Sito ufficiale della Fondazione "Leonardo Sinisgalli"

"Concordia nuova" tra arte e scienza

di Pietro Greco
in Armonicamente. Arte e Scienza a confronto, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2013.

Vorrei dire, di straforo, che una delle mie ambizioni fu proprio questa: provocare stimolare una prosa analitica piuttosto che il solito pezzo commemorativo, un referto e non un inno, un commento non una predica. Io sono sicuro che se i nostri scienziati e i nostri tecnici considerassero l’esercizio della scrittura alla stregua di un’operazione dignitosa (una vera e propria lima del pensiero) qual è sempre stata per Leonardo o per Cartesio, per Leon Battista Alberti o per Maxwell, per Linneo o per Einstein, e se viceversa i letterati e i filosofi e i critici, come hanno fatto del resto Goethe e Valery, Hegel e Bergson, Giedion e Dewey, accogliessero con rinnovata simpatia, le ipotesi e i risultati del calcolo, dell’esperienza, una concordia nuova potrebbe sorgere tra le inquietudini e le stanchezze del nostro tempo, non voglio dire un nuovo mito.
Chi cerca una “concordia nuova” tra scienza e letteratura foriera di un possibile “nuovo mito” è il poeta e ingegnere e pubblicitario Leonardo Sinisgalli. La sua proposta – la sua ricerca – è contenuta in un articolo, Le mie stagioni milanesi, pubblicato nel 1955 sul n. 5 della rivista, La civiltà delle macchine, di cui era il direttore1.
Dobbiamo rendere omaggio a quella rivista, La civiltà delle macchine, nata nel 1953, sessant’anni fa, per volontà e con l’appoggio dell’allora direttore generale di Finmeccanica, Giuseppe Luraghi, dirigente d’azienda e scrittore, perché ci indica una strada più che mai attuale: cercare una «concordia nuova», nel senso di una concordia rinnovata, tra arte e scienza.
Giuseppe Luraghi aveva conosciuto Leonardo Sinisgalli molto tempo prima dell’esordio de La civiltà delle macchine. I due si erano incontrati in Pirelli. E quando Luraghi entra in Finmeccanica, nel 1952, chiama l’amico ingegnere e poeta e pubblicitario a Milano e gli propone di dirigere una rivista che avvicini i poeti e gli artisti, ma anche gli scienziati e la gente comune e i bambini, alle macchine. Per dare un contributo – in un’Italia in fase di rapidissima industrializzazione – a creare, appunto, una nuova civiltà, fondata sulle macchine ma con al centro l’uomo.
Per due mesi, tra settembre e ottobre del 1952, Leonardo Sinisgalli si dedica a progettare la rivista individuando le due linee editoriali che la caratterizzeranno: l’armonia del sapere e l’attenzione alla ricerca scientifica più avanzata (elettronica, astronomia, cibernetica)2.
È ora di riprendere quel discorso e di tentare un percorso trasversale, guardando alla ricerca della «concordia nuova» da un angolo di osservazione che è sia particolare sia generale: l’attualità dell’osmosi tra arte e scienza (e filosofia).
 
Quanto è reale la schisi innaturale?
Ripartiamo, dunque, proprio da un particolare della storia della Civiltà delle macchine. Quello che vede il poeta ingegnere, Leonardo Sinisgalli, favorire (e finanziare) la realizzazione nel 1956 del primo robot di Silvio Ceccato: linguista e filosofo cibernetico, collaboratore della rivista. Il robot si chiama Adamo II, un nome scelto proprio da Sinisgalli. E testimonia di un fenomeno, niente affatto scontato, soprattutto alla luce degli eventi culturali successivi, su cui vale la pena soffermarsi: l’influenza che l’arte ha continuato ad avere nel corso del XX secolo, e ha ancora oggi, sulla scienza. E sulla filosofia.
Un contributo non banale ad aggrovigliare quei fili del discorso sull’armonia del sapere che Sinisgalli e Luraghi vogliono dipanare, giunge, nel 1959, dal libro con cui Sir Charles Percy Snow denuncia l’avvenuta separazione tra «le due culture», quella scientifica e quella umanistica3. Se molti scienziati naturali sono disponibili a utilizzare quelle che Sinisgalli chiamava “le lime del pensiero” e a confrontarsi con le scienze umane, sempre più gli umanisti rifiutano il confronto. È per questo che le due culture tendono a divergere. Anzi, si sono già separate. Questa la tesi di C. P. Snow.
Molti intellettuali, in Italia e fuori dall’Italia, sono colpiti dalla provocazione del chimico e scrittore inglese. E reagiscono. Primo Levi, per esempio, scrive che se davvero esiste una «schisi» tra scienza e arte, beh si tratta di una «schisi innaturale»: perché questa separazione non la conoscevano né Dante, né Galileo e neppure «Empedocle, Leonardo, Cartesio, Goethe, Einstein, né gli anonimi costruttori delle cattedrali gotiche, né Michelangelo; né la conoscono i buoni artigiani d’oggi, né i fisici esitanti sull’orlo dell’inconoscibile»4.
Per il vero, il chimico e scrittore inglese sostiene, anche con una certa forza, l’idea che bisogna recuperarla quella separazione. Cosicché, a ben vedere, la sua posizione non è molto differente da quella di Sinisgalli, che propone di ritrovare una “concordia nuova” tra arte e scienza possibile foriera di un “nuovo mito”, proprio perché ritiene che la ”concordia antica” sia andata perduta. E lo stesso Levi ritiene “innaturale” la schisi, ma non la esclude.
Ma è davvero così? Si è davvero consumata la “separazione tra le due culture”? E questa separazione si è davvero consumata all’inizio del XX secolo, quando una serie di profondi cambiamenti – di vere e proprie rivoluzioni –  attraversarono e le scienze e la arti e i loro rispettivi linguaggi portandole in universi separati e, dicono alcuni, incomunicanti?
Non abbiamo risposte definitive a queste domande. Abbiamo anzi la sensazione che le risposte definitive, semplicemente (fortunatamente), non esistono. Abbiamo, però, un’ipotesi. Che le arti e le scienze nel corso del XX secolo abbiano continuato a dialogare. E continuino ancora a farlo. Certo, in maniera diversa rispetto al passato. Ma in maniera non meno intensa e non meno, reciprocamente, fruttuosa.
Non abbiamo prove definitive, per corroborare questa ipotesi. Ma storie e narrazioni, beh queste sì. Frammenti forse incoerenti, ma che testimoniano come il ménage continui. E che, come in passato, sia un ménage à trois. Che coinvolge un terzo partner, a volte incomodo: la filosofia.
 
Frammento n. 1: Wiener, Eliot e l’estetica della matematica
In omaggio a Sinisgalli, gran cultore delle scienze cibernetiche, come primo frammento proponiamo quello che vede protagonista il fondatore stesso della cibernetica, che in greco significa “arte del pilota”: Norbert Wiener.
Questa prima tarsia della nostra rozza e poco omogenea opera a incastro è anche la più dura. E, a detta di alcuni, la più fragile. Perché propone addirittura l’omologia tra scienza e arte. O, almeno, tra matematica e arte. E già, perché, sosteneva il matematico (e filosofo) americano, la matematica è, in senso stretto, un’arte5. Raffinata e dinamica. Che, proprio come la letteratura e la pittura e la musica, evolve nel tempo, modificando stili e canoni. Per questo, sosteneva Wiener, la storia della matematica deve essere collocata a pieno titolo nella storia dell’arte.
Norbert Wiener (1894-1964) è uno dei più grandi matematici del XX secolo. E sebbene queste affermazioni risalgano a un’età ancora giovanile, tra il 19236 e il 19297, non si tratta di affermazioni estemporanee. Ma riflettute, anzi vissute, nel corso di svariati anni e proposte in maniera argomentata in un contesto culturale in cui le rivoluzioni, scientifiche e artistiche, incalzano. Sono gli anni cruciali della rivoluzione quantistica, dei clamorosi sviluppi della ricerca sui fondamenti in matematica (Kurt Gödel e i suoi teoremi d’incompletezza), della riconciliazione tra genetica ed evoluzionismo (il neodarwinismo), della ricerca morfogenetica di Sir D’Arcy Wentworth Thompson (armonia tra numero e forma).
Sono anche anni in cui – dal matematico francese Jacques Hadamard al fisico tedesco Albert Einstein – molti uomini di scienza in ogni parte del mondo vanno ponendosi il problema del rapporto tra creatività scientifica e creatività artistica. E di come l’una agisca sull’altra, alimentandosi reciprocamente.
