Viaggio in Lucania
di Leonardo Sinisgalli
in Aretusa
A.II, n.7, mar 1945
I.
Lasciai Roma verso la merà di luglio perchè speravo di arrivare al paese il giorno in cui cadeva la festa di mia madre. Avevo saputo per cartolina, una cartolina di venti parole che mi giungeva dopo nove mesi di silenzio, che mia madre era morta. E m'era venuta la frenesia di arrivare a casa per la sua festa. Ma il viaggio fu molto più lungo; da Roma a caserta, da Caserta a Napoli, da Napoli a Salerno, da Salerno a Sala Consilina, quattro giorni furono necessari perchè io mi portassi dentro il cerchio d'orizzonte che avevo esplorato così minuziosamente dalla mia finestra di ragazzo. A Sala Consilina mia madre voleva mandarmi per cominciare i miei studi quand'ero ancora un bambino. E allora per consolarmi mi portava sulla loggia e con un binocolo mi faceva guardare lontano dov’erano i balconi del collegio. «Metterò il binocolo nella tua valigia, mi diceva, così potrai guardarmi durante le ore di ricreazione. Io sarò qui a sventolare il fazzoletto». Ma fui mandato molto più lontano e per tanti anni ho cercato sempre all’orizzonte una piccola macchia bianca. La pattuglia di studenti che aveva fatto con noi il viaggio da Salerno a Sala Consilina si adattò a dormire all’aperto; noi ci allungammo sui sacchi stesi sopra le tavole che servono alle fornaie a portare il pane. In uno stretto corridoio, uno dopo l’altro, in fila, riposammo come in un lazzaretto. «Non ci sono più paesi, dissi, la guerra è arrivata anche da queste parti.» Il giorno dopo, a Montesano sulla Marcellana, dove i miei nonni un secolo prima scaricavano, dopo aver attraversato le montagne, i rotoli di suola prodotti nelle nostre concerie (molti patrioti lucani per sfuggire alla polizia borbonica furono nascosti dai mulattieri dentro i rotoli di suola) sui traini dei commercianti salernitani che venivano a rifornirsi quaggiù, alle falde del Serino, trovammo le catapecchie dello scalo ferroviario zeppe di cimici, di bambini, di bauli, e le donne sugli zoccoli, scarmigliate, che rattoppavano camicie e si passavano da una mano all’altra l’uovo di legno per turare i buchi delle calze. Una folla di uomini seminudi, coi piedi nella polvere, beveva sotto le foglie vino e gassose. Domandai la provenienza di quelle tribù in cui non riconoscevo nessuno dei connotati così intrinseci ai miei contadini, ai miei pastori, ai miei garzoni. «Sono zingari?» chiesi. Mi risposero: «Sono contrabbandieri con le loro famiglie». Me ne convinsi più tardi quando entrammo nella stanzetta che l’oste pietosamente fece mettere a nostra disposizione. «Avrete le valigie al sicuro e potrete trascorrere la notte in attesa della corriera». La stanza era gremita di borracce militari, e ce n’erano di tutte le nazionalità, italiane, tedesche, inglesi, americane. «Saranno state rubate ai soldati di passaggio» pensai. Ma l’oste mi spiegò che le aveva avute in cambio di un fiasco di vino o una branda ceduta per una notte ai militari di passaggio. «Sono adattissime al trasporto dell’olio» disse. «Non suscitano sospetti presso le guardie dei posti di blocco, e poi hanno una tenuta perfettissima. L’olio, più dell’acqua, si lascia scoprire. È insinuante e bisogna mozzargli il fiato.» «Come fate, domandai ingenuamente, a portar via tant’olio dentro le borracce? È un po’ come svuotare l’oceano con un catino». Egli mi spiegò che altrettante borracce, un centinaio, erano in servizio a