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Una mostra del pittore Levi a Milano

di Leonardo Sinisgalli
in Il Quadruvio
n.4, 22 novembre 1936
quadruvio carlo levi

Carlo Levi:Nudi

MILANO, novembre.

Nei quadri di Levi non si riesce a trovare un punto di cristalizzazione. Levi parte da un caos, che è l'inaspresso, la materia senza nome, ed esprimersi è per lui chiarirsi, uscir fuori da quel buio. E', vorrei dire, un metodo intuitivo questo sperimentare l'arte incessantemente e non chiudersi in leggi, in schemi, in simboli, non costringere il nostro mondo alla cavità fredda dei modelli, tentare l'arte come espressione appena compiuta. Lo sforzo di Levi, quello di ritrovare il filo d'oro dell'impressionismo, sta nel rigettare ogni antitesi, ogni analogia nata sullo schema della visione impressionista. Se certi suo aggettivi fanno pensare agli espressionisti tedeschi, pure Levi è lontano da quel sadismo, dall'ossesione di Kokoska. Forse egli tende a definirsi in idilli, per questo si può fare anche il nome di Van Gogh. Poche volte ci è capitato di trovarci di fronte un'opera così ambigua. Levi ha raccolto il risultato di tre anni di lavoro e riesame critico di tutta la pittura moderna. Egli annuncia difatti un libro sull'impressionismo e sarà uno studio vitale di qual movimento che ha aperto senza dubbio l'epoca più disperata, più contradditoria, più drammatica nella storia della pittura. Perchè per un artista come Levi il problema dell'arte si pone come conquista di stile, e importa il giudizio dell'artista, la storia della sua cultura, le sue reazioni, la sua tradizione, insomma un'autentica biografia. Levi non poteva stabile simpatie spirituali con Carrà o Casorati e nemmeno con Picasso e i primitivi. Masaccio o Paolo Uccello sono dei mondi murati e il «colore cubista» è già stato impegnato a edificare una retorica solenne. Tracce di questa polemica inevitabilmente saranno rimaste nella pittura di levi e sono la parte spuria del suo europeismo. Ma quanti sono gli artisti che come lui si salvano da un linguaggio anonimo o da una pittura d'imitazione? in talune opere (e Carrà ha indicato le nature morte, il ritratto del fratello e qualche paesaggio lucano) egli è arrivato alla conquista piena di questa «espressione la più diretta». Nelle altre tre sono ancora manifestate certe convulsioni  epidemiche, la pennellata spavalda, e contoria che rileva le forme per linee di livello, come direbbero i tipografi e certe compiacenze sgraziate. Gli amici di Carlo Levi giocano spesso a trovare in alcuni arabeschi delle forme casuali, un occhio o una testa di leone, quel che Leonardo vedeva nelle macchie dei muri e che i bambini scoprono nel profilo delle montagne, la belle dormiente. E' un aneddoto e vale a spiegare quell'ambiguità, quella polivalenza. Del resto a dei risultati di ironia il pittore è pervenuto nei suoi monotipi nei quali più acido è il succo della sua intelligenza. Levi ha voluto conquistarsi un'invidiabile libertà, se ne è addosato tutti i rischi, disposto a pagar di persona questa superbia. Se noi chiediamo una forma meno fastosa, un'articolazione dai vincoli più semplici, delle immagini più serrate, lo facciamo in difesa della nostra intimità e per quella cieca fiduxia che ci accosta alle espressioni sincere.

 

 

22 Dicembre 2020

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