1948-1952
V, 6 (dicembre 1952)
La mia seconda stagione milanese porta il peso e la responsabilità dei quarant'anni, (i capelli grigi e l'emicrania, Piazza Duse e via Zuretti, le trattorie di Giuntoli e di Pepori), i colori giallo e rosso della Pirelli. Dentro questi anni bisogna far entrare il trambusto di piazzale Loreto e gli odori della Bicocca. Bisogna far entrare le Alpi che qualche volta nei giorni limpidi, io riuscivo a scoprire dalla finestra dell'ottavo piano del Palazzone. Poi la monotona e bellissima storia del marciapiede di Via Vittor Pisani, dalla porta dell'Albergo Doria fino in fondo, dove, dalla altezza di un gradino appena (il gradino di un marciapiede) si scende nel Piazzale della Stazione. Si scende sul Piazzale con un salto di appena diciotto centimetri, che è stato sempre per me, nuotatore impossibile, un vero e proprio tuffo a testa in giù, dal trampolino (del letto, dei libri, della solitudine) fin sotto il livello della giornata di lavoro. La storia del marciapiede di Via Vittor Pisani, questo incredibile tappeto d'asfalto, più prestigioso di un tappeto orientale, più ricco di un sottobosco, più enigmatico del fondo del mare, la racconterò un'altra volta. So che una sera ho rivelato a Riccardo Manzi la mia scoperta e siamo stati insieme due ore, a testa bassa, a ripercorrere su e giù, a leggere rallentati duecento metri (una misura assurda!) che forse nessuno intenderà: un film sulle crepe, sulle incrinature, sui solchi, sulle lacerazioni, sulle cicatrici, sui cunicoli, sui simboli, infine, che pioggia e nebbia e gelo hanno tracciato nel bitume. E poi, eppoi c'è il trolley del tram numero 7.
Se sfoglio i miei appunti di allora, autunno-inverno 1948, trovo curiose indicazioni, trovo i segni delle prime punture, il grafico della linea di penetrazione del mondo della gomma nel mondo dei miei pensieri. Trovo scritto, per esempio, che le vie del sonno sono serpentine, e c'è vicino a questa nota uno scarabocchio che potrebbe essere anche un ritratto della tortiglia, del cord, oppure l'ideogramma di un battistrada. Appresso trovo divertimenti di questo genere: "I surrealisti devono aver cercato parole elastiche; Moore ha scoperto una scultura pneumatica, Dalì ha fabbricato orologi di caucciù". E in altra pagina, trascritta la ultima terzina di un famoso sonetto di Rimbaud: "Où, rimant au milieu des ombres fantastiques. Comme des lyres, je tirais les élastiques Des mes souliers blessés, un pied contre mon coeur!".
È chiaro, si tratta di schermaglie, di difese superflue, di raggiri premonitori: il regno del flessibile sceglieva le vie più tortuose per farsi strada nel mio cervello.
Poi ci furono le impressioni in fabbrica. "I fili, i canapi, le trecce, i cavi dentro cui trascorreranno i fremiti delle acque, i sobbalzi delle piogge e delle nevi. I fili di rame che svuotano i laghi, ecc." Il 29 novembre 1948 feci la seconda visita ai cavi (i cavi m'intrigavano non c'è dubbio). "L'Operazione più intrinseca che si compie entro queste immense navate, questi altissimi padiglioni, consiste nel proteggere il rame dal contatto diretto con la terra. È strano come tutti i traslochi delle cose più delicate e lubriche, sangue, semenza, clorofilla, linfa, energia, vis, suono, si compiano meglio all'oscuro, sottoterra. L'isolamento dei cavi deve evitare le dispersioni di corrente, deve tamponare qualunque eventuale e possibile emorragia. E gli operai addetti alle macchine fasciatrici hanno anche nella figura qualcosa che ricorda gl'infermieri e gli aiuti delle sale operatorie. C'è ancora di più: il sistema di bendaggio (gomma, carta, miscela, olio) ricorda molto da vicino i processi di mummificazione. Con la differenza che davvero entro questa basilica si opera una difesa dell'anima, perché l'elettricità è tutta anima e niente corpo. Il midollo di questi possenti pitoni (lunghi anche mille metri e grossi fino a centocinquanta millimetri) è quasi sempre triplice, ternario, perché in effetti, l'Energia è trigemina. È un triangolo. Una trinità".
Vedete, ero già posseduto. Ero perduto.
Fu in quella stessa epoca che visitai alla Bicocca il Prof. Allavena e conobbi il dott. Oberto, e mi documentai sulle macromolecole, sulla memoria della gomma (l'isteresi elastica è memoria!) e sull'influenza che il nero fumo (in polvere millesimale) e lo zolfo (il fiato di Satana) esercitano sull'assetto delle catene molecolari.
