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Difesa ritardata

di Leonardo Sinisgalli
in Il Mattino
Sabato 4 novembre 1978

 

Circe vuole trasformarci tutti in porci. da quanti anni ci disperiamo per aver guardato in faccia la bellezza? Ora tutti vogliono convincerci che ci tocca insultarla.

Ci pongono davanti agli occhi tabelle, tabelle tristi come ossari, numeri rossi e numeri neri, per dimostrarci che abbiamo sprecato il fosforo, inutilmente. È un miracolo che non ci portino davanti a una Corte, che non ci mandino in gabbia davanti a un Tribunale pubblicitario. Sembra un incubo, e io confesso che avrei paura del verdetto, tanto bene conosco i Giudici che verrebbero prescelti.

Con i competenti che ci sono sulla piazza prego Iddio che questa denuncia spiccata contro di me rimanga ancora metaforica. Ma per prudenza sarà bene preoccuparmi di congegnare una difesa.

La mia posizione è, in fondo, equivoca. i miei argomenti sono rilevabili dai miei scritti, e i miei scritti difendono, purtroppo, la grazia, l'istinto, la improvvisazione, il colpo di fulmine, la freccia di delizie, lo scatto, l'ispirazione, l'invenzione.

Malgrado la cura che io ho fatto di razionalismo, di logica, malgrado Cartesio, sono rimasto fermo all'idea che esistono ragioni che la ragione non comprende. Sono rimasto legato a Pascal malgrado tanto calcolo e tanta geometria.

Il metodo! Ho faticato tutta la vita per farmi un'abitudine, un sistema, per fissare qualche regola. Avrebbero potuto giovarmi, mi avrebbero fatto risparmiare l'orgasmo di risolvere ogni problema cominciando sempre dal principio, avrei evitato tanti scempi di energia, di nervi. Non sono mai riuscito a convincermi di poter risolvere un caso con l'esperienza che m'ero fatta prima risolvendo un caso simile. Mi sono troppo piaciute le soluzioni nuove, le vie inedite.

Ho sempre accettato come una condanna legata al mio destino questa attitudine, comune a pochi mortali, di considerare le soluzioni difficili come le più belle.

Dunque, io non posso deporre a mio favore, finirei col peggiorare la mia posizione.

Ho trafficato con i libri, con idee, con personaggi troppo irregolari. Ho frequentato la compagnia di gente che se ne infischia del buon senso. Tutto sommato mi sono seduto soltanto quando mi ci hanno costretto, ed è ridicolo che io mi sia fatto legare non per scrivere versi o inseguire fole o disegnare castelli.

Mi hanno fatto sedere per lavorare, per produrre. Mi hanno legato a un tavolo: il foglio bianco che io mi son trovato davanti quasi ogni giorno non mi veniva offerto per lasciarci la bella immagine, la stella, ma uno schema grafico, un'operazione, un'insegna, un appello capace di convincere, di sedurre, di spingere ad una decisione, di provocare un interesse, di sollecitare una domanda e, addirittura, una richiesta. Mi hanno legato a un tavolo e mi sono sforzato di starmene seduto il meno possibile. Contrariamente a quello che tanti credono: le idee non si covano col sedere.

Una difesa condotta con questi argomenti non farebbe che aggravare i sospetti contro di me. Ho avuto la sfacciataggine di far desiderare una macchina per scrivere servendomi di una rosa, una rosa nel calamaio al posto dell'asticciola. Ho avuto la sfrontatezza di ricorrere a una gallina, una gallina che si impunta davanti a una riga dritta tracciata col gesso, per vantare la tenuta di strada di un pneumatico, ho fatto dire a un copywriter, cioè a colui che scrive le frasi pubblicitarie, che un'automobile divenuta famosa non era stata disegnata con l'aiuto della galleria del vento, ma era stata, tout court, disegnata dal vento.

Ho preferito servirmi di grandi scarabocchi per far conoscere trattori, locomotive, controlli elettronici, apparecchi di precisione. Ho affidato la difesa della civiltà delle macchine ai bambini, ai poeti, ai filosofi, piuttosto che ai tecnici. Difficilmente riuscirei a convincere i severi giudici del Tribunale pubblicitario d'aver agito con ponderatezza, con riflessione. Mi accuserebbero (un po' lo faceva Mattei) di confondere i miei tic, le mie fissazioni con i miei doveri.

Bisogna proprio che io ricorra a qualche testimone e che questi testimoni non si rifiutino di rispondere. Bisogna che qualcuno dica per me che non c'è nessuna insania a prendere la gente per la testa piuttosto che per le parti basse. Ci sarà certamente una persona disposta a sostenere che il bello e il brutto hanno almeno la stessa forza di persuasione, che tante volte val meglio colpire l'immaginazione o l'intelletto piuttosto che i sensi buoni e cattivi.

Un messaggio, si dice, per essere capito dev'essere scritto per i più umili di mente. Ma nessuno riuscirà a convincermi che i più umili di mente sono necessariamente idioti. Questa riduzione dei problemi ai minimi termini mi ripugna.

Sotto la semplificazione di ogni cosa quasi sempre è nascosta una straordinaria pigrizia del cervello. Semplificare significa veramente raccogliere il massimo di energia nel minor numero di segni (vedi i teoremi, vedi i versi). La verità è peregrina, enigmatica. La verità non è ovvia.

Bisognerebbe sentire come testimoni Pintori, Buggeri, Carboni, scrivere ai redattori di "Graphis", la famosa rivista di Zurigo, come mai si sono proposti di presentare in tanti anni al pubblico di tutto il mondo soltanto pazzi, degenerati, fanatici. Chiedere a Schawinsky, a Breuer, a Leo Lianni perché hanno accettato tanti sofismi, tante stramberie, per far vendere cappelli, poltrone vitamine?

Rivolgiamoci con una raccomandazione al pubblico senza pretendere sempre di piegarlo alle nostre ragioni, auguriamoci che qualcuno ci sfugga, qualcuno metta in dubbio le nostre parole. È bene che ci sia un uomo che resta fuori del Tempio, un nemico che non si arrende, un rivale che ci mette in imbarazzo.

16 Dicembre 2011

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