Tramutola, altrettante a Viggiano, a Marsico, a Laurenzana, a Grumento. «Il flusso non deve soffrire intermittenze. Basta un foro piccolissimo, e la vena più sottile del mondo, a svuotare tutto l’olio dell’Oceano, se l’Oceano fosse pieno d’olio». Il mio oste la sapeva lunga: conosceva la natura dell’olio più di quanto Sant’Agostino conoscesse la natura dell’acqua. «Allora ci farete servire delle buone bruschette» azzardò G. dopo quel discorso teologico. Ma non fu così. Le bruschette che ci furono portate sapevano di rancido, e noi dovemmo ringraziare l’oste di tanta delicatezza. Vicino al nostro tavolo i contrabbandieri stavano a mensa, e al posto d’onore siedeva, tronfio, pavonazzo, il maresciallo. Il vino fiottava allegro nei bicchieri, le insalate sembravano grasse di rugiada, le ricotte tremavano tenere sui piatti. Appartati in un angolo della sala, noi tre, io, G. e Filippo, rosicavamo la dura bruschetta. C’eravamo seduti in modo che il nostro bambino volgesse le spalle al banchetto. Ma Filippo, che pareva non si fosse accorto di nulla, a un certo momento buttò via il pezzo di pane puzzolente e gridò: «Mammina, voglio anch’io una fetta di lardo!».
II.
La corriera di M* giunse dopo una notte che noi due avevamo trascorsa al balcone, seduti sui nostri bagagli. C’eravamo, di fatti, appena addormentati quando uno stuolo di cimici cominciò a muoversi sugli strapiombi dei muri, ad arrampicarsi ai ferri del letto, per annidarsi tra le pieghe delle nostre carni fiacche. Ci rivestimmo; cacciammo all’aperto le valigie; solo il bambino restò nudo in mezzo al letto, con una candela accesa al suo fianco così vicina che quasi lo bruciava. Dentro quella stretta isola di luce, e come sospeso, il bambino poté riposare tutta la notte. Noi aspettammo l’alba appoggiati alla fresca ringhiera, dove ci sorprese lo sbuffo della locomotiva brinata, che correva verso Brindisi. In corriera salimmo più tardi fino a mille metri, percorremmo dentro un bosco di castagni più di dieci chilometri di rotabile fino a scoprire tra i fusti le acque del fiume. L’Agri costeggiava di spume i territori del mio mandamento, separava con la nettezza di una lama le querce dagli ulivi, i fagioli dalle viti, Petruccelli della Gattina dal filosofo Capocasale. Il Ponte delle Congetture era rotto, ed era stata con molta arte allestita una passerella: così le ruote di gomma della vecchia Fiat slittarono dolcemente sulle travi bagnate e noi passeggeri ci sporgemmo quasi a toccare l’acqua con le mani. Ma fu un solo attimo di panico e di allegria insieme. Perché dopo qualche minuto (io stavo ancora col braccio fuori dal finestrino a indicare a G. la cappella del cimitero dove giaceva quel piccolo mucchio di ossa) frusciarono tra i finestrini della vettura i cipressi, le foglie di cotogno dei Campi Elisi. Eravamo già in piazza tra i cani e gli amici; stavano appese al balcone le mutande di Donna Felicita; noi dovemmo farci strada tra le lenzuola che parevano rosse perché era il tramonto e mio padre, piccolo, vestito di nero, in quella calda sera di luglio mi aspettava come sempre. Spiegai dopo qualche giorno, quando G. e Filippo si furono sistemati in una stanza dentro la casa di zio Giacinto e avevano fatto la conoscenza di tutto il parentado (G. non riusciva ancora a distinguere le mie sorelle, tanto avevano gli occhi somiglianti sotto lo scialle bruno che le copriva, non ancora aveva nelle orecchie il passo fermo, pesante, di mio padre