Ma, se vogliamo tentare di capire il senso della tesi maturata da novant’anni fa dal trentenne Norbert Wiener, conviene usare una tecnica cinematografica e effettuare un flashforward, un salto in avanti nel tempo e giungere al settembre 1967, quando uno scrittore italiano, Italo Calvino, su The Times Literary Supplement affronta il tema del rapporto tra letteratura e filosofia nella narrazione del mondo8. Questo rapporto – sostiene, anzi, constata lo scrittore italiano – è una lotta. Anche se entrambe tentano «di attraversare l’opacità del mondo», la letteratura cerca di coprirne con carne viva la straordinaria varietà, mentre la filosofia, «ne cancella lo spessore carnoso» e la riduce, quella varietà, a una «ragnatela di relazioni tra concetti generali».
Il saggio di Italo Calvino sulla divaricazione tra letteratura e filosofia viene pubblicato otto anni dopo The Two Cultures di Snow e sembra inserirsi in un alveo più generale: quello della separatezza tra ragione ed emozione. L’alveo del disincanto.
Snow misura il distacco tra arte e scienza. Calvino tra letteratura e filosofia. C’è, dunque, un nuovo clima, piuttosto freddino, in cui sembra ormai consumarsi stancamente quel ménage à trois che era risultato così vivo e fecondo quando la scienza moderna stava per nascere: nel Rinascimento, il periodo degli artisti e ingegneri e matematici. Ma anche e forse soprattutto nel Seicento, quando la nuova scienza finalmente nasce e immediatamente intreccia la pericolosa congiunzione. Non a caso Galileo, pioniere della nuova scienza, primario matematico e filosofo del Granduca di Toscana, è anche: il più grande scrittore nella storia della letteratura italiana, secondo l’autorevole parere di Giacomo Leopardi e dello stesso Calvino; il fondatore di un nuovo genere letterario, il report scientifico; un poeta; un provetto disegnatore (ha disegnato da sé la Luna del Sidereus Nuncius); un abile musicista e collaboratore non passivo del padre, Vincenzio, teorico della musica; un critico d’arte, come lo ha definito Erwin Panofsky9; un teologo «perspicace», come lo ha definito papa Giovanni Paolo II 10.
Tuttavia a leggere più a fondo il saggio di Italo Calvino ci accorgiamo che l’analogia tra la sua tesi e quella di Charles Percy Snow non regge a lungo. Intanto perché, a differenza di quanto vorrebbe l’inglese per la cultura umanistica e scientifica, «l’opposizione letteratura-filosofia non esige d’essere risolta»: viva il conflitto. Ma anche e soprattutto perché il tentativo di attraversare l’opacità del mondo non si esaurisce affatto in un «matrimonio a letti separati» tra letteratura (o, più in generale, tra l’arte) e la filosofia, ma va visto, appunto, «come un ménage a trois» di cui è protagonista la scienza. Lungi dal considerarlo concluso, dunque, quel rapporto Calvino lo giudica vivo. Lungi dal considerarlo superato, dunque, quel rapporto Calvino lo giudica più che mai necessario.
È mediante questo ambiguo rapporto fra le tre dimensioni della sua cultura che l’uomo moderno costruisce «mappe dello scibile», le più utili al pilota per attraversare l’opacità del mondo, navigare tra i suoi cibernetici oceani e approdare a quella che Sinisgalli ha definito una «concordia nuova» capace di placare, almeno in parte, «le inquietudini e le stanchezze del nostro tempo».
Ora, sempre come in un film, possiamo operare un flashback e ritornare indietro nel tempo. Fino alla sera di Natale del 1914, quando a Londra due giovani filosofi americani si incontrano a cena e iniziano a discutere proprio di arte, scienza e filosofia e della loro relativa capacità di penetrare la complessità opaca del mondo, di placare le inquietudini e le stanchezze del nostro tempo. Uno è Norbert Wiener: ha 20 anni ed è venuto in Inghilterra per studiare con il logico Bertrand Russell (futuro premio Nobel per la letteratura, nel 1950). L’altro è Thomas Stearns Eliot, ha 26 anni ed è venuto in Inghilterra per seguire le lezioni del filosofo neoidealista Francis Herbert Bradley. Anche Eliot otterrà il Nobel per la letteratura, addirittura due anni prima di Russell, nel 1948.
Occasione della discussione tra i due giovani amici (si sono frequentati tra il 1911 e il 1913 a Harvard), è un articolo, Æsthetics, che Wiener sta scrivendo per l’Encyclopedia Americana e in cui propone una breve trattazione della filosofia estetica di George Santayana in opposizione a quella di Henri Bergson11. Ma a tenere banco sono soprattutto gli argomenti che il giovane allievo di Russell ha proposto in un altro saggio, Relativism, appena pubblicato12. Si tratta di una critica a Henri Bergson e alle tesi secondo cui le scienze fisiche e la matematica hanno rapporti con nozioni assolutamente rigide, lontane dalle esperienze soggettive e inafferrabili all’intuizione.
Non è affatto vero, sostiene Wiener: il pensiero formale puro non esiste e persino nel caso della matematica, la più astratta e formale di tutte le discipline, l’uso dei simboli è condizionato del nostro pensare attraverso lo spirito del simbolismo. La scienza è anche intuizione. E insieme, l’analisi e l’intuizione, nell’arte, come nella filosofia e nella scienza, ci aiutano a penetrare la complessità opaca del mondo. A trovare le armonie nel suo (apparente) disordine.
Complessità non è un termine che stiamo usando a caso. Il futuro fondatore della cibernetica, che potremmo definire la prima scienza della complessità, ha già intuito che le scienze naturali e la matematica, a causa dei loro stessi progressi, sempre più impetuosi, sono nel pieno di una grande transizione epistemologica. Che si sta rapidamente passando da quella che lui definirà «la scienza degli orologi» alla «scienza delle nuvole», ovvero dalla scienza deterministica dei processi semplici e lineari alla scienza stocastica dei processi complessi e non lineari. Le scienze naturali  e la matematica si stanno dunque attrezzando con strumenti formali per iniziare a penetrare la complessità opaca del mondo. Proprio come, con altri mezzi, cercano di fare le arti. E, in comune con le arti, le scienze naturali e, in particolare, la matematica  hanno un principio guida: la ricerca estetica. La ricerca della bellezza.
Thomas Stearns Eliot, quella sera di Natale del 1914, concorda con l’amico. Poi riprende idealmente la discussione e l’approfondisce in una lettera del 1915:
Sono piuttosto portato ad ammettere che la lezione del relativismo sia: evitare la filosofia e dedicarsi all’arte vera o alla scienza vera (poiché la filosofia è ospite non amata in compagnia di ciascuna).
Il giovane filosofo allievo di Bradley riconosce l’esistenza del ménage a trois, ma non lo ama. Lo vuole risolvere. E dal triangolo espunge la filosofia: l’unica, a suo dire, che non ha nulla da dire. L’opacità del mondo e le sue inquietudini possono essere dipanate solo o dalla vera arte o dalla vera scienza.
Poi, però, precisa. La distinzione così netta tra arte vera e scienza vera non regge. Pensarlo: equivarrebbe a tracciare una linea netta, e il relativismo predica il compromesso.13
Eliot riconosce che non esistono la vera arte e la vera scienza. C’è sempre un compromesso tra le due. Poi dice a Wiener, a proposito della filosofia:
Per me e per Santayana la filosofia è principalmente critica letteraria e conversazione circa la vita; e tu hai la logica, che mi sembra di gran valore. La sola ragione per la quale il relativismo non si libera della filosofia, dopotutto, è che non c’è nulla da abolire! C’è l’arte, e c’è la scienza. E ci sono opere d’arte, e forse di scienza, cui già si sarebbe pervenuti se molta gente non fosse stata convinta che vi fosse la filosofia.13
La filosofia è un ostacolo. È il terzo incomodo.
Gli interventi, tranchant, con cui i due giovani intervengono per espungerlo, quel terzo incomodo, da un ménage altrimenti creativo non è un mero esercizio accademico. È piuttosto il preludio a una scelta di vita. Qualche tempo dopo il Natale 1914 e la lettera del 1915, infatti, il filosofo Eliot abbandona la filosofia (o, almeno, il suo studio sistematico) per dedicarsi, con straordinario successo, alla poesia. Mentre il filosofo Wiener lascerà lo studio sistematico della filosofia per dedicarsi, con altrettanto straordinario successo, alla matematica. Ma in entrambi la tensione a penetrare la complessità opaca del mondo resta. In Eliot questa tensione si esprimerà presto nella produzione di capolavori letterari, come The Waste Land (1922). In Wiener si esprimerà ancora prima nella produzione di capolavori scientifici, a iniziare dal processo di Wiener, un modello per lo studio dei fenomeni casuali elaborato nel 1920.
