“Vidi le Muse” di Sinisgalli
di Rubino Rubini
in Lo Stile
n. 37, gennaio 1944
Esiste soluzione di continuità tra la poesia antecedente all’ermetismo e l’ermetismo? Qualche ricordo, alla buona: della poesia di D’Annunzio furono gloriosamente salvi lo studio accanito della forma, l’esemplare e costante premura d’osservazione. I crepuscolari ne subirono, a loro fisiche spese, l’impetuosità del contenuto. Gozzano lasciava i libri di Nietzsche per aiutare le disperate cetonie capovolte: doveva egli aver ben letto e sofferto Nietzsche se sapeva tradirlo così opportunamente (gli elementi in contrasto su un piano di convinzioni sono sempre uno all’altro complementari: Gozzano aveva nel sangue il “metodo” poetico del Poema paradisiaco e delle Elegie romane…) A fianco, i “vociani”, tanto distanti tra loro da formare un tutto di incertezze positive: crepuscolare Palazzeschi, pieno di tutto e ribelle alle sue condanne Papini, impressionista Soffici, ecc. Pascoli era nell’orecchio di tutti. Il suo tono, meno inquinato dalle barderie del costume, lasciava pure una traccia. Da Pascoli a Boine è breve il cammino. Ci vedo in mezzo Mario Novaro, un altro responsabile che è impossibile dimenticare, che cantava: È l’alba – incantata – apparizione del mondo! – oh che a Dio nei cieli, – freccia d’oro, – io mandi un saluto… Sfrondata la sua poesia da un intimo bagaglio di impressioni goethiane e naturalistiche, dagli echi pascoliani e talvolta carducciani, egli ha un posto ben evidente nel susseguirsi delle nuove scoperte poetiche, Boine gli si accosta, con un caratteristico frasario (un rosario) dolorante, un’incuria del verso, una particolare cura del nascosto ritmo: l’impressionismo italiano ha qui una voce ben distesa, lo conferma il frammentismo di Boine, quello di Sbarbaro. L’endecasillabo con i liguri, i toscani, con i futuristi, s’era già rotto: le estreme illazioni ne furono tratte da Ungaretti.
Comincia qui la particolar avventura degli “ermetici”. È assai interessante seguirne il respiro. (Ne estraggo subito Montale. Entrato nella storia letteraria con una incrollabile fede musicale – rotta e sussultoria, ma sempre intonata – il ligure è l’unico dei contemporanei che abbia soverchiato la sua esperienza sulle lezioni degli antecessori. L’occasione poetica, a tratti simile all’ispirazione crepuscolare, si personalizza nei risultati finali: vedi il pianto del bambino a cui fugge il pallone tra le case, la farfalla entrata nella stanza. Certe sue prove dannunziane – anche qui il contrasto è evidentissimo: staticità per conclusione ragionata di fronte a dinamicità per partito preso, sospirata divina indifferenza di fronte a perpetuo bollore – non durano mai più d’un verso, si perdono nell’inondante sua aria. Montale ha usato la sua tecnica per ricchezza spontanea e ne ha regalato un po’ a tutti. Del resto, oggi, in tanti poeti, laureati e novizi, il calcar le impronte di Montale mi par più improntitudine che obbedienza a giusti dettami. Ungaretti dunque, partito da certe sue esclamazioni a mo’ di poesia, attrasse le voglie ricostruttive dell’endecasillabo così provato – o della musicalità in tono classico: notevole quindi ogni sua dichiarazione d’attaccamento al leopardi. Toltagli però quella ben nota lucidità francese, il suo lavoro di riallacciamento invece di raggiungere al primo salto la sponda leopardiana, rivelò a fior d’acqua lo scoglio di quel primo impressionismo che nulla aveva di rivoluzionario, almeno nei programmi. Si pensi che gli ultimi appunti di Boine, pubblicati postumi sulla “Riviera Ligure”, erano stati affiancati dal destino impaginatore alle prime liriche quasi monostrofiche di Ungaretti… Il ritorno alla storia dell’uomo, alla felice (“allegra”) scoperta delle proprie inquietudini, non ci pare ormai extra ordinario: pure, Ungaretti uomo di pena, il cui sentimento appena bastava per un bozzetto lirico (il poco bene che mi nasce – così piano mi nasce… da cui non si può trarre gran dissetamento, se non l’esame del “come” gli nasce), attento solo alla sua schiavitù di parole, avaro persino con la propria espressione, formò realmente il clima di una nuova poetica i cui termini fissi erano sì, l’illuminazione favolosa, il mito, la divinazione metafisica, ma i cui risultati però imponevano una secchezza di umanità a stento sufficiente al poeta per scoprirsi