Così dopo un rapido noviziato, tra alchimia e tecnologia, presi il mio posto tra Produzione e Distribuzione, tra Operai e Clienti. Ebbi poco tempo per sottilizzare sulla Vendita, sul Vantaggio, sulla Merce che deve sempre conservare la dignità di un Oggetto. Mi buttai nella mischia, mi attaccai ai telefoni. Ogni gesto doveva da allora diventare pubblico, manifestarsi, chiamare, soccorrere, spingere, urtare, sedurre. Fu allora, novembre 1948, che intorno a noi, Luraghi, Tofanelli e io, cominciammo a radunare gli amici e a coinvolgerli nelle nostre stesse responsabilità.
Devo dire di più. Luraghi accarezzava da tempo il progetto di una Rivista Aziendale e per questa iniziativa aveva ottenuto il consenso del dott. Alberto e l'adesione degli altri Direttori. Credo che ne parlasse a Tofanelli fin dall'estate del 1948. E a quel tempo, infatti, risalgono le prime "avances" che Tofanelli mi rivolse per convincermi a tornare a Milano, sulla breccia. E in verità, ripreso a Milano il mio lavoro accanto a Luraghi, trovai dopo qualche giorno già pronto un progetto che "in nuce" o in bozzolo, o in germe, conteneva l'idea della Rivista. Lo so che "dal germe di un'idea può nascere Apollo oppure un mostro": devo dire che per il calco già pronto non fu difficile scegliere il materiale meglio rispondente, meglio aderente al disegno di quella forma.
Fu discusso a lungo il titolo, fu vinta anche la nobile riservatezza del dottor Piero e del dottor Alberto: ci si convinse tutti che quel nome, meglio di qualsiasi sigla astratta e di qualunque proposito presuntuoso, poteva accogliere in Italia e all'Estero una massa imponente di amici guadagnati in settanta anni.
Rimando il lettore alle precise parole introduttive che comparvero nel primo numero, a pagina 8, con la firma di Alberto Pirelli. Scelgo soltanto qualche capoverso: "Veniamo a conversare con voi a nome di una azienda che, per la somma di intelligenze e di lavoro che racchiude, per le sue manifestazioni nel campo sociale, come in quello tecnico e organizzativo, per il primato raggiunto e le affermazioni realizzate in tante parti del mondo, sente di poter dire una parola utile. Nella rivista parleremo noi, uomini dell'azienda, valendoci della nostra specifica esperienza e parleranno anche uomini estranei al nostro ambiente i quali, anche perché estranei, possono meglio di noi sfuggire al fatale inaridimento del tecnicismo a oltranza e lievitare la materia con la loro arte, sensibilità e fantasia".
Che cosa infatti distinse subito, fin dai primi numeri, la Rivista Pirelli dalle altre pubblicazioni analoghe? C'erano sulla piazza ottimi esempi: "Ferrania", "Edilizia Moderna", la "Rivista del Vetro", varie riviste farmaceutiche. C'erano stati, ma tanto remoti, i venti numeri e più di "Tecnica ed Organizzazione", stampati a Ivrea dalla Olivetti. Devo dire che lo stacco da quel genere di divulgazione fu netto. Perché i due piatti della bilancia, tecnica e cultura, problemi e suggestioni, inchieste e letteratura, concretezza e divagazione, furono tenuti sempre in equilibrio.
E i nomi di Ungaretti, di Montale, di Quasimodo, di Baldini, di Vergani, di Carrieri, di Calzini, di Bernari, di Valsecchi, di Dorfles, di Linati, di Barisoni, di Biasion, di Manzi, di Munari, li troviamo fin dai primi numeri affiancati a Canestrini, Ambrosini, Verrati, Cesura, Nutrizio, Minoletti, Dicorato, Bonicelli, Gennarini, Laurenzi, Sorrentino, Patellani, Suppini. Convincere letterati e giornalisti (e tra i più illustri) a scoprire i segreti della tecnica, della scienza, del progresso, (lo sport trova tifosi più disponibili in ogni categoria) è stato un vanto della Rivista. Che bandì con successo anche due concorsi, il primo per tre racconti sportivi, il secondo per dieci cronache sportive.
Abbiamo pubblicato in quattro anni tutti articoli di prima mano, tutti scritti inediti. Abbiamo provocato incontri tra scienziati e giornalisti, tra tecnici e poeti. Senza tema di commettere eresie abbiamo mandato i reporters negli studi, nelle aule, nei laboratori a sorprendere con lampi di magnesio personaggi tanto illustri quanto riluttanti, come Severi, Amaldi, Marcello, De Marchi, Gabrielli, Nervi, Colonnetti, Ponti, Fauser, Padre Gemelli, Smeraldi.
Se si pensa che soltanto in questi ultimi anni il giornalismo italiano ha guadagnato "in fusione" quanto ha perduto "in rappresentazione", se si considera che è tanto difficile da noi torcere il collo alla retorica e che si può essere tacciati di improntitudine se si chiede uno scritto su tema obbligato, perché il bau bau dell'ispirazione non è del tutto sotterrato, si comprende meglio il significato di un lavoro che, bene o male, era una prova di sottomissione, non certo una prova di orgoglio.