Nel corso degli anni a venire, mentre rompe il bozzolo della filosofia e dispiega le ali da farfalla matematica, Norbert Wiener rimugina le idee sul rapporto tra arte e scienza che ha confrontato con Eliot. Il frutto di questa riflessione lo porta a scrivere, nel 1929, un articolo spiazzante fin dal titolo: Mathematics and art. Fundamental identities in the emotional aspects of each. La matematica e l’arte hanno identità fondamentali comuni. E queste identità fondamentali comuni sono gli aspetti emozionali. L’emozione penetra nel regno della pura ragione e non per questo la ragione perde la sua coerenza. L’articolo ha un valore di testimonianza. Perché Wiener, ormai matematico di valore, rileva (e rivela) come lui e i suoi colleghi siano attraversati in quegli anni da uno spirito modernista del tutto analogo a quello delle avanguardie artistiche che caratterizzano i primi decenni del XX secolo:
Il modernista dice “Quest’idea mi sembra interessante. Fammi vedere dove mi porta, anche se non posso darne alcuna prova definitiva”. Questa è la genesi del futurismo in pittura, del cubismo e di altre bizzarrie del genere, e di movimenti letterari come l’espressionismo. […] Non è un accidente che il periodo delle bizzarre teorie fisiche di Einstein sia anche il periodo della musica bizzarra, dell’architettura bizzarra, della letteratura bizzarra e di un teatro bizzarro.
Wiener sostiene, dunque, che scienziati e artisti catturano spesso in maniera sincrona un comune spirito dei tempi. È il caso delle bizzarre teorie di Einstein e delle bizzarre proposte in ogni ambito delle arti. È interessante notare che molti anni dopo uno storico della scienza inglese, Arthur Miller, troverà una puntuale conferma a queste precise parole di Wiener (14). Ma questo lo vedremo nel frammento successivo.
Per ora limitiamoci a osservare come, proprio negli anni in cui Wiener viene maturando le sue bizzarrie matematiche (sullo studio dei fenomeni stocastici), non solo Eliot affronti i medesimi tempi in campo letterario, ma lo stesso Einstein rifletta sul “personal struggle”, ovvero sul percorso soggettivo che ogni scienziato compie quando «la scienza sta per nascere» nel chiuso di un laboratorio o di una mente e non è ancora conoscenza condivisa e validata da un’intera comunità. Quest’idea dei percorsi personali verso la conoscenza del mondo naturale è un’idea tutt’altro che pacifica in un mondo, quello della scienza, che, almeno quando “è nata e consolidata” costituisce, per usare le parole dello stesso Einstein: «ciò che di più oggettivo e impersonale gli esseri umani conoscono»15.
Altri matematici, in questi anni, riflettono sugli emotional aspects della loro ricerca e colgono aspetti comuni nella creatività artistica e scientifica. Il francese Jacques Hadamard, in un libro, Psicologia dell’invenzione in campo matematico, pubblicato negli anni ’40, affronta il problema dell’”illuminazione”: quando il matematico in maniera improvvisa trova la soluzione a un problema16. Come Wiener, Hadamard sottolinea il ruolo che ha “la bellezza” nella ricerca anche dei matematici. E come Wiener, il francese coglie nell’intuizione l’atto creativo originario comune a scienziati e artisti.
Allo stesso modo, nel 1941, il matematico Godfrey Harold Hardy, maestro e amico di Wiener, pubblica un libro, Mathematician’s apology, in cui propone l’analogia tra il matematico e l’artista:
Il matematico, come il pittore e il poeta, è un creatore di forme. Se le forme che crea sono più durature delle loro è perché le sue sono fatte di idee. Il pittore crea forme con i segni e i colori, il poeta con le parole 17.
Molti scienziati, dunque, sottolineano le analogie tra lo scienziato e l’artista. Tuttavia Norbert Wiener va oltre, nella ricerca delle analogie e delle origini comuni tra arte e scienza. Propone delle vere e proprie omologie. Nel suo articolo del 1929 su Mathematics and art sostiene che la matematica è una vera e propria modalità di espressione artistica7. Non solo perché i matematici hanno una psicologia dell’invenzione (intuizione compresa) analoga a quella degli artisti. Non solo perché il matematico come l’artista si lascia guidare (anche) da principi estetici. Non solo perché il matematico come l’artista è un creatore di forme. Ma anche perchè la matematica, come l’arte, ha una storia che non è la lineare aggiunta di nuove scoperte alle precedenti, ma una vera e propria evoluzione degli stili e dei canoni di ricerca.
Norbert Wiener individua con una tale nettezza tre fasi ben distinte della storia della matematica come arte da consentirci di riassumerle in una piccola tabella:

tabella saggio grieco

Nell’analisi di Wiener, la prima fase, quella classicista, va dal Seicento alla prima metà del Settecento, quando la ricerca della precisione formale è avvertita come esigenza abbastanza marginale tra i matematici. Wiener cita, per esempio, le lamentele del filosofo e vescovo anglo-irlandese George Berkeley a proposito della ricerca sul calcolo infinitesimale di Isaac Newton: «La logica matematica di Newton è morta come i dinosauri […] eppure il sistema di Newton funziona» (citato da Leone Motagnini5). E ancora, Wiener ricorda Eulero, i suoi grandi risultati pratici e il suo profondo disinteresse per le dimostrazioni: il «superbo intuito fa della sua opera omnia una miniera di materiale per i matematici del futuro che non si è ancora esaurita» (citato da Leone Motagnini5). E ancora, Wiener ricorda Eulero, i sui grandi risultati pratici e il suo profondo disinteresse per le dimensioni: il «superbo intuito fa della sua opera omnia una miniera di materiale per i matematici del futuro che non si è ancora esaurita» (citato da Leone Motagnini5).
La seconda fase nella storia della matematica moderna, quella romantica, è caratterizzata dall’esigenza di un forte rigore formale. Che si esprime – sostiene Wiener – nelle opere di Cauchy, Galois, Bolyai, Abel. È quella che più tardi, lo storico della matematica Morris Kline definirà la ricerca del “paradiso della certezza”18. Un vero e proprio Weltanschauung. E gli stessi matematici esprimono una visione del mondo, una tensione, sostiene Wiener, degne di Lord Byron. Il giovane francese Évariste Galois scrive furiosamente la sua matematica la notte prima di affrontare il duello in cui perderà la vita. Mentre il passionale ungherese János Bolyai di duelli ne combatte addirittura sette. La ricerca di questi “matematici romantici”, sostiene Wiener, è segnata da un forte individualismo: Bolyai cerca la propria geometria (non euclidea); il tedesco Hermann Günther Grassmann fonda un proprio ambito di ricerca (la teoria dell’estensione) e altrettanto fa l’inglese Oliver Heaviside (il calcolo operazionale)
La terza fase, quella modernista, consente al matematico di accettare la sfida dei tempi e di provare finalmente a descrivere la complessità opaca e caotica del mondo reale. Intanto, sostiene Wiener, pone termine al tardo romanticismo del tardo Ottocento: «periodo dell’autosoddisfazione in matematica e in fisica […] in cui l’ideale del fisico era l’aggiunta di un altro decimale alle costanti già fissate, in cui molti matematici vedono il futuro come una prosecuzione assolutamente tradizionale delle linee di ricerca già scoperte» (citato da Leone Motagnini5). Il modernismo in matematica come in fisica segna una rottura. Una vera rivoluzione. Che culmina nei teoremi di Gödel e, per dirla ancora con Morris Kline, nella «perdita della certezza».
Il matematico modernista, sostiene Wiener, fa sperimentazione artistica. Cerca nuovi metodi e nuove forme, lasciandosi trasportare dalla corrente. Dice: ho un’idea. Mi sembra interessante. Vediamo dove mi porta.
Per questo, conclude Wiener la matematica oggi è: Scienza della libera speculazione logica attraverso concetti di ordine, applicati a un materiale qualsiasi.
E così, sperimentando matematica e lasciandosi guidare dal principio estetico della ricerca dell’armonia sotteso all’opacità della realtà più caotica, Norbert Wiener realizza il suo progetto filosofico e fonda negli anni ’40 la cibernetica: il tentativo più spinto della scienza moderna di andare oltre la descrizione di un universo-orologio e di iniziare a penetrare l’universo delle nuvole. Di cogliere, come il poeta e il pittore, l’armonia nel disordine.
Scienza, arte, filosofia: è di nuovo ménage a trois.

