Roma burina e buzzurra
di Leonardo Sinisgalli
in Il Mattino
Domenica 15 febbraio 1976
Quando una baronessina sposava un uomo di bassa condizione si diceva a Roma che la sua famiglia si incanagliva. A un certo punto le figlie del "generone" essendosi isterilita la principale fonte di sostegno, che era quella vaticana, con l'avvento dell'Unità andarono a nozze con i grandi bottegai: panettieri, ferramentai, macellai. Quel processo di proliferazione promiscua, cominciato dopo il '70, è continuato fino a ieri: ma gli incroci si sono via via esauriti tra i ceppi cittadini, anche se di diversa estrazione, e sui pochissimi indigeni hanno preso il sopravvento, dopo i piemontesi, gli immigrati buzzurri e i burini delle campagne limitrofe, specie quelle dell'ex Stato Pontificio.
L'espansione dell'apparato statale ha portato in varie ramificazioni, polizia, magistratura, ministeri, un flusso crescente e ininterrotto di provinciali, specialmente del Sud, con qualche rara eccezione per gli antichi capisaldi di confine dell'Urbe. Oggi si può dire di questa Roma quello che si diceva della Roma di Augusto, che aveva conquistato tutti, ma dai costumi dei vinti era stata soggiogata.
Credo che il simbolo dello schiavo divenuto in qualche modo cittadino possa essere Buzzanca, che nelle vesti del servo conquista l'alcova del padrone. E un altro simbolo della meridionalizzazione, a livelli naturalmente diversi, è l'on. Moro, non soltanto Presidente, ma Professore, e Padrino di tutti i pugliesi inurbati, con più stile e astuzia di mancini e di De Mita, e perfino di Emilio Colombo, certo più elegante di lui, ma che per un eccesso di pruderie è sempre assente giustificato dalle manifestazioni di simpatia e di devozione che gli provengono dai lucani della capitale.
Nell'antica Roma ci stavano a loro agio i leoni e gli elefanti ingabbiati sulle pendici del Celio e tenuti appena desti per gli spettacoli del Colosseo. Si trovarono bene gli invasori, lanzichenecchi e africani, le regine e le sante forestiere, gli scrittori e i viaggiatori di oltr'Alpe. La lupa riservò per tutti una sorsata di latte dai suoi capezzoli.
Non ci si trovano a loro agio, e non metteranno mai radici profonde, gli inurbati, i quali più che vivere separati nei loro quartieri o nei loro ghetti come a New York o a Schangai, sono distinti per corporazioni, si potrebbe dire, legati dallo stesso mestiere.
Ci sono i portinai, quasi tutti marchigiani, veri guardiani della città, ne difendono la sicurezza e la morale: sono loro che impongono ai casamenti certe consuetudini. Nei quartieri alti si muovono come magistrati o ammiragli, paneggiano sull'orlo dei marciapiedi, danno qualche pizzico alle serve, scappellate alle matrone; si incontrano tra loro nelle rare vallette o nei viottoli delle colline per giocare a bocce. Nei quartieri poveri fanno da centri di collocamento, e anche di assistenza, dei paesani, affidandoli alla protezione dei preti e delle suore. Mi pare di ricordare che in un libro di Volponi è rappresentata questa operazione di innesto e di rigetto del marchigiano a Roma. E io non dimentico la difficoltà, il disagio in cui si è trovato a vivere un poeta come Cardarelli, pur essendo arrivato in città a 17 anni. Il suo non era un esilio metafisico, era una feroce e continua lotta di sopravvivenza contro i padroni di casa, i tabaccai, i tranvieri, gli stessi colleghi che, chi sa perché, lo consideravano un genio, ma di "race inférieure".
I conducenti di taxi sono in maggioranza molisani, di due o tre paesini intorno a Campobasso; i meccanici e i carrozzieri provengono da Orvieto e da Rieti e danno il voto al senatore indipendente Luigi Anderlini, le manicures arrivano con i direttissimi da Spelonca e da Terracina, protette, si dice, dall'on. Andreotti. Ma è chiaro che quando si sposta un ministro, da un capoluogo di provincia, trascina un corteo, una cometa di fans, di mandarini. Le cameriere venete degli anni Cinquanta furono sostituite dalle sarde negli anni Sessanta, ora sono le somale le più vantate dalle agenzie.