All'intelligenza italiana non si sollecitarono sviolinate ed exploits, ma piuttosto constatazioni, sopraluoghi, rendiconti. Tanto meglio se qualcuno riusciva ad accendersi di fronte a una tesi, a un incontro imprevisto, a uno spettacolo, a un dispositivo. Devo confessare sinceramente che il tempo dei Francesco Redi e degli Algarotti, per non dire dei Galilei e dei Cattaneo è davvero lontano. La nostra cultura è quasi tutta impastata di storia e di oratoria. È impastata per fortuna anche di poesia. E io credo nell'acume, nella curiosità, nell'entusiasmo dei poeti: credo nella loro capacità di sorprendersi, di riflettere, di approfondire.
Vorrei dire, di straforo, che una delle nostre ambizioni fu proprio questa: provocare, stimolare una prosa analitica piuttosto che il solito pezzo commemorativo, un referto e non un inno, un commento non una predica. Io sono sicuro che se i nostri scienziati e i nostri tecnici considerassero l'esercizio della scrittura alla stregua di un'operazione dignitosa, (una vera e propria lima del pensiero) qual è sempre stata per Leonardo o per Cartesio, per Leon Battista Alberti o per Maxwell, per Linneo o per Einstein, e se viceversa i letterati e i filosofi e i critici, come hanno fatto del resto Goethe e Valery, Regel e Bergson, Giedion e Dewey, accogliessero, con rinnovata simpatia, le ipotesi e i risultati del calcolo e dell'esperienza, una concordia nuova potrebbe sorgere tra le inquietudini e le stanchezze del nostro tempo, non voglio dire un nuovo mito.
È molto probabile che questo genere di letteratura "a comando", questo giornalismo tecnico prenda il sopravvento sulle pagine scritte in libertà, sulla prosa gratuita, sulla scrittura disinteressata. Abbiamo letto in questi ultimi giorni una "memoria" che accompagnava la relazione di un bilancio di una grande società finanziaria belga: un saggio sull'utilizzazione delle materie prime che poteva portare una firma celebre, ed era invece soltanto una plaquette anonima. Io aspetto il gran giorno in cui il Regno dell'Utile sarà rinverdito dalla cultura , dalle metafore, dall'intelligenza. Quest'estate ho aperto qualche libro dei nostri illuministi, l'abate Galiani, Filangieri, Verri. Mi veniva da confrontare la nitidezza dei loro pensieri e delle loro parole alle sbavature, alla schiuma, alla sciattezza di tanti articoli di fondo dei nostri giornaloni. La Rivista Pirelli ha cercato di stimolare nei collaboratori la ricerca di un'espressione meditata: ma c'è ancora molto cammino da percorrere per guadagnare precisione e leggerezza.
Ai cari amici che restano e ai nuovi che subentrano, l'augurio che dopo il battesimo e uscita di minorità, la Rivista possa avvantaggiarsi di una stagione ricca di eventi felici.
L.S.
Per la prima volta nella storia della nostra Rivista Sinisgalli s'è lasciato mettere al posto di capotavola. Dopo tanti interventi minuti (minuti tanto da parere divertimenti di un convitato che in fondo non c'entra, precise invenzioni, invece, del nostro mondo di uomini che calcolano, progettano, producono), Sinisgalli s'è lasciato impegnare al più difficile di tutti i discorsi. E dicendo della sua stagione milanese e sorridendo e apparentemente divagando ha filmato la sottile cronaca delle esigenze, intuizioni, scoperte, delle fatiche, ansie, gioie, che furono il nascere e il crescere, che sono oggi il vivere di questa creatura, la nostra rivista.
In questo chiudersi di un lustro ed aprirsi di un altro, ha detto Sinisgalli, con noi e per noi, il migliore dei brindisi.
Egli (chi non lo sa?) è un poeta. Parlando di sé, un poeta non corre i rischi della letteratura. Rischiamo noi, invece, e parliamo di lui. Allora diremo a Sinisgalli soltanto questo: che lo abbiamo capito. Che già sapevamo come la sua stagione milanese s'andasse bruciando (e fu davvero un quotidiano consumo questo captare, da un mondo di fabbrica, idee da tradurre in parole, da comporre e costringere nei precisi confini della pagina d'una rivista); sapevamo come già premessero in lui altre stagioni. Diciamo a Sinisgalli che lo vogliamo felice come lo è stato (vero?) in questa stagione comune a noi che nelle nebbie e nell'odore di gomma siamo nati e contiamo di viverci e non prevediamo altre stagioni se non quella (forse) di un conclusivo riposo. Gli diciamo che lo vorremmo spesso con noi, non ospite, amico; l'amico estroso, svagato e partecipe, impaziente e generoso; più ancora amico che maestro, eppure tanto maestro.
GLI AMICI DELLA PIRELLI
Stampa | PDF | E-mail | Condividi su facebook