Frammento n. 2: Einstein, Picasso e qualche bizzarria dei tempi
«Quest’idea mi sembra interessante. Fammi vedere dove mi porta». Dopo aver inseguito i suoi pensieri, il 30 giugno 1905, Albert Einstein, fisico, tedesco, 26 anni appena compiuti, impiegato presso l’Ufficio Brevetti di Berna, invia alla rivista Annalen der Physik l’articolo sulla Elektrodynamik bewegter Körper in cui assume che la velocità della luce sia costante in qualsiasi sistema di riferimento e che il principio di relatività galileiano sia valido per ogni sistema fisico in moto relativo uniforme. L’articolo sull’Elettrodinamica dei corpi in movimento unifica parzialmente la meccanica e l’elettrodinamica. E manda definitivamente in frantumi la concezione classica del tempo e dello spazio: «D’ora innanzi lo spazio in sé e il tempo in sé sono condannati a dissolversi in nulla più che ombre, e solo una specie di congiunzione dei due conserverà una realtà indipendente», commenterà pochi anni dopo (non senza un certo lirismo) il matematico Hermann Minkowski (citato in Pais19).
«Quest’idea mi sembra interessante. Fammi vedere dove mi porta». Dopo aver inseguito i suoi pensieri, nell’anno 1906, Pablo Picasso, pittore spagnolo, 25 anni appena compiuti, trapiantato a Parigi, inizia a dipingere Les Damoiselles d’Avignon. Il quadro – piuttosto grande: 244 centimetri di altezza; 233,7 centimetri di larghezza – propone le figure di cinque ragazze, alcune con volti egiziani interpretati alla moda di Gauguin, altre con volti  ibero-polinesiani. Le ragazze sono prostitute e il soggetto – la vita in un bordello – è da tempo al centro dell’interesse del giovane pittore. Picasso ha già dipinto la scena. E tuttavia questa volta Les Damoiselles d’Avignon rivivono sulla tela in forma affatto nuova: in una «prospettiva spaccata, frantumata in volumi … incidenti l’uno nell’altro», che ce le propone in simultanea sebbene ciascuna viva in una sua dimensione spaziale (20). Il quadro, a detta di molti storici dell’arte, inaugura la stagione del cubismo. E, a detta del critico Mario de Micheli, manda definitivamente in frantumi nelle arti figurative la concezione classica dello spazio (20).
Nel giro di pochi mesi, dunque, sia in fisica sia nelle arti figurative, a opera di due giovani che sono fuori dai circuiti accademici, cambia la concezione dello spazio e del tempo. Ridefinendo il rapporto con cui la fisica, l’arte e la filosofia guardano a quelli che, fino al 1905, erano considerati degli assoluti: contenitori ineffabili entro cui si svolge la vicenda cosmica. L’Elektrodynamik bewegter Körper, l’articolo scientifico di Einstein, e Les Damoiselles d’Avignon, il quadro di Picasso, sono naturalmente strumenti affatto diversi. Tuttavia affrontano il medesimo problema: la natura della simultaneità. Quando di due eventi, l’uno che si verifica a Parigi e l’altro a Berna, possiamo dire che sono simultanei? E se i due eventi appaino simultanei a un osservatore che sta a Parigi, appariranno necessariamente simultanei a un osservatore che sta a Berna? È bizzarro, per dirla con Wiener, che due giovani si pongano simili domande sulla simultaneità quasi simultaneamente. Ma è ancora più bizzarro che giungano a conclusioni analoghe e propongano la degradazione dello statuto ontologico del tempo e dello spazio, considerati da millenni, almeno nella cultura occidentale, enti  assoluti e indifferenti alle vicende cosmiche.
La domanda, dunque, sorge spontanea: c’è una qualche connessione tra Les Demoiselles d’Avignon e l’Elektrodynamik bewegter Körper? C’è un qualche legame tra il cubismo e la relatività ristretta? Tra Einstein e Picasso?
Queste domande (questi problemi) sono stati a lungo ignorati dai filosofi e dagli storici della scienza. Il perché lo spiega uno degli allievi di Einstein, il filosofo, tra i fondatori del positivismo logico, Hans Reichenbach: «Il filosofo della scienza non è molto interessato nei processi di pensiero che portano alla conoscenza scientifica […] non è interessato al contesto della scoperta, ma al contesto della giustificazione» (citato in Holton15). Ai filosofi della scienza á la Reichenbach non interessa il percorso (il contesto della scoperta), interessa il traguardo (il contesto della giustificazione). Così facendo danno ragione a Calvino: cancellano «lo spessore carnoso» dell’impresa scientifica e la riducono a una «ragnatela di relazioni tra concetti generali».
Quanto agli storici della scienza, si sono tenuti per molto tempo alla larga da questioni simili per un criterio di impossibilità pratica: ove anche vi fosse una qualche connessione tra Les Demoiselles d’Avignon e l’Elektrodynamik bewegter Körper, come si fa a dimostrala, documenti alla mano? Meglio, dunque ignorarle, quelle domande.
Il problema è stato invece affrontato dagli storici dell’arte. Che si sono divisi (e tuttora si dividono). Alcuni riconoscono che, nel dipingere Les Demoiselles d’Avignon, nel mandare in frantumi lo spazio classico e nell’avviare una rivoluzione nell’arte figurativa, il genio di Picasso ha interpretato e si è fatto partecipe di  un bizzarro «spirito del tempo». Ivi compreso quel bizzarro «spirito scientifico» che, in quei primi anni del XX secolo, con Einstein ma non solo con Einstein, ha iniziato ad attaccare le mura considerate inscalfibili dello spazio e del tempo assoluti così come proposti da Isaac Newton.
Altri storici dell’arte, appellandosi in genere a quel medesimo criterio di impossibilità pratica evocato dai loro colleghi storici della scienza, sostenevano e sostengono che non è possibile documentare una qualche correlazione tra l’impresa di Einstein e quella di Picasso, cosicché le domande non ammettono risposta. E dunque a quelle domande non merita rispondere.
Tanto più che alcuni dati sono certi. Nel 1905 Einstein non conosceva Picasso. Nel 1906 Picasso non conosceva Einstein. E in seguito, a precisa domanda, il pittore aveva escluso che il fisico e la sua relatività ristretta avesse avuto un qualche ruolo nell’atto inaugurale del cubismo.
A distanza di quasi un secolo da quei due atti creativi, uno storico della scienza, l’inglese Arthur I. Miller, ha annunciato di averla trovata la chiave per aprire la porta e andare a osservare cosa c’è dentro quello «spirito dei tempi» che ha portato Einstein e Picasso a trovare un nuovo punto di equilibrio – una “nuova concordia” – tra scienza, arte e filosofia intorno ai due temi antichi ed elementari dello spazio e del tempo (14).
La tesi di Miller è netta: Einstein e Picasso si sono interessati al medesimo problema e hanno raggiunto risultati analoghi perché hanno attinto alla medesima fonte di ispirazione.
Anticipiamo subito che la tesi di Miller è controversa. Molti i distinguo, sia tra gli storici della scienza che tra gli storici dell’arte. Tuttavia Miller è un autore autorevole. Che va preso in seria considerazione. Non fosse altro perché è lo storico al mondo che ha studiato con maggiore attenzione il ruolo che nella fisica del primo Novecento hanno avuto non solo l’intuizione, le metafore, la ricerca della bellezza, ma anche e soprattutto la visualizzazione (Anschauung) e la visualizzabilità (Anschaulichkeit) 21,22.
La narrazione, ben documentata, di Miller è, in estrema sintesi, questa. Nei primi anni del Novecento, presso l’Ufficio Brevetti di Berna dove lavora, Albert Einstein si arrovella intorno alla natura della simultaneità23. Pensa a se e quando due eventi che avvengono nell’universo possono essere considerati simultanei nel tempo. E se la simultaneità temporale sia assoluta. Valga per tutti e in ogni condizione. Non è il caso di entrare nel dettaglio del suo ragionamento. Diciamo solo che nell’articolo del 30 giugno agli Annalen der Physik Albert Einstein risolve il problema proponendo i principi della relatività ristretta e la parziale unificazione della meccanica con l’elettrodinamica.
La proposta si basa su due concetti tanto semplici quanto fondamentali: la generalizzazione del principio di relatività di Galileo a tutti i sistemi fisici in moto relativo uniforme;  l’assunzione che la luce si muove in un sistema di coordinate “in quiete”, ovvero con la medesima velocità, c, sia che vanga emessa da una sorgente fissa sia che vanga emessa da una sorgente in movimento.