che camminava sui tacchi, e Filippo scambiava mio cognato con mio zio, i miei nipoti coi miei cugini), spiegai che, essendo a lutto la famiglia, bisognava rimandare di qualche mese le grandi gite in montagna, le passeggiate alla Chiesa del Carmine, e aspettare almeno che si compisse il turno delle visite di cordoglio. Passammo dentro le stanze semibuie molti giorni, e in quella circostanza dolorosa io seppi, a viva voce dalle donne e dagli uomini ch’erano stati compagni d’infanzia di mia madre, tanti fatti particolari del suo carattere di bambina, le sue abitudini di giovinetta, le sue virtù di sposa. Ricostruii la cronaca di molti anni da alcune semplici frasi ch'erano state pronunziate durante quelle visite lunghissime, che obbligano gli ospiti a starsene per molte ore taciturni. Don Luigi Marra aveva fatto tagliare il bosco di Casal Aspro che difendeva il paese dal vento settentrionale; Calabrese aveva ucciso la moglie in sonno con un chiodo nelle tempie; Mastro Titta aveva perduto una zampa tra le ruote della trebbiatrice («Ogni anno la macchina si càmera» dicevano le beghine di M*, e significa press’a poco questo: «Ogni anno la macchina ha il suo giovedì grasso», vale a dire «ogni anno, almeno una volta, la macchina deve masticare carne umana». Sembrano, a chi sa leggere, i titoli di un romanzo americano, e si potrebbe parlare a lungo di queste metafore meticce, nate in slang dall’innesto sulla lingua quacquera dell’imaginoso dialetto meridionale); il barone Mileo mandava in giro la sua serva a comprare piccioni perché conservava sempre l’abitudine di mangiare ogni giorno un colombo; il maestro Imperatrice che non aveva mai speso un soldo in cinquant’anni s’era sposato ed era morto a Firenze in viaggio di nozze lasciando la piccola moglie vedova e vergine erede di tutta la sua fortuna; ecc. ecc. Io fui molto meravigliato di non trovare in casa mio fratello. Ricordavo una lettera di mio padre nella quale mi diceva: «il ragazzo ha già cominciato a farsi la barba...». Ero dunque curioso di rivedere l’altro figlio di mia madre, come se sulla sua faccia, io avessi potuto scoprire qualcosa che m’era rimasta segreta di lei, come se io fossi stato di lei la metà in ombra. Molte storie di famiglia si leggono meglio sul volto e nei gesti dei nostri fratelli, delle nostre sorelle, sulle grinze delle zie, sul dorso delle mani dei nostri nonni. Era andato a Potenza a dare gli esami, col suo Virgilio, col suo Senofonte, con le Operette Morali sdrucite dentro le bisacce. S’era portato una pagnotta di pane, una gamba di salsiccia, un cartoccio di sale, e io pensavo a quel sale che forse s’era sparso tra le pagine dei suoi quadernetti, zeppi di una scrittura gracile, con quelle labiali un poco indecise. Aveva dovuto, in mancanza di mezzi di trasporto, raggiungere il capoluogo sul dorso di un mulo: due o tre giorni di viaggio che io gl’invidiavo come se il ragazzo fosse partito per salutare lassù la sua fidanzata. Mi pareva un’impresa coraggiosa, e non mi rendevo conto che tutte le mie macchinazioni fantastiche intorno a quel viaggio erano ordite da me, quasi senza coscienza, dal mio corpo dunque, per diminuire la differenza d’anni che ci separava. Ma quando ritornò, alto, magro, coi capelli lucidissimi, era ancora un bambino, il bambino taciturno che mia madre aveva voluto guardare poco prima di voltarsi sul letto, e morire, sopra il lato sinistro, dove mai era riuscita a prendere sonno.
III.
