L'operaio e la macchina
II, 2 (marzo 1949)
Io entro in una fabbrica a capo scoperto come si entra in una basilica, e guardo i movimenti degli uomini e dei congegni come si guarda un rito.
Uno strano rito partoriale, qualcosa come la moltiplicazione dei pesci, il maturarsi delle uova sotto la chioccia in un canestro, l'esplosione di un albero di mele, la manipolazione dei pani in una vecchia madia. Sono questi capannoni, uomini e macchine si affannano intorno a un lavoro che ha sempre del miracolo: una Metamorfosi!
Si parte dalla confusione e si arriva all'ordine. Si parte dal brusco e si arriva alla farfalla. Si elabora la materia, si mastica, si stira, si insaliva, si arma, si conforma, si cuoce, e si crea un oggetto. Questo processo, nell'armeria della natura, avrebbe un solo grosso difetto intrinseco. La prolificità.
La macchina è troppo prolifica, almeno rispetto alla donna, alla giumenta, alla coniglia. Certo è più prolifica dei ragni e degli uccelli. È più prolifica dei fiori. La macchina ha una riserva incalcolabile di semi. Ti caccia fuori una sfera o un pneumatico in pochi secondi o in pochi minuti. Può spremere ininterrottamente un filo o un tubo per centinaia di ore. Senza dubbio c'è qualcosa di mostruoso in tutto ciò.
Ma oltre i sospetti ci sono anche le meraviglie. Dirò che queste meraviglie sono addirittura il fondamento, l'origine di quella incredibile fisiologia. Le macchine non possono sbagliarsi, non possono permettersi un movimento falso, non possono riflettere. Devono produrre forme e oggetti prefissi, forme e oggetti perfetti. Tutti eguali, sono parti plurigemini.
È chiaro, - per la mancanza appunto di riflessione e di pentimento, per la irrevocabilità di ogni gesto, - che noi consideriamo le macchine come degli organismi inferiori.
Esse lavorano a occhi chiusi. Non vedono e non sentono.
Aprono gli occhi, diventano intelligenti, per un attimo solo, quando si accorgono che l'uomo che le vigila è per un attimo assente. In quell'attimo, se l'uomo ha chiuso gli occhi o ha dimenticato le mani, possono fare dei disastri.
Ma quasi sempre palpitano, sospirano, russano, fanno le fusa. Sono contente del loro padrone.
E io non so vedere diversamente un operaio vicino alla macchina se non come un assistente, un infermiere, un ostetrico accanto a una puerpera. Le macchine sono in continuo stato di doglia, in perpetuo stato di febbre.
L'operaio non può abbandonarle anche quando borbottano assopite. si capisce: ci sono macchine e macchine.
Le macchine elettriche per esempio, e le macchine termiche, generatrici di energia, non chiedono che di essere alimentate, non chiedono che acqua e fuoco. La grande famiglia delle macchine utensili, torni, trapani, frese, esigono una presenza assidua, un soccorso ininterrotto. L'operaio deve vivere dentro un recinto strettissimo.
Alla Bicocca, almeno in molti reparti, il lavoro delle macchine è un lavoro complementare. Non c'è la frenesia raccapricciante di certe officine, dove l'automatismo ha un dominio quasi assoluto. L'uomo alla Bicocca non perde le sue attitudini, non rinuncia al suo genio. Nell'oggetto (nel prodotto, nella merce) c'è riconoscibile la misura delle sue capacità. La macchina docile lo aiuta.
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