Il primo concetto riguarda il principio di relatività di Galileo, secondo cui le leggi della meccanica sono uguali in due sistemi qualsiasi che si muovono di moto relativo uniforme, ovvero a velocità costante, senza accelerazione. Einstein estende il principio di relatività di Galileo a qualsiasi tipo di sistema: non c’è alcun modo di distinguere fra due sistemi in moto relativo uniforme. Siano essi sistemi meccanici o elettromagnetici. Con questa semplice generalizzazione, Einstein conferisce piena dignità teorica all’esperimento di Michelson-Morley: il concetto di etere diventa del tutto superfluo. Non esistono sistemi di riferimento assoluti.
È davvero stupefacente che un’idea così semplice, quasi banale, un’idea (eh, sì) così elegante, che non richiede difficili analisi matematiche ma solo un forte rigore logico, abbia conseguenze così estese e penetranti.
Ma Einstein introduce anche un secondo concetto, già proposto da Hendrik Lorentz: quello della invariabilità della velocità della luce. L’idea di Einstein è che se un fisico su una nave accende una candela, sia lui che un osservatore posizionato su uno scoglio accanto al quale la nave bordeggia veloce, verificheranno che la luce emessa del cero si propaga con la medesima velocità. L’idea è del tutto contro intuitiva. Infatti, se a spostarsi sulla nave, da poppa verso prua, è il nostromo, i due osservatori misureranno velocità diverse. Per il fisico, il nostromo si sta spostando alla velocità di 5 chilometri orari. Per l’uomo sullo scoglio, il cameriere si sposta alla velocità di 20 chilometri orari: la velocità della nave, 15 chilometri orari, più la velocità del nostromo, 5 chilometri orari.
L’invariabilità della velocità della luce è un concetto ancora più fragoroso della generalizzazione della relatività di Galileo. Perchè indica che la mirabile meccanica di Newton non è corretta. O meglio, ha una finestra di correttezza limitata: è, infatti, applicabile solo a particelle che si muovono a velocità nettamente inferiori a quelli della luce. Per descrivere il moto di particelle che si muovono con velocità prossime a quelle della luce, occorre una nuova meccanica. In cui lo spazio e il tempo non sono più entità assolute, ma dipendono dall’osservatore. E in cui l’azione a distanza è bandita. Nulla, infatti, può viaggiare a una velocità superiore a quella della luce.
Con questo singolo lavoro, dunque, Einstein elabora una nuova teoria che sostituisce, per annessione, quella di Isaac Newton. Unifica parzialmente, sulla base del principio di relatività, le due grandi e, finora, incomunicanti branche della fisica: la teoria della meccanica e la teoria del campo elettromagnetico. E modifica concetti scientifici e filosofici vecchi di secoli e, addirittura, di millenni.  Per questo Hermann Minkowski dirà che d’ora innanzi lo spazio e il tempo cessano di vivere la loro vita autonoma e di loro non resta che una pallida ombra: lo spaziotempo quadrimensionale.
Cosa ha a che fare Picasso con tutto questo? Nulla. Tuttavia in questi stessi mesi il giovane pittore spagnolo è impegnato in un vero e proprio «programma di ricerca»: la riduzione delle forme a rappresentazione geometrica (24). Picasso, proprio come Einstein, prende in considerazione la simultaneità, ma riferita più allo spazio che al tempo. L’ottica tuttavia è la stessa: non esistono sistemi di riferimento privilegiati. La simultaneità assoluta non esiste. La visione dei fenomeni che avvengono nello spazio – questo è il messaggio di Les Demoiselles d’Avignon – dipende dal punto di osservazione.
In definitiva, entrambi, Albert Einstein e Pablo Picasso, tra il 1905 e il 1906, scoprono il concetto di relatività. Il primo conferisce a questo concetto piena dignità scientifica, attraverso un modello matematico. Il secondo gli conferisce una piena dignità artistica, attraverso un nuovo modello geometrico.
Questa è la tesi di Miller. Una tesi forte e, tuttavia, convincente. Nessuno dubita, infatti, che Einstein con l’articolo sull’Elektrodynamik bewegter Körper e Picasso con il quadro Les Demoiselles d’Avignon rivoluzionano la visione classica dello spazio e del tempo. È stupefacente che lo facciano pressoché simultaneamente, negli stessi mesi. E la coincidenza potrebbe farci indulgere a richiamare un generico “spirito del tempo” colto da entrambi, se Miller non proponesse una seconda tesi, meno evidente ma ancora più forte: Einstein e Picasso hanno attinto alla medesima fonte ispiratrice.
Questa fonte è una persona, anzi un personaggio con nome e cognome: Henri Poincaré, il francese che non disdegna la filosofia e che, con il tedesco David Hilbert, è considerato, in quell’inizio del Novecento, il più grande matematico del mondo.
Anche Poincaré ha affrontato il tema della simultaneità, prima di Einstein. Già nel 1898 aveva iniziato a interrogarsi sui problemi legati alla simultaneità degli eventi. Nel 1900, al Congresso mondiale dei matematici tenuto a Parigi, ha demolito il concetto fisico di etere. E nel 1902 ha proposto la necessità di svilupparlo, il tema della simultaneità, sulla base di un approccio alla geometrizzazione del mondo fisico niente affatto classico o, se si vuole, non euclideo. La proposta ha avuto ampia diffusione grazie a un libro, La Science et l’hypothèse, pubblicato nel 190225. Un libro che ha un grande successo, anche di vendite – un autentico best-seller del tempo – in cui Poincaré sostiene che non esiste un tempo assoluto. Nel 1904, infine, in una relazione al Congresso internazionale di Arti e Scienza di Saint Louis, ha ripreso il concetto di “tempo locale” di Lorenz e ha proposto un “postulato di relatività”.
Poincaré propone ai suoi ascoltatori un esperimento mentale, proprio del tipo di quelli che ama Einstein: immaginate due osservatori che si muovono di moto uniforme e che tentano di sincronizzare i loro orologi mediante segnali luminosi. I due orologi di volta in volta non segneranno il tempo vero ma solo un “tempo locale”. Tutti i fenomeni sono percepiti, da un osservatore rispetto all’altro, come rallentati. E nessuno dei due avrà alcuna possibilità di sapere «se è in quiete o in moto assoluto». Infine Poincaré giunge a questa conclusione: «Forse dobbiamo edificare una nuova meccanica, che riusciamo a mala pena a intravedere […], in cui la velocità della luce sia invalicabile».
La stessa cui giunge, pochi mesi dopo, Albert Einstein.
Molti sostengono che Poincaré si sia fermato un attimo prima di elaborarla questa nuova meccanica, ovvero un attimo prima di elaborare la teoria che sarà proposta di lì a un anno da Einstein. La questione è controversa, ma è opinione di Arthur Miller che il giovane impiegato presso l’Ufficio Brevetti di Berna, con un colpo di genio, abbia elaborato la teoria della relatività ristretta ispirandosi a Poincaré. D’altra parte si sa per certo che Albert Einstein a Berna ha letto direttamente La Science et l’hypothèse, nell’edizione tedesca del libro.
Anche Pablo Picasso – questa è la vera novità della tesi di Arthur Miller – viene a conoscenza delle idee del matematico francese. Non direttamente, però. Ma attraverso Maurice Princet, uno dei giovani che partecipano alle accese discussioni della Bande à Picasso, il circolo che ruota intorno al pittore spagnolo. Princet, di professione fa l’assicuratore, ma il suo hobby è l’alta matematica.
È da tempo che Princet parla a Picasso di concetti come gli spazi a più dimensioni e di geometrie non euclidee. Ed è molto probabile che il pittore nel suo programma di geometrizzazione delle forme si ispiri a un libro di cui Princet gli parla in continuazione: il Traité élémentaire de géométrie à quatre dimensions che Esprit Jouffret ha pubblicato nel 190326.
Miller dimostra che negli studi di geometrizzazione delle forme di Picasso, tra cui i disegni di preparazione di  Les Demoiselles d’Avignon, c’è l’impronta di Jouffret.
Ma Princet, definito il mathematicien du cubisme,  non ha letto solo Jouffret. Ha letto anche Poincaré. E certo parla delle sue nuove idee sulla relatività dello spazio e del tempo all’intera Bande à Picasso. A questo punto la facile inferenza – perché di inferenza si tratta – è che da queste discussioni Picasso trovi l’ispirazione per dare un seguito artistico al suo progetto di ricerca sulla riduzione delle forme a rappresentazione geometrica. A inaugurare una «nuova estetica» proprio come Einstein aveva inaugurato una «nuova meccanica».
Les Demoiselles d’Avignon sono la prima manifestazione della nuova estetica di Picasso proprio come l’Elektrodynamik bewegter Körper sono la prima manifestazione della nuova meccanica di Einstein.
