loro scritti in difesa del Purismo. Nel luglio, Ozenfant divorzia dalla moglie russa, Zina. Si spoglia di tutti i bei mobili e di tutti i pezzi rari, abbandona lo studio di rue des Vignes per un buco nel cuore di Parigi, rue Godot-de-Mauroy. Le Corbusier, dopo il progetto della casa Schwob, finita nel 1916, non aveva ricevuto altre richieste di lavoro. Fu Ozenfant a suggerirgli di dipingere. Aveva fatto solo alcune decorazioni nella sua città natale, La Chaux-deFonds in Svizzera, e anche a Vienna, a Berlino e a Parigi; aveva anche riempito album di croquis, di caricature, di gouaches. «Je lui enseignai mes méthodes de peinture et confiai mes idées, et dans ma chambre-atelier nous peignîmes quotidiennement côte à côte», conferma Ozenfant.
Scrivono insieme una specie di manifesto Après le cubisme che comincia con una citazione di Voltaire, «La décadence est produite par la facilité de faire, par la satiété du beau et par le goût du bizarre», ch’era una denuncia degli scandali facili, cubisti e dadà. «Depuis trop longtemps l’art s’attarde à exprimer les fugaces images de nos fugitives émotions...» furono le ultime cartucce sparate contro l’impressionismo.
La parte più originale del pamphlet è la fermezza con cui vengono esaltate le opere dei tempi nuovi, usines nouvelles, ponts, transatlantiques, barrages, avions con una convinzione più profonda e un accento più persuasivo di quello futurista. Possono far sorridere certe predilezioni, certe fisime nella scelta delle forme: «dans l’infini des bouteilles nous choisîmes le litre, la bordelaise, la champenoise qui ne changent plus depuis longtemps, s’étant stabilisées au point d’équilibre entre forces extérieures et fonction, suivant ce processus parallèle à celui de la sélection naturelle». Après le Cubisme uscì a Parigi la sera del 9 novembre 1918 quando gli strilloni gridavano la morte di Guillaume Apollinaire.
Qualche giorno prima della sua morte, confidandosi a un apparecchio di registrazione sonora, Le Corbusier definì le ricerche puriste: biologiche e geometriche. E i due attributi sembrano tuttora ben calibrati. Fu proprio in quei giorni che Ozenfant presentò Paul Eluard a Jean Paulhan «ces deux ingénieurs pensent que ce que l’on écrit, peint, sculpte, bâtit, doit se préparer evec le soin et la longue patience des ingénieurs composant une machine». Nacquero allora, le tre definizioni: «machine à émouvoir», «machine à habiter », « machine à lire ».
La rivista «Exprit nouveau», organo del movimento purista, cominciò a uscire nell’ottobre 1920. Insensibilmente gli interessi che i futuristi, i cubisti, i dadaisti avevano rivolto alla poesia, alla pittura, alla letteratura, al teatro si spostarono verso l’architettura. «Il mio amico H. Pierre Roché - dice Ozenfant - conoscendo la mia passione per l’architettura, mi portò dall’America delle stupende fotografie di silos per il grano, edifici monumentali allora completamente sconosciuti all’ambiente degli artisti parigini. Fui colpito dalla loro maestà e dalla loro purezza».
C’erano dunque da scoprire le opere degli ingegneri anonimi, belle senza intenzione, belle come un uovo o una ragnatela. E fu questa occasione che indusse Ch. Ed. Jeanneret a scegliere un secondo nome, e a firmare Le Corbusier (in coppia con Saugnier, cognome materno di Ozenfant) l’articolo dedicato dalla rivista ai silos americani. Quanta parte dell’ «Esprit nouveau» sia passata anche nei programmi del «Bauhaus», quanto ancora abbia favorito e rinsaldato rincontro arte-industria, l’accordo disegno-design esula già da questa nota. Il sodalizio tra i due amici diede dunque buoni frutti. «Io rivendico l'onore d’aver scoperto Charles-Edouard Jeanneret e di essere stato il primo cliente di Le Corbusier».
La rivista andò avanti fino al numero 27. «Le mot pureté que j’avais trouvé dans la boite aux ordures avait repris un sens». Ozenfant s’interessò profondamente di pittura murale, trovò una pasta a base di bianco d’argento che indurendosi diventava come una pietra. Fondò anche una casa di mode «Amédée». «Ozenfant?» diceva Corbu, «c’est pas un peintre, c’est un couturier». La battuta è ingrata, ma è precisa.
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