Anche a M*, dopo lo sbarco di Battipaglia, c’è stato un piccolo vespro e una crisi municipale. Mio cognato ch’era podestà (un emigrante tornato in paese dal Brasile con un po’ di sterline da spendere per riparare le strade della valle e avviare i lavori di scasso di un progetto di fognature) ha ceduto la sedia a mio padre, vice sindaco e primo assessore del comune. È commovente l’interesse e la competenza che quest’uomo di settant’anni dimostra per i piccoli problemi amministrativi della tribù. Mio padre non è un grand’uomo, forse è un uomo qualunque, ma è riuscito a distribuire ai contadini novemila sigari, trecento metri di panno di lana, e sono sicuro che a quest’ora avrà già trovato la soluzione del difficile problema che tanto lo ha assillato: come dividere cinquanta chili di suola a trecento famiglie? Io so che ha consegnato all’ammasso più di mille e cinquecento quintali di grano, qualche tonnellata di cacio pecorino e migliaia di litri d’olio. So che ha venduto il suo vino a poche lire la bottiglia agli artigiani del paese, opponendo un rifiuto a tutte le offerte degli incettatori salernitani. So che mia sorella ha riempito due barili di sugna, circa settanta chili, per mandarla alla cooperativa. Una sola cosa ha offeso profondamente la coscienza di mio padre: è stata la frase di un ufficiale neozelandese che è venuto a M* a caricare sui camion circa duecento capi maschi di bestiame, pagandoli a trenta amlire il chilo. Mio padre gli faceva osservare che l’allevamento ne avrebbe risentito, che il gregge ha bisogno di maschi generosi, che la monta di una pecora è una faccenda delicata, è un dono, una predilezione. La pecora, egli sosteneva, non è una cagna e neppure una vacca. La pecora si affeziona al suo sposo, al suo re. Se lo perde s’intristisce e il suo grembo diventa sterile. Mio padre aveva parlato con la sapienza dei suoi padri, come avrebbe parlato Salomone. Ma il tenente neozelandese gli rise in faccia, gli disse: «Noi non mangiamo la carne fetente. La carne di femina puzza. La mangerete voi». Mio padre tornò a casa quella sera e non venne a tavola a mangiare con noi. Se ne stette tutto il tempo con la fronte appoggiata alla mano, col omito appoggiato alla pietra del fornello, a guardare il fuoco. Poi disse ch’egli aveva visto nel mondo molte brutte cose. Si ricordò di mia madre e disse: «Vostra madre non avrebbe mai potuto sentire simili cose e forse è morta al momento giusto». Poi borbottò una serie di proverbi sibillini: «Abbiamo cambiato l’occhio per la coda», disse: «Vogliono paglia per cento cavalli» e ancora altri che non ricordo bene, ma c’erano i cani che si buttano a mordere gli stracci, c’era una tigre che aspetta il cacciatore sulla strada per sbranarlo perché ha perduto i suoi tigrotti. Non ricordo, non ricordo bene. So che mio padre quella sera rifiutò di venire a tavola con noi e preferì farsi mangiare il fegato dalla bile. Si ritirò solo nella sua stanza prima dell’ora solita. Noi capimmo che non avrebbe dormito neppure le poche ore del primo sonno. Dal fondo della sua camera buia arrivavano fino a noi i suoi sbadigli rumorosi, appena soffocati dalle lenzuola. Io avrò riferito molto male tutto questo. Mio padre è un uomo che ha fatto tutti i mestieri, è stato dieci anni in America, ha cresciuto sette figli. Ma qualche volta, quando parla, eccitato dall’ira come certi profeti minori, dice cose straordinarie.
IV.