Che questa nuova estetica sia un’idea improvvisa – un’”illuminazione” – lo dimostra il fatto che Picasso, alcuni mesi prima di iniziare Les Demoiselles d’Avignon, ha ultimato Harem. Anche se c’è qualche differenza nel numero di figure –  in Harem è presente anche un uomo nudo che osserva – i due quadri hanno il medesimo soggetto: cinque donne nude in un postribolo. Tuttavia è la prospettiva dei due quadri a essere affatto diversa. All’inizio del 1906 Picasso termina Harem proponendo una prospettiva classica dello spazio e la simultaneità dell’azione. Nell’autunno di quel medesimo anno inizia a lavorare al medesimo soggetto – le donne in una casa di piacere – ma con una prospettiva affatto nuova, relativistica, in cui si perde la simultaneità assoluta. Ogni donna appare come se fosse osservata da punti diversi.
Le domande che ci poniamo sono: Pablo Picasso è stato ispirato da Henri Poincaré e dalle sue idee sull’universo non euclideo e sulla perdita dello spazio assoluto? Ed è per questo che tra la primavera e l’autunno del 1906 cambia il suo modo di rappresentare le cinque donne nel postribolo? Le risposte non sono scontate. Possiamo tuttavia inferire che Picasso abbia sentito Princet parlare di Poincaré e della sua visione relativistica del tempo e dello spazio. Ed è facile che abbia detto, almeno tra sé e sé, come il matematico modernista di Wiener: «Quest’idea mi sembra interessante. Fammi vedere dove mi porta, anche se non posso darne alcuna prova definitiva».
La risposta di Arthur Miller è: «Le radici della scienza non sono solo nella scienza. Perché le radici del cubismo dovrebbero essere solo nell’arte? Potrebbe essere, ma ne dubito. C’è troppa scienza in ciò che Picasso va facendo»14.
Scienza, arte, filosofia dello spazio e del tempo: è di nuovo ménage a trois.
 
Frammento n. 3: Rodari, Calvino e la tribù che alza gli occhi al cielo
Facciamo ora un nuovo flashforward. Torniamo al tempo di Sinisgalli e chiediamoci, parafrasando Miller, se – a dimostrazione che il rapporto tra arte, scienza e filosofia ha attraversato per intero il “secolo del disincanto” – le radici di quel genere letterario che si sviluppa in Italia tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60 che va sotto il nome di realismo magico e che ha in Italo Calvino e in Gianni Rodari due tra i suoi massimi esponenti non abbia radici profonde nella emergente scienza (o meglio, tecnoscienza) dello spazio. Inteso in questo caso non come ente astratto, ma come luogo concreto dove si aggirano uomini in carne e ossa.
Iniziamo da Gianni Rodari, considerato il più grande scrittore italiano per l’infanzia del XX secolo. E, insieme a Carlo Collodi, il più grande di ogni tempo. Come Collodi, il giornalista e scrittore nato a Omegna il 23 ottobre 1920 è stato capace di riscrivere la «grammatica della fantasia» per i bambini (e gli adulti) del suo tempo. Come Collodi, ha utilizzato lo strumento della fiaba per raccontare il mondo reale in rapido cambiamento. Con tutta la sua opacità, le sue inquietudini e le sue stanchezze. Ma anche con tutte le sue opportunità. A differenza di Collodi che lo ha concentrato in un capolavoro assoluto, Le avventure di Pinocchio, Gianni Rodari ha proposto il suo realismo magico in una serie sterminata di opere di diverso genere (romanzi, racconti, canzoni, filastrocche), nessuna delle quali spicca nettamente sulle altre.
A differenza di Collodi, Gianni Rodari ha avuto la scienza – e la tecnologia più avanzata di diretta emanazione scientifica – come punto di riferimento principale27. Per questo appartiene a quel filone, altissimo, della letteratura italiana che da Dante a Galileo, da Leopardi a Calvino, ha nella scienza e nella filosofia naturale la sua «vocazione profonda». Molti ormai riconoscono la grandezza assoluta di Gianni Rodari, anche in mancanza di un capolavoro assoluto. Alcuni critici lo collocano non solo tra i grandi della letteratura per l’infanzia, ma tra i grandi della letteratura tout court (anche se il suo nome raramente compare nei manuali universitari). Pochi però – anzi, a dir la verità, nessuno finora – ha sottolineato come alla base della sua proposta ci sia un ménage à trois tra letteratura, filosofia e scienza.
O meglio, ci siano la (critica alla) scienza e la (critica alla) tecnologia. Eppure la sua «vocazione profonda» per la filosofia della natura e per la filosofia della tecnica Rodari l’ha espressa, per così dire, in intenzioni e in opere. Ovvero l’ha teorizzata e, negli ultimi vent’anni della sua vita, l’ha fatta intimamente percolare in tutte e ciascuna delle sue opere. Ebbene, proprio come è successo a Picasso, la scienza, nell’orizzonte creativo di Rodari, appare all’improvviso tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ‘60, come una stella nova. E, come una stella nova, brilla di una luce intensissima.
Basta, d’altra parte, dare un fugace sguardo alla sua sterminata letteratura per rendersene conto. All’inizio degli anni ’50 i protagonisti delle sue prime (e bellissime) favole realistiche sono Cipollino, Pomodoro, il Principe Limone.  Personaggi, per così dire, «frutta e verdura». Espressione del mondo che Rodari, giornalista e scrittore comunista, ha ancora come riferimento. «Quei personaggi mi piacevano: mi ricordavano i miei primi anni all’”Unità”, quando lavoravo in cronaca, e mi occupavo di questioni alimentari, e ogni giorno facevo il giro dei mercati, guardavo i prezzi, e parlavo con commercianti e massaie, e scoprivo tanti problemi nella borsa della spesa della gente», ricorderà in Storia delle mie storie.28
Ma, tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60, i luoghi e i protagonisti delle sue fiabe improvvisamente cambiano. Diventano affatto diversi. I luoghi non sono più gli orti e i mercatini rionali, ma i pianeti più lontani e lo spazio cosmico. I personaggi non sono quelli «frutta e verdura», ma astronauti, robot, scienziati. Anche i pulcini sono pulcini cosmici.
Non è necessario – non in questa sede, almeno – fornire un resoconto dettagliato di come Gianni Rodari cambi il mondo di riferimento: dalla grama vita quotidiana dei quartieri popolari alla avventurosa vita negli spazi interplanetari. Dalla vita, semplice, da massaia a quella da astronauta, ipertecnologizzata. Una vita che resta tuttavia intessuta di umanità in tutti i suoi aspetti: le gioie e i dolori, i desideri realizzati e le frustrazioni, le contraddizioni e le lotte, le grandi opportunità di costruzione di un mondo migliore e le grandi minacce (la bomba, l’inquinamento). Conviene chiedersi quando e perché Gianni Rodari realizza questo cambiamento di punti di riferimento. Quando e perché passa da Cipollino al Pulcino Cosmico? Dal mercato di quartiere ai laboratori scientifici? Dall’aritmetica del fruttaiolo alla matematica degli insiemi. La data è chiara e la causa prossima è ovvia. Nella seconda metà degli anni ’50 il cielo comincia a popolarsi di razzi, di satelliti artificiali, di astronauti. È una successione rapida, impressionante. Nel 1957 l’Unione Sovietica pone in orbita il primo satellite artificiale, lo Sputnik 1; nel 1959 una sonda sovietica, Lunik III,  entra in orbita intorno alla Luna e ne fotografa la faccia finora nascosta, mostrando al mondo letteralmente “cose mai viste prima”; nel 1961 sempre l’Unione Sovietica manda il primo uomo nello spazio, Jurij Gagarin.
L’Unione Sovietica sembra arrivare in questa fase della storia dell’esplorazione dello spazio sempre per prima. In realtà è iniziata una gara molto serrata con gli Stati Uniti che alla fine sarà vinta dagli Stati Uniti. Ma intanto tutti colgono la novità: il mondo sta cambiando. Lo spazio cosmico sembra ridursi a cortile di casa dei terrestri. Con le nuove tecnologie e le vecchie risse. Pochi colgono la profondità del nuovo. Se il mondo cambia, cambia l’uomo. Tra quei pochi c’è Italo Calvino, che in quegli anni “alza gli occhi al cielo” e coglie la profondità del nuovo. Lo scrittore di Sanremo va oltre la sfida delle astronavi alla forza di gravità. Si rende conto ce la tecnologia spaziale non cambia solo il mondo fruibile intorno a noi, espandendolo. Cambia noi stessi. Cambia l’uomo, appunto. Ed è con questo duplice cambiamento che occorre misurarsi.
