Mostra di Capogrossi
di Leonardo Sinisgalli
in Tempo
n.17, 27 aprile 1966
Riportata alle sue origini, in una rassegna alla Galleria del Segno, l'intera opera del pittore
Roma, aprile
Capogrossi ha fatto un gran regalo ai suoi amici e ai suoi ammiratori: ha tirato fuori, dopo quasi vent'anni, un disegno (due figure abbracciate, una specie di confianza, la celebre suite goyesca) che contiene il germe del suo linguaggio, il gene, come si dice meglio oggi, il seme a forma di gancio, di uncino, la cellula delle sue catene. Solo un occhio superficiale può accusare di monotonia la pagina di Capogrossi in formato francobollo. Sembra la collezione dei francobolli di Saturno, di un pianeta civilissimo. In piccolo - potendo così raccogliere tutta la superficie sotto lo sguardo - i quadri di Capogrossi, i suoi assembramenti, le sue molecole, le sue lastre sono differentissime l'una dall'altra, inconfondibili, com'è diversissima la formula di un odore dalla formula di un esplosivo.
In questa bella mostra di gouaches alla Galleria Il Segno, in Capolecase, così istruttiva, così ricca (una vera e proprio compionatura di alcune possibilità compositive di queste caratteri, che si possono scrivere ma non si possono leggere, come fece Bodoni col suo monumentale catalogo) l'opera di Capogrossi, riportata per così dire alle origini, ai sintagmi originali, si presenta più esplicita nelle sue funzioni. Nessuno mai, neppure Klee, aveva avuto ambizioni così follli, così distruttive nei riguardi del mondo visibile. Neppure i geometri, naturalmente, che invitarono figure e forme sovrapponibili al vero, che del vero dovevano trovare la misura. Capogrossi non cerca figure e non cerca neppure simboli. I geroglifici, gl'ideogrammi e gli stessi alfabeti, anche i più astratti, anche il nostro alfabeto occidentale, contengono, sia pure nascosta, un'immagine del mondo, delle cose, un profilo o un'indicazione.
Ma la scrittura di Capogrossi rassomiglia più a un'algebra, a una chimica, che a una lingua volgare. Non serve a comunicare, serve a esprimere, a riconoscersi. Uno può chiedersi, allora cosa fa Capogrossi: scrive poemi o compone tavole logaritmiche, sono discorsi o sono formule, sono racconti o teoremi?
Personalmente sono portato a credere che Capogrossi esegue, a modo suo s'intende, dei calcoli, delle operazioni, come hanno fatto Copernico e Galilei, come fecero i babilonesi e gli arabi. come fanno le centrali di comando dei missili. Solo che Capogrossi non può iludersi mai di affidare le sue operazioni a macchine e calcolatori elettronici. Nè la IBM, nè la Remington, nè la Olivetti, nessuna industria può venirgli in aiuto. I suoi conti il Conte Capogrossi deve farseli da sè. Non è possibile che egli deleghi un'altro, individuo o strumento, ad agire per lui. Questi conti nessuno li deve conoscere. Si, qualche discepolo può carpire qualche segreto, qualche astuzia può anche averla appresa l'incantevole sua figlia Olga, wuand'era ancora acerba e non frequentava le aule dell'Istituto di Fisica. Ma discepoli e nonfe servono a Capogrossi nè più nè meno di come serviva a Cartesio la sua bambola, Francine. Più che altro a fargli compagnia.
Si va da Capogrossi, nel suo vecchio studio, al vicolo San Nicolò da Tolentino, come un tempo si andava a trovare Copernico o Galilei nei loro laboratori. Tu parli, loro ti risponderono gentilmente, ma non smettono mai di pensare ai loro calcoli. Questi calcoli Capogrossi continua a farli sempre, anche quando sta nella vasca da bagno, o quando va a Tivoli alle Acque Albule, o va ai bagni turchi, o a Sabaudia, o ai fanghi.
Capogrossi ama trascorrere la maggior parte del suo tempo in acqua. Allo studio ci va quando le operazioni sono già limpide e chiare nella sua mente. E allora gli basta poco per trascriverle sulla carta o sulla tela. Ecco perchè le visite non lo indispongono. Può venire a qualcuno dei suoi amici la tentazione di chiedergli qualcosa del suo lavoro. Capogrossi ha una risposta pronta per tutti, sempre quella, la risposta che diede Galilei al Granduca di Toscana: «provo e riprovo».
Quando Corrado Cagli vide per primo questi reticoli, queste catene, queste macromolecole, queste lapidi, unaventina di anni fa ( e i primi documenti si trovano aspoesti al Segno: ecco perchè la mostra è un avvenimento capitale), sorpreso, incantato, fuori di sè, si buttò con le braccia al collo dell'amico e pianse a dirotto sulla sua spalla. Cagli racconta che Capogrossi tagliò la tela in due parti, come fece col suo mantello San Martino, e ne offrì a lui la metà, pronunciando una frase sibillina: «le idee ci uniscono e ci separano». Non è una rivelazione dire che il lavoro di capogrossi è condotto sulle idee. E' una rivelazione il fatto che Capogrossi veda le idee come dei corpi, allo stesso modo di Giambattista Vico che vedeva nelle parole degli spezzoni di materia, sono cose e simboli, sono numeri e figure. Provatevi a spezzare, anche mentalmente un quadro di Capogrossi in 2, in 4, in 16 parti. Rimane sempre un quadro di Capogrossi, non un brandello, rimane intatta la sostanza - la cosa che sta al disotto - la presenza di Capogrossi.
A Tokio, nel paese dei pittori-poeti, dove le poesie si dipingono e i quadri si scrivono, Capogrossi è stato onorato come Mestro. Pare che qualche frammento delle sue scritture. capogrossi sorride a queste facezie. Ma non sorride quando gli racconto che Leibniz nell'Ars Combinatoria sostiene che tutto quello che si scrive si può leggere. Basta spesso girare il foglio, guardare in trasparenza per trasformare un enigma in un indovinello. Tanti messaggi che sembrano illegibili si sono rivelati ingenui. Lo sanno i bambini e i carcerati, gl'innamorati e le spie. L'affare è ancora più semplice: bisogna afferrare il pensiero non la lettera. Ma siamo già tanti a credere che le più belle parole, i più bei segni sono quelli che non dicono niente.
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