I contrabbandieri napoletani arrivano coi camion la notte a caricare i maiali. Hanno scelto, come luogo di adunata, la Verdesca, che è una conca verde a valle delle case. I porci sono stati già scelti e pagati, duecento lire al chilo con setole, zampe, testa e coda, dal macellaio del paese che ostenta stivali di cuoio grasso, con le suole ornate di lucentissimi e squillanti chiodi. I mandriani hanno i sacchi pieni di biglietti da mille e comprano lenzuola dalle povere famiglie dei benestanti, comprano coperte imbottite che giacevano da tanti anni nelle cassapanche, comprano i corredi e i vestiti dei morti, che un tempo sarebbe parso sacrilego barattare. Alla mezzanotte, quando il Sindaco e tutta la Giunta municipale, quando il Maresciallo e i carabinieri dormono il primo sonno, i porci sono cacciati fuori dalle stalle e camminano timidi dietro le lanterne. Da tutti i vicoli sale un furtivo trapestìo, attutito dagli strati di paglia sparsa sulle selci; qualche volta un acuto grugnito rompe il silenzio della notte, ma è subito soffocato da un’abile benda di stracci annodata come una museruola attorno alle ganasce. Fuori dell’abitato i suini vengono raccolti, bollati a fuoco con un marchio di riconoscimento, divisi in categorie, grassi magri magroni, poi sollevati di peso a uno a uno sopra le vetture. I contadini tornano a letto contenti e gabbati, contano i biglietti, verificano i numeri delle serie, perché ogni settimana l’ufficiale postale fa un lungo elenco di cifre false. Resteranno tutto l’inverno senza un’oncia di strutto, ma chi resiste alla tentazione di portarsi in tasca, sia pure per un giorno solo, quaranta biglietti da mille? Non sono forse riusciti i contrabbandieri napoletani a caricare in una notte un camion di uova? Ma la gleba è stata talmente povera per centinaia d’anni che preferisce alla certezza di un inverno di miseria l’illusione di un paniere pieno di carta moneta. Mio padre non sa che farci. Ha suggerito un censimento minuzioso e severo di tutto il patrimonio zootecnico. «Ma tutte le bestie», dice mio padre rassegnato, «hanno messo le ali, anche gli asini, i muli e i cavalli.» «L’altro ieri è venuto un pastore al municipio a dichiarare che un lupo ogni sera gli porta via una pecora. Un altro se l’è presa con una faina che gli ha divorato il pollaio senza lasciare una piuma. Accusano il nibbio, la donnola, il tasso. Per sfuggire ai controlli delle guardie forestali riescono con astuzia a menare il can per l’aia per tutta una stagione, un cane idrofobo naturalmente». I signori di M* sono in miseria a cominciare dall’Arciprete. Si arricchiscono i coloni. «Faranno l’insalata con quei biglietti verdi!» dicono i baroni scaduti del Circolo Giacinto Albini. Chi non conosce Papazzone in tutta la valle dell’Agri? Fino a ieri veniva a M* per caricare pelli e lana e depositarle allo scalo di Montesano. Basso, tarchiato, col buon ceffo e il cuore grosso dei facchini, Papazzone in trent’anni è riuscito a portare in queste contrade tutte le innovazioni della tecnica dei trasporti. Prima caricava some, poi traini; oggi marcia tra Roma e Moliterno con cinque autotreni. Tutta la provincia parla di questo uomo straordinario che senza andare in America ha costruito in pochi anni una fortuna immensa. Ci dev’essere qualche esagerazione. Gli sciofferri come i cacciatori sono un po’ ballisti; e poi piace al personale della vecchia S.A.B. (Società Autoservizi Basilicata) proclamare che Papazzone è un milionario e Sua Eccellenza il senatore Liuzzi è un povero diavolo. Per un mese e più, senza uscire da casa, arrivando qualche sera in piazza per ritirare la posta con un giorno di anticipo (il postino gira il paese a mattutino), ho dovuto ascoltare il racconto leggendario dei fasti del nababbo di Moliterno. Papazzone ha sposato un figlio e ha invitato per la festa, nel suo palazzo, tutti gli autisti, i meccanici, gl’imballatori dei dintorni. Un pranzo di duecento coperti. Ho raccolto parecchie versioni della cronaca del banchetto. La più verosimile mi è parsa quella di Carluccio, un mio compagno di scuola che conduce la corriera Montesano-M*. Carluccio mi diceva che sono stati cucinati un bue, cento galli e quaranta agnelli. Forse anche Carluccio è un ballista. Durante il pranzo non è stata versata una goccia di vino nei bicchieri, ma soltanto cognac a damigiane. «Papazzone, già da qualche anno» precisa Carluccio «andava raccogliendo il cognac in tutte le botteghe dei paesi.»