Un cambiamento complesso, a molte facce. Quei razzi che volano sempre più in alto sono il simbolo della potenza crescente della tecnologia, capace appunto di vincere i vincoli della gravità terrestre. Ma anche della potenza cupa della tecnologia, perché quei razzi promettono di trasportare bombe all’uranio e al plutonio sempre più potenti in pochi minuti da un capo all’altro della Terra, esponendo l’umanità al rischio dell’olocausto nucleare. Gli anni della corsa allo spazio sono, infatti, anche gli anni della corsa al riarmo nucleare. È questa la nuova realtà. Epica e, insieme, tragica. Calvino inizia a narrarla già nel 1957 con un racconto – il suo primo racconto cosmico – che somiglia a una fiaba: La tribù con gli occhi al cielo29. E che come ogni fiaba contiene un’allegoria fin troppo chiara: la tribù protagonista, la tribù con gli occhi al cielo, ma che continua ad andare armata «di rozze asce e lance e cerbottane» non è altro che l’umanità intera.
L’idea che Calvino inizia a maturare nella seconda parte degli anni ’50 è che di fronte a questa novità della esplorazione dello spazio, a sua volta emblema di una nuova società ipertecnologica, lo scrittore non può limitarsi alla contemplazione o all’esorcismo, occorre che pensi a come governarla: a come minimizzarne i rischi e coglierne le opportunità. Per tentare di governare il nuovo mondo in cui l’umanità è ormai sbarcata occorre raccontarlo. La fiaba è uno strumento adatto, perché è capace di accogliere e sciogliere il nuovo intreccio tra letteratura, scienza e filosofia. Gianni Rodari segue un percorso del tutto analogo. E non è sorprendente. Ha una sensibilità politica e artistica simile a quella di Calvino. Ed è in costante dialogo con lo scrittore sanremese. Entrambi diventano, così, esponenti tra i principali di quel filone letterario, il realismo magico, che cerca forme non convenzionali di linguaggio, nuove o antiche, per raccontare e analizzare e cercare di cambiare la realtà più imminente del mondo.
Gianni Rodari è con Calvino tra i primi ad accorgersi che la novità introdotta dalla tecnoscienza è epocale. Un autentico spartiacque. E da quel momento inizia a scrivere, come sostiene nell’introduzione a Il Pianeta degli Alberi di Natale pubblicato nel 1962, per «i  bambini di oggi, astronauti di domani»30. Rodari comprende e avverte che i bambini di oggi – i bambini nati intorno alla metà degli anni ’50 – sono in una condizione affatto nuova. A differenza dei loro genitori, sono destinati a diventare astronauti, useranno le nuove tecnologie per viaggiare nello spazio.
Quella dei «bambini di oggi, astronauti di domani» per Rodari è una prospettiva realistica. Egli immagina davvero che di lì a qualche lustro lo spazio sarà ridotto a cortile di casa dell’umanità. Ma è anche e soprattutto una metafora. Una metafora, chiara e potente, che ci parla di una transizione, appunto, più grande e più profonda. Lo scrittore di Omegna percepisce che il mondo sta entrando in una nuova era, che la società umana sta entrando in una nuova dimensione: l’era e la società che proprio in quegli anni Norbert Wiener, ormai anziano ma più che mai creativo, va definendo dell’informazione e della conoscenza. Si tratta di una transizione epocale. La terza grande transizione nella storia dell’umanità: paragonabile a quella che diecimila anni fa ha trasformato le società fondate sull’economia della caccia e della raccolta in società fondate sull’economia della coltivazione e dell’allevamento; e a quella che meno di tre secoli fa ha creato una società fondata sull’economia industriale.
In questa transizione la scienza assume un ruolo da protagonista31. Perché l’era della conoscenza è caratterizzata sia dalla produzione incessante di nuova conoscenza (e niente più della scienza produce in maniera incessante nuova conoscenza) sia dall’innovazione tecnologica (e niente più della nuova conoscenza prodotta dalla scienza alimenta l’innovazione tecnologica). Non è un caso che proprio sul finire degli anni ’50 negli Stati Uniti, nell’Unione Sovietica, ma anche in Europa e in Giappone gli investimenti in ricerca scientifica e sviluppo tecnologico assumono, per la prima volta nella storia, una dimensione macroeconomica. Si misurano non più in centesimi o decimi, ma in unità di Pil (Prodotto interno lordo). E il numero di membri della comunità scientifica mondiale non si misura più in migliaia ma inizia a essere misurabile in milioni. Oggi vivono sul pianeta più scienziati della somma di tutti gli scienziati vissuti in epoche precedenti.
Insomma, la scienza percola nella società e la rimodella. La novità è senza precedenti. E dunque, sostiene Gianni Rodari, anche (e soprattutto) chi scrive per l’infanzia ne deve tener conto. Nulla, infatti, è più come prima. «L’idea che il bambino d’oggi si fa del mondo è per forza tutt’altra da quella che se ne può essere fatta, da bambino, il padre stesso da cui lo separano pochi decenni», scrive nella sua Grammatica della fantasia pubblicata nel 197332. Aveva ragione. Ha più che mai ragione. I nostri figli, tra la fine del XX secolo e questo inizio del XXI secolo, vivono in un mondo affatto diverso rispetto al nostro. I bambini, astronauti (o meglio, cibernauti) di oggi, si vanno facendo un’idea del mondo in maniera affatto diversa rispetto a quella che ne siamo fatti noi padri, tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60 del XX secolo. E noi stessi, allora, primi bambini con un futuro da astronauti, ci siamo fatti un’idea del mondo in maniera completamente diversa rispetto a quella che avevano maturato i nostri padri, trent’anni prima, tra la fine degli anni ’20 e l’inizio degli anni ’30. Al contrario: quella dei nostri padri non era molto diversa da quella dei nostri nonni e dei nostri bisnonni. Una soluzione di continuità si è consumata.
Perché?
Beh, perché quando i nostri padri e nonni e bisnonni erano bambini, prima della Seconda guerra mondiale, nel loro mondo non c’era la scienza. O meglio, la scienza non era ancora entrata nella vita quotidiana delle persone in maniera imponente né con la tecnologia né con le immagini del mondo.
Quando noi eravamo bambini, a cavallo tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60 del secolo scorso, in casa c’era già la televisione – sia pure in bianco e nero e con un solo canale – mentre lassù il cielo iniziava a essere solcato da razzi e astronavi. Lo spazio a disposizione per le nostre esperienze reali e virtuali era enormemente aumentato.
I nostri figli, nati agli sgoccioli del XX secolo e in questo inizio del XXI, sono vissuti (e vivono tuttora) non solo in case ipertecnologizzate – televisioni con decine di canali, play station, iPod, iPad, iPhone, iQualsiasiCosa e soprattutto computer connessi con la grande rete globale – ma in un universo cognitivo completamente diverso.
Un bambino oggi è naturalmente in condizioni di fare operazioni diverse, forse anche cognitivamente più complesse, rispetto a quelle realizzate dal padre qualche decennio prima e dal padre del padre nella generazione precedente. Nulla, dunque, più della scienza e dell’applicazione tecnologica della conoscenza scientifica, ha modificato il modo in cui le nuove generazioni si fanno un’idea del mondo. È questa la grande intuizione (forse la più grande) che ha avuto Gianni Rodari nel reinventare la grammatica della fantasia e nell’utilizzare gli antichi strumenti – la favola, la filastrocca – per raccontare ai bambini (e agli adulti) non solo e non tanto il mondo nuovo in cui ci hanno sbarcato la scienza e la tecnologia, ma il nuovo modo di pensare il mondo nell’era della scienza e della tecnologia.
Stiamo realizzando una forzatura? Stiamo immaginando un Rodari critico della scienza attraverso la fiaba che non esiste? Beh, allora diamo un’occhiata al discorso che ha tenuto nel 1970, dieci anni prima di morire, quando gli è stato assegnato il premio Andersen?
Io penso che il signor Newton abbia scoperto le leggi della gravitazione universale proprio perché aveva una mente aperta in tutte le direzioni, capace di immaginare cose sconosciute, aveva una grande fantasia e sapeva adoperarla. Occorre una grande fantasia, una forte immaginazione per essere un vero scienziato, per immaginare cose che non esistono ancora e scoprirle, per immaginare un mondo migliore di quello in cui viviamo e mettersi a lavorare per costruirlo. Io credo che le fiabe, quelle vecchie e quelle nuove, possano contribuire a educare la mente. La fiaba è il luogo di tutte le ipotesi, essa ci può dare delle chiavi per entrare nella realtà per strade nuove, può aiutare il bambino a conoscere il mondo, gli può dare delle immagini anche per criticare il mondo. Per questo credo che scrivere fiabe sia un lavoro utile33.