in epigrammatiche conclusioni là dove un altro poeta più libero, più abituato alla verità, più confidente sarebbe corso via senza scandali né allarmi. Da queste spinte non nacque mai quell’ermetismo maudit che sarebbe stato facile immaginare pensando ai casi di Rimbaud, ma se ne supplì un altro, piuttosto dolente agli inizi e attratto da un lene senso diaristico dell’impegno creativo del poeta, vicino a piccoli spunti iniziali, a riferimenti naturali, a private avventure; non mai giudizio o entusiasmo e neppure serenità o idillio (charme) lo contenevano, ma uno sconsolato senso di solitudine, di labilità, di dubbio sistematico: la formula dell’analogia, l’elisione del “come”, la trasposizione dei valori e le proposizioni, il contatto insomma tra ciò che più è distante servivano alla sua poetica: la lontananza tra le creature, l’impossibilità di movimento (ed io son gerbido; oppure ed il cuore diventa, o forse è già, la pietra; come gli ossi di seppia svanire poco a poco; è folle e usata l’anima) ne accentuavano l’eccentricità.
Viene posta oggi alla luce delle librerie la poesia di Leonardo Sinisgalli, presentata da una chiara introduzione di Gianfranco Contini, meravigliosamente acuto come non mai, poesia nata in un decennio poco più, con inizi contemporanei a quelle del Sentimento del tempo, di Oboe sommerso. Porremo per questo Sinisgalli come una risultante dell’addizione Ungaretti più Quasimodo più il tono surrealista, che allora aveva profumo nuovo? Le differenze sono innanzi tutto metriche, in parlar povero; che qui l’endecasillabo è una rara scoperta, né la parola irradia musica… Più dimesso e di facile accontentatura. Sinisgalli iniziò il suo cammino poetico con un attaccamento alla natura solito ormai alla poesia dei contemporanei, ove pensassimo ad un esilio giovanile, una nostalgia di terra e tardo commemorare una rozza felicità di sangue in pena, sensuale traccia d’una giovinezza perduta di cui si ricerca il filo istintivo: “tra noi è il tanfo della terra – e il triste sangue fa ressa col sereno”, “il lamento del sangue”, “l’ombra del mio triste sangue”, “la sera sulle selci calda è come sangue”, “l’ombra del sangue fa oscura siepe alla nostra estate sulla terra”. Il sangue è testimonio avvertitore di percezioni, motore poi di sensazioni, misura preferita in servizio di sineddoche. Di questa fatta, dunque, i segni del primo Sinisgalli: la concreta persona assorbiva i miracoli occasionali della poesia, risolvendoli e dandosene ragione, mischiando ai valori descrittivi la coscienza di sé: “la tua voce ci cresce nelle ossa”, “l’alba preme sul petto”, “dai nostri corpi nasce il giorno”, “la rondine ti garriva tra le vesti”, “tu muovevi la polvere dietro le spalle”, “alle spalle muovevi il prato”, “la sera incendia le fronti, infuria i capelli”, “fa radice la sera e il suo acre sentore mi risale sul dorso”, in cui i capelli, le ossa, le spalle, il dorso erano elementi d’un simbolo oggettivo pari al destino del tempo ridotto in momenti entusiasmanti, sera, alba, giorno che nasce; per giungere ad un culmine: “la luce ha la sua statura – e regge il gesto”, “il giorno prende in terra – misura del tuo passo” in cui è più evidente una parentela tra la storia dell’uomo e la storia del tempo. Ricordiamo il Sentimento del tempo di Ungaretti: la lontananza aperta alla misura… Anche in Sinisgalli dunque un sentimento (un sentore) del tempo misurò il movimento dell’uomo: in ogni sua poesia il tempo è stato colto nei suoi momenti di transizione, alba, tramonto, corsa notturna della luna, quando cioè la luce, mutando, trasforma (rinnova) uomini e natura. In Ungaretti era (con ben altra nobiltà di tono) l’invito ad una conclusione morale, e vi si sentiva la faticosa responsabilità: “t’affretta, o tempo, a pormi sulle labbra – le tue labbra ultime”. Ciò in Sinisgalli resta soltanto come scoperta della momentaneità, un rifiuto ad esser deciso con i propri sentimenti: “sgocciola il giorno – dalle cime dei tetti”, “chiamavi l’ultima luce – all’inganno della fonte”, “l’aurora è appena uscita dai forni”… Colore: che par qui la maggior preoccupazione di Sinisgalli. A tratti nasce poi una rottura, un colpo violento, ed è il primo passo verso una maggior maturazione: “infanzia gridata dagli uccelli”, “la luce era gridata a perdifiato”, “i fanciulli… gridano a squarciagola”.