Perché ho fatto questo preambolo? Perché mi sono perduto in considerazioni un po' ovvie e approssimative sullo scadimento di qualità o, se volete, nella degenerazione del gusto e del costume romano? Per spiegare in qualche modo due fatti caduti da poco sotto i miei occhi e, da poco, oggetti della mia riflessione e del mio sconcerto.
Le nuove tinteggiature al ducotone nei restauri delle facciate imposti dall'assessore all'edilizia, che non si chiama Malraux ma credo semplicemente Pola, stanno cambiando e snaturando quel colore di Roma che ha avuto in Larbaud il più acuto e garbato idolatra. Il colore di Roma, come lo abbiamo visto esaltato in certe "Ville" e "Ottobrate" di De Chirico, e nei paesaggi fulvi di Scipione e di mafai, nelle tele e nelle tavole di Donghi, di tamburi, di Viveri e, infine, nelle corrusche vedute di Quaglia, si stempera di anno in anno, si scioglie in una specie di minestra sporca, neutra, che perde qualunque ricettività alla luce e al sereno.
La pietra tradizionale romana è il travertino delle cave di Tivoli con cui sono costruiti i monumenti, i palazzi, le fontane, che assumono col passare degli anni una tinta calda e dorata. Contribuiva a irrobustire questa nota dominante nel panorama di Roma, oltre la pietra, l'intonaco delle case più modeste e dei muri di cinta dei giardini, che si preparava con la pozzolana dei dintorni; un'argilla di origine vulcanica che assorbiva bene i colori cotti nella gamma che va dal giallo del ranuncolo al viola del radicchio. "Les couleurs de Rome" Larbaud li trova esasperati anche nel giallo e nel rosso dello stendardo municipale che reputa, insieme, "potenti, pesanti, intensi". Deve saperlo anche il vento, egli dice, che una bandiera romana si dispiega con lentezza, si solleva con maggiore gravità di ogni altra; e la terra sa anche che la sua ombra è più densa. "Non si possono immaginare i due colori, giallo e rosso, come simboli di altre grandi città, Londra, Parigi, Chicago. Si direbbe che soltanto un passato come quello di Roma, e tanto accumularsi di sole e di dominio, consentono una così vigorosa manifestazione semantica". Valèry Larbaud spiega poi il suo favoloso incontro nel cortile del Collegio Romano, con il bell'ocra-arancione delle quattro pareti interne, della cui patina formatasi lentissimamente sottolinea il caldo splendore, la densità serena: "è come se un'ambra, un velo leggero di porpora, si diluisse sul giallo, attenuandone il fuoco".
Chi percorre oggi, in autobus o in tram, un qualche tipico itinerario cittadino fa molta fatica, dopo aver guardato le facciate appena scoperte e quelle ancora fresche dietro i ponteggi, grigie, scialbe, fredde, a ricordare, se l'ha conosciuta, la Roma di ieri, o quella eterna di Scipione, di Mafai, di Donghi. Nel paesaggio ormai anonimo di Roma sono intatte solo le cupole che per fortuna sono tante quante le mammelle di Tiresia.
Infine c'è l'episodio umiliante delle tre famosissime strade del Centro, via Borgognona, via Fratina, via della Croce, diventate tristi isole pedonali come la famigerata piazza Navona, e che di giorno in giorno si fanno più sozze, cancrenose, malfamate, frequentate da zingari, spacciatori di droga, agitatrici, teppisti. Hanno perfino alzato un gradino, hanno sbarrato con una trave di cemento il passo alle ruote, e questo segno di segregazione fa venire in mente i vicoli ciechi e i bracci morti delle vecchie metafore municipali.
Stampa | PDF | E-mail | Condividi su facebook