Questo testo – una sorta di saggio di psicologia della scienza – corrobora le nostre due modeste tesi. Gianni Rodari è uno scrittore che appartiene alla letteratura alta, meritevole di stare tra i grandi della letteratura italiana del XX secolo, anche se il suo nome non compare in alcune storie blasonate di questa letteratura. Gianni Rodari appartiene a pieno titolo ai quei grandi poeti e scrittori, espressione della vocazione più profonda della letteratura italiana, che da Dante a Galileo, da Leopardi a Calvino, hanno cucito incessantemente le fila di quell’ordito che tiene insieme la letteratura, la filosofia e la scienza.
E così come, all’inizio del XX secolo, Eliot e Wiener, Einstein e Picasso (e tanti altri), hanno interpretato le grandi rivoluzioni concettuali della scienza, Rodari come Calvino (e Levi e Gadda e tanti altri) hanno interpretato la grande rivoluzione tecnologica e sociale connessa al nuovo ruolo della scienza nella società della conoscenza.
E tutto questo accadeva proprio negli anni, nei mesi, in cui Charles Percy Snow denunciava l’avvenuta separazione tra le due culture. La verità è che il rapporto tra le diverse dimensioni dell’unica cultura umana stava sì cambiando, ma non stava affatto venendo a termine.
Le fiabe di Rodari e di Calvino sono tra i nuovi modo scelti da scienza, arte e filosofia per rinnovare il loro ménage a trois.

Frammento n. 4: Gould, Linde, Shechtman e l’arte che continua a ispirare la scienza
La scienza continua a essere fonte di ispirazione per l’arte. E anche dalle nostre parti, la «vocazione profonda della letteratura» è tuttora viva. E riconosciuta. Lo scrittore Bruno Arpaia è stato finalista nell’edizione 2011 del Premio Strega  con un romanzo, L’energia del vuoto, che non solo racconta la vita al CERN di Ginevra, ma discute criticamente e discerne tra le moderne teorie della fisica delle alte energie. Ma, d’altra parte, è possibile trovare innumerevoli esempi del flusso di idee e suggestioni che la ricerca scientifica propone e l’arte, nelle sue diverse dimensioni, rielabora.
Tuttavia per sostenere la nostra tesi – che il ménage a trois tra scienza, arte e filosofia ha caratterizzato con nuovi ma vitali equilibri anche il XX secolo – c’è forse bisogno di documentare anche il flusso inverso: le idee e le suggestioni che l’arte propone e che gli scienziati, nelle varie discipline, rielaborano.
Molti dubitano che questo flusso ci sia mai stato. Che possa mai avvenire, producendo effetti tangibili. Ma, ancora una volta, in questo libro il lettore troverà esempi del contrario. L’arte ha più volte ispirato gli scienziati. Ma – questa è la domanda – continua a farlo ancora oggi, mentre la fisica ha perso la sua Anschaulichkeit, la sua visualizzabilità, e la scienza in generale si allontana sempre più dai luoghi e dal senso comune?
La nostra risposta è sì. Non solo perché gli uomini di scienza continuano ad avere anche principi estetici che li guidano nel loro lavoro. Ma anche perché c’è ancora un flusso verificabile di idee e di suggestioni che dal dominio dell’arte raggiunge quello della scienza e genera “illuminazione”. Ancora una volta, non daremo una risposta organica. Bensì frammentaria. Ma, ancora una volta, riteniamo che i frammenti siano piuttosto significativi.
 
Linde, l’universo di Kandinsky e l’ispirazione dei fisici.
Nell’anno 2011, mentre Bruno Arpaia, con il suo romanzo che racconta le teorie quantorelativistiche  della fisica delle alte energie quasi vince il Premio Strega, giunge da Ginevra e dal Gran Sasso un annuncio che quelle teorie rischia di sconvolgerle nel profondo: il neutrino corre più veloce della luce.
«Non ci credo, è poco elegante», è la reazione a caldo di Giorgio Parisi34. Invoca dunque un principio estetico il fisico teorico italiano, tra i più accreditati al mondo, per screditare il clamoroso (e, oggi lo sappiamo, errato) risultato sperimentale. La bellezza, dunque, continua ancora oggi a essere un punto di riferimento (e potente, perché Parisi ha visto giusto) per i fisici teorici, proprio come lo era, un secolo fa o giù di lì, per Einstein o Dirac.
Ma non c’è solo la fiducia (metafisica) nel rapporto tra bellezza e verità a guidare i fisici (molti fisici) dei nostri giorni come gli artisti. L’arte continua a essere una fonte di metafore per i fisici. È quello che sostiene, per esempio, Brian Greene, un fisico teorico che si occupa della cosiddetta “teoria delle stringhe” ed è un divulgatore di grande successo:La musica è da sempre una ricca fonte di metafore per chi medita sui misteri del cosmo. Dalla “musica delle sfere” dei pitagorici all’“armonia della natura”, spesso invocata nei secoli, l’uomo ha continuato a cercare la melodia del mondo nei moti regolari dei corpi celesti come nelle violente manifestazioni del mondo subatomico. Con le superstringhe, la metafora diventa straordinariamente vera: secondo questa teoria, il mondo microscopico è pieno di piccole corde di violino, i cui modi di vibrazione orchestrano l’evoluzione del mondo35.
In realtà l’armonia cosmica e la musica delle sfere sono più di una metafora. Forse sono fonte d’ispirazione. Un pregiudizio metafisico che guida nella ricerca: proprio come lo sono state, in passato, per Pitagora o per Johannes Kepler. Secondo la teoria delle stringhe le proprietà osservate delle particelle […] non sono che un riflesso dei vari modi in cui una stringa può vibrare. È proprio come per le corde di un violino o di un pianoforte, che vibrano con caratteristiche in modo che il nostro orecchio percepisce come le note fondamentali e le rispettive armoniche superiori; le vibrazioni delle stringhe della teoria non si manifestano come note musicali, ma come particelle, la cui massa e carica sono determinate dalle oscillazioni della stringa stessa: l’elettrone è una stringa che vibra in un certo modo, il quark up in un altro, e così via. Le proprietà delle particelle, dunque, non sono una caotica massa di dati sperimentali, ma conseguenze di un unico principio fisico: sono la musica, per così dire, suonata dalle stringhe fondamentali. La stessa idea si applica alle forze: vedremo infatti che ogni particella mediatrice di forza è associata a un particolare modo di vibrazione. Quindi tutte le forze e tutta la materia sono unificate sotto la voce “oscillazione di stringhe”: sono le note che le stringhe suonano»35.
Il rapporto tra metafora e scintilla che fa scoccare “l’illuminazione” non è facile da dipanare. Il fisico di origine russa Andrei Linde ha chiamato “universo di Kandinsky”, in omaggio al pittore Wassily Kandinsky, il fondatore dell’arte astratta, il suo “multiverso”. Confrontando le coloratissime immagini computerizzate della distribuzione di energia dell’universo caotico di Linde con i coloratissimi quadri di Kandinsky, le analogie visuali non sono banali. E non è chiaro se Linde utilizzi la pittura astratta del suo connazionale come una metafora o non sia andato oltre la visione classica dell’universo ispirandosi ai quadri e ai colori di Kandinsky.
Ciò che in questa storia è bizzarro, per usare le parole di Wiener, è che, a sua volta, Wassily Kandinsky ha tratto ispirazione dagli esperimenti con cui Ernest Rutherford, nel 1909, è andato oltre la visione tradizionale, dimostrando che l’atomo non è affatto indivisibile, ma ha una sua struttura nascosta. Fu allora, riporta Gerald Holton, che Kandinsky prese atto del «collasso del modello atomico», come è scritto nei suoi appunti, e decise di andare oltre la visione tradizionale della pittura per guardare dentro la realtà37. A riprova che tra arte e scienza c’è una continua osmosi e che, attraverso la membrana della cultura, transitano temi e concetti nomadi.

Shechtman, i chimici e l’arte islamica.
La ricerca dell’armonia e il rapporto con l’arte ai nostri giorni non appartiene solo ai fisici. I chimici, per esempio, non sono da meno. Come Andrei Linde, anche Sir Harold W. Kroto and Richard E. Smalley, vincitori del Nobel nel 1996, hanno dedicato una loro scoperta, il C60, una molecola di carbonio con 60 atomi disposti in posizioni equivalenti nello spazio tridimensionale, a un artista, l’architetto Buckminster Fuller38. E, come per