La Lucania di Sinisgalli. Un paesaggio dell'anima
di Luigi Beneduci
"Appennino Lucano", A.1 - n.1, sett 2011
pp. 28-29
Nel Novecento, grazie a Sinisgalli la Lucania entra per la prima volta nel numero dei paesaggi letterari. Come accade per le Cinque Terre di Montale o per il paesaggio luinese di Sereni, la letteratura nazionale conosce “la dolce provincia dell'Agri”, come scenario naturale e come luogo simbolico, dove si ambientano le liriche del poeta di Montemurro, a partire dalle 18 poesie edite nel 1936. Dopo aver trascorso la fanciullezza nel suo paese, il poeta ricorda la partenza per i collegi di Caserta e Benevento come la morte rituale dell'infanzia, con queste parole: “Con le tasche piene di confetti (…) attraversammo il fiume, ci allontanammo dal confine della provincia”, ed aggiunge: “Io dico qualche volta per celia che sono morto a nove anni, dico a voi amici che il ponte sull’Agri crollò un’ora dopo il nostro transito”. Partito dal Sud, Sinisgalli si divide tra Roma e Milano dove svolgerà l'attività di art director e copywriter ai vertici di Pirelli, Olivetti e Finmeccanica. La valle dell'Agri, però, resterà sempre per lui il luogo delle memorie infantili e della vita familiare; il luogo del rifugio e del ritorno; dell'iniziazione alla poesia e dei lutti familiari.
Eppure il corso dell'Agri non è che il centro ideale di una ben più ampia regione, che il poeta definisce nella superba elegia Lucania: “A chi scende per la stretta degli Alburni /(...) la Lucania apre le sue lande, / le sue valli dove i fiumi scorrono lenti / come fiumi di polvere”; una terra che si estende idealmente dal Tirreno allo Ionio, dominata da uno “spirito del silenzio” che aleggia “Da Elea a Metaponto, / sofistico e d’oro, problematico e sottile”.
La Lucania di Sinisgalli è, insomma, una terra connotata, oltre che dalla natura, dalla sua cultura che coincide con la magnifica “età delle rose”, la straordinaria fioritura della Magna Grecia, culminata per il poeta nella filosofia pitagorica, dove il numero è strumento razionale di conoscenza e insieme magico simbolo orfico. Uno dei più forti miti personali di Sinisgalli è infatti la sua ideale adesione alla comunità fondata dal Samio sulle coste ioniche: “Ero al primo anno di Università e, come i discepoli di Pitagora, ero entrato nella cittadella del sublime”.
Sinisgalli fin dal 1946 aveva accumulato appunti per un mai completato volume dal titolo Viaggio in Magna Grecia: qui le riflessioni artistiche, filosofiche e geometriche si mescolano alla descrizione della “flora mangereccia” che ha sostituito le filosofiche “rose” di Parmenide o Pitagora presso le rovine di Paestum o Heraclea: “Intorno al tempio, come intorno ai campi di inumazione, l'erba è gagliarda, i carciofi e i finocchi maschi hanno la stessa opulenza delle rose leggendarie”, in modo da spiegare perché “questa gente così poco carnivora sia tanto poetica e sofistica”.
L'orizzonte di Sinisgalli, però, è sempre attratto, con moto centripeto, verso Montemurro, al centro della sua Lucania, da cui lo sguardo può ampliarsi fino ai monti del Tirreno: “Le pendici del Serino sono ancora bianche di neve”, scrive il poeta nella tragica Pasqua 1952, dedicata alla morte del padre.La sua forza espressiva si può ben cogliere nel paesaggio lucano delineato nel capolavoro di Vidi le Muse (1943). Qui Sinisgalli, in sintonia con il paesaggio di cui doveva avere concreta esperienza nella fanciullezza, rievoca la sua terra con immagini tormentate (“Il sonno mi finge negli occhi / Quest'ansia di foglie che il melo / Rovescia dubbioso”) e persino gementi (“Si torceva alle giunture / sotto il peso del fiore / la pianta del fico dolente”). Già i primi critici avevano sottolineato questo aspetto: De Robertis, in Scrittori del Novecento (1940), aveva affermato che a Sinisgalli tutto pare “sterile, magro, brullo, deserto", e Gaetano Mariani, ne L'orologio del Pincio (1981), leggeva nella lirica di Sinisgalli “la distruzione, l'insidia, il morso delle cose”, un mondo “incapace di manifestarsi in aperta luminosità”. Sinisgalli infatti è il poeta di una luce meridionale stentata: le sue sono “ore di bassa luce”, il suo sole è “tenebroso”.
Eppure questa lettura è parziale: non è solo realismo, ma è il filtro simbolico a creare un continuo presagio di dolore. Basti pensare, al contrario, ai momenti di sincero incanto, che il poeta presenta quando può fare riferimento a notturni sereni (“In quest'ansa dell'Agri, / Ai limiti bassi della terra, / Fiduciosa la sera mi consente / La pace casta delle acque”), o quando associa la luce alle care immagini degli uccelli: “La luce era gridata a perdifiato / Le sere che il sole basso / Arrossa il petto alle rondini rase”. La luce, il grido e le rondini si fondono infatti in una sola immagine, quella che richiama l'età della felicità più piena: “Infanzia gridata dagli uccelli”.
In definitiva, è un paesaggio dell'anima quello lucano di Sinisgalli: un paesaggio sul confine tra luce e ombra, tra memoria felice ed angoscioso dolore, in rapporto con i significati più profondi, umani e culturali, celati dietro le rappresentazioni della natura, e che meritano quindi di essere ulteriormente approfondite.
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