V.
Ahimè, solo la vita dei santi è rimasta quella che io mi ricordo! Pure ho visto dei santi nuovi in piedi nelle gabbie. San Sebastiano ha una cappellina sulla roccia che fermò la frana del 1908. Sant’Antonio, il piccolo abate che le nostre mamme invocavano contro le scottature, eccolo in giro anche lui sulle spalle degli ortolani. Il fuoco è la grande epidemia di M*: quanti bambini, quanti vecchi sono stati bruciati vivi al mio paese? Anni fa chiesi a mia madre notizie di Santa Barbara, di Sant’Emidio, patrono dei terremoti. Mi disse che da noi questi santi non hanno mai fatto miracoli. Io devo scrivere un capitolo sui terremoti come l’ho scritto sui fulmini, come l’ho scritto sulle nubi. Basti dire che a M* le età si contano a partire dal 1857, l’anno in cui il paese fu distrutto quasi per intero e che ci costò la perdita del Vescovo, del Principe e dei pochi altri patrizi. Rimase intatta la contrada araba delle Concerie, qualcuno di quegli svevi alti e rossi di cui ci parlavano le nonne da ragazzi, e qualche donna nera, qualche mula. Il nostro calendario ha più contatti con quello di Maometto che col calendario gregoriano. L’anno 1857 segna il principio del nuovo medioevo. Senza dubbio ci sono legami stretti tra il nostro popolo brutale e ombroso e i pellegrini della Mecca. Tuttavia noi siamo i più astuti e più illustri allevatori di porci di tutto il Regno delle Due Sicilie, i più abili manipolatori di carni crude, tagliate a pezzi, mischiate con sale pepe peperone e finocchio, e insaccate negli intestini. Per questo i nostri emigranti hanno fatto fortuna a Chicago e a New York. I mattatori più celebri sono nati qui, i salumieri di Spring Street hanno nomi nostri, nomi di famiglia: Cugno, Larocca, Falotico. Nelle umide mattine d’inverno i bambini sono svegliati in mezzo al letto dal pianto acutissimo dei maiali che cacciano vasi di sangue dalla gola. I reduci si raccolgono in brigata e girano di sera il paese, fermandosi di porta in porta: al suono della fisarmonica e della cornamusa si aggiunge il cupo, grave, monotono lagno del putipù. Attaccano a cantare una filastrocca che coi suoi accenti forti sulla quarta e sulla decima sillaba dei versi ha un ritmo tra marziale e funebre. E qualunque siano le condizioni atmosferiche, la cantilena che pure è ricca di belle immagini («Quando cammini fai colonne d’oro», «Quando ti stai tra i fili del telaio, La tua spola è una merla nella siepe», «Se tu ti metti l’ago nella mano, Ti fai la veste bianca per volare», «Tu hai il camminare della quaglia, Gli occhi pungenti della rondinella», «Tu fai l’odore della melarancia...» ecc.) ha una chiusa liturgica: «Vado cantando e piove a goccia a goccia, Signor padrone dammi la salsiccia». I reduci entrano in casa con le scarpe rumorose. La carne è al fuoco ad arrostire. Quando gli spiedi sono rimasti secchi e non c’è più vino nelle tazze la figlia primogenita accompagna gli ospiti in un’altra casa. Così per tutta la notte, le grandi notti d’inverno. Le cantilene hanno fine. Qualche porta si riapre all’alba e le fantesche scendono caute negli orti coi pitali colmi sotto le vesti.
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