Dalle prime poesie, stese su una discorsività assai semplice; con punteggiatura comunissima di punti e rare virgole; con aggettivazione sostantivata (“ansia di foglie”, “insidia delle cisterne”, “insidia delle serpi”); con metrica assolutamente libera, in cui l’incontro dell’endecasillabo e dei suoi derivati è casuale, quasi gratuito, Sinisgalli passò ad un gioco più accessibile di stesure, obbedendo a certi richiami autobiografici in cui veniva dolce la rima al mezzo, capitavan buone altre facili rime a fondo verso, nasceva cordialmente una cadenza di canzone: “Fresca è la ghiaia: sui passi – tuoi la ruota non la spezza. – Perduta alle spalle la fanciullezza – si fa più lontana, ombra – cieca nella polvere” (notiamo qui una coincidenza: “In un pulviscolo, indietro – cavo mi volgo! – Mi abbandona irraggiunto”: è di Laurano). Ecco le illuminazioni sulla propria sorte di uomo: “Ora e sempre più viva – sarà la smania di far notte in me solo – e cercar scampo e riposo – nella mia storia più remota”, “la mia vita è questo esilio – che chiama le dolci erbe”, “mi ritorna la triste – vocazione ad esistere, – la brama di cercarmi in ogni luogo”. (Simile ricerca potremmo trovare, negli stessi anni in Quasimodo).
Da certe aperture poetiche (“Il cielo è una roccia aperta e l’occhio – un’ape chiara”) che sarebbero bastate a dargli un tono esclusivo, Sinisgalli trasse ancora l’impressione delle sue immagini più ostinate e precise: “Sera stremata in rive morte”, “l’alba indugia a sollevarsi – come una vela fresca sul mio corpo” e, più bella ancora: “siamo in fondo alla valle – come in fondo ad un lago”. Pure, la facilità dell’ispirazione rendeva molto larga e quasi ambigua l’accettazione dei simboli poetici: “Naturalmente ogni cosa, anche un sasso – una rosa potrà bastare al mio cuore”. Sinisgalli pagò quindi il suo tributo alle occasioni montaliane annotando con l’ordine e i propri ricordi: “la cagna – bianca sulla cenere dei forni, le bugie – sotto le ascelle, gli anni belli sulla nuca, – il lezzo delle fave calpestate dai cavalli”; a tutto Montale: “Un baleno verde che s’apre a uno schiocco di frusta”, “il tuo piede legato – alla staffa del cavallo fulminato”, “bello e fiero tu eri… e dritto come le penne – dello sparviero fucilato” (simili a “così suona talvolta – nel silenzio – della campagna un colpo di fucile” all’”infanzia dilaniata dagli spari”: la chiusa della poesia nello schiocco, nello sparo, nel colpo inaspettato e violento è di effetto sicuro!), “mia madre su quest’aia – ha battuto la mazza” (“al mio paese a quest’ora – si sentono fischiare le lepri”). Dirò che il gusto di invocare un personaggio, com’è di Montale, è il lato che più s’offre a Sinisgalli per tentare una maggiore distensione, quasi di trama: legga il lettore “Strepita la campana al capolinea” (occorrerà aggiungere che la poesia di Sinisgalli ha da essere detta a bassa voce, lentamente? Già è superato il minimum ungarettiano, poesia da legger senza voce, secondo gli esperimenti di De Robertis): “eccoti sola, e la piazza ti sperde – al bivio, e tu non sai più vivere, non sai dimenticare”, “stravolta… tu cammini, io ti chiamo”.
Abolito insomma il cerchio privato, la poesia segue una sua legge di libertà che le sproporzioni surreali non penseranno ad ostacolare. Sinisgalli non perderà nulla di sé, insomma, rivedendo con maggior vigore quelle muse che tanto cautamente lo hanno sino ad oggi meravigliato.
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