Una lucerna, una lanterna, una oliera
I, n.2 (marzo 1953)
ALLA GRANDE TESI DELL'«INDUSTRIAL DESIGN» QUESTI TRE OGGETTI TAGLIATI DALLO STAGNINO DI UN VECCHIO BORGO ITALIOTA PORTANO UN MODESTO MA PRECISO CONTRIBUTO STORICO
Si dice ormai da tutti che la conquista del benessere va a scapito della felicità, si riconosce che a vincere la noia, tuttavia, non resta all'uomo che industriarsi. Darsi intorno, inventare, trafficare perché? Per rendere più sopportabile, e in fin dei conti più rapido il tempo che si vive. Noi tutti non facciamo che inghiottire i nostri giorni, senza più masticare, senza ruminare, e probabilmente senza più pensare. È logico che la quantità spaventosa di energia che si consuma sarebbe tutta sprecata se non servisse almeno a procurare un giocattolo all'ultimo bambino lucano o coreano, che dico un giocattolo, se non servisse a comprare un sillabario e l'inchiostro e i quaderni agli ultimi bambini esquimesi o zulù, se non servisse ecc. Può venire in mente anche a qualcuno che le macchine siano strumenti del potere dei ricchi, i quali rinunciando allo spadino dopo la Rivoluzione francese e rinunciando anche ai latifondi perché tutto sommato rendono troppo poco si sono accaparrati i Porti e le Centrali, i Pozzi e le Fabbriche, le Pile e le Miniere, i Boschi e i Forni, i Neutroni e i Mesoni. La mia idea è che le macchine sono di chi sta loro insieme, così come i campi sono di chi li coltiva e li conosce e li calpesta e ci cammina, come la donna è di chi ci vive accanto. Ho l'impressione che il Principe, o il Signore o il Padrone siano figure svuotate di significato, siano ormai soltanto maschere o pupazzi, soltanto vecchi simboli scaduti.
Il sentimento della proprietà ha perduto il vigore che valse all'alba dei popoli a creare la prima società di patriarchi, ha perduto il valore di mito che gli veniva dalla storia sanguinaria di Caino. Spesso mi viene da pensare che come le pecore non possono vivere che in branco, e una pecora perduta è una pecora morta, anche le macchine si completano l'una con l'altra, stando in un recinto, raccogliendosi in un ovile. Devo dire che trovo infinitamente più confortante il fatto che mille, duemila, diecimila operai lavorino insieme in un cantiere, in un'officina, sopra un'area poco più piccola o più grande di un villaggio, trovo più confortante, se pure meno poetica, la "giornata collettiva" dell'operaio che non la solitudine del pastore o del ciabattino.
Ma il mio calderaio, il mio stagnino, Giacinto Fanuele della stirpe dei calderai e degli stagnini di Montemurro, era sempre di buon umore. Umore vivo, umore zingaresco, lepidezza e paturnia, specie nei giorni in cui con la sua piccola carovana di arnesi Giacinto e suo figlio si muovevano dalla loro bottega per andare a lavorare a domicilio. Anche le sarte, anche le lavandaie, anche gli scarpari e i mulattieri erano più allegri quando venivano a lavorare a casa nostra. Ed eravamo più allegri noi ragazzi se fuori nevicava ed avevamo ospite in casa nostra lo stagnino, perché l'ospite e il maltempo, dice un nostro proverbio, portano festa nelle famiglie. Vedete fino a che punto la gente del Sud ha paura della solitudine, fino a che punto è radicato il sentimento della socievolezza, l'amore del prossimo in contrasto al cieco, ascoso potere della natura matrigna. Leopardi per una vita intera perseguì questa verità, che poi divenne in lui certezza cosmica: la comunione, la compagnia; Porfirio e Plotino che correggono lo sgomento dell'islandese (che correggono perfino la desolazione del vecchio pescatore cubano Santiago rientrato in porto soltanto con la lisca spettacolosa del pescepada), la definizione di un bene che può soccorrerci soltanto nell'amicizia, nella partecipazione, nell'amore del nostro prossimo. La civiltà di Leopardi relega l'ipocondria, la mutria, l'egoismo, relega gli orsi nelle loro tane.
Noi facevamo tanti onori e tanta festa a Giacinto Fanuele e a suo figlio che venivano in casa nostra per qualche giorno, non a servirci, ma ad aiutarci. E così le pignate di rame, o i caccavotti, o le brocche, o le padelle, venivano guardati contro luce per scoprire un buco, un'incrinatura.
Poi Giacinto con la forbice, e il mantice, e l'acido, e lo stagno, e la latta, si metteva a fabbricare le sue meravigliose forme, oliere, lucerne, imbuti. Forse è per averle guardate tanto a lungo quando la sfera del visibile è così ristretta, forse è per reagire alla civiltà che mi vuole suo figlio e che in ogni istante ne rivendica la legittimità, forse è per restituire, tutte le volte che mi riesce possibile, all'uomo i suoi meriti e le sue responsabilità, che io in questa fredda e limpida sera di gennaio, mi trattengo a rievocare il calore e l'ardore di una lucerna e la fisionomia snella, tagliente dell'oliera lucana. Alla grande tesi che s'intitola "Industrial design" voglio portare questo piccolo ma preciso contributo personale, l'opera accurata, paziente, amorosa dello stagnino di un vecchio borgo italiota. È chiaro che queste forme sono da prendere come espressioni dialettali, così colme di bellezza, una bellezza perenne e ormai immutabile. Concepite con felicità, la lima dei secoli e delle generazioni le ha perfezionate con accorgimenti millesimali. Noi forse esageriamo l'importanza di questi simulacri, di questi gusci inventati per contenere cibo e luce, un liquido lento e prezioso, un simbolo di Afrodite e di Cibele.
Si capisce come questi sacri oggetti venivano a incorporarsi nella vita familiare dei miei avi e passavano, carichi di storia e di memoria, a confortarli con la loro presenza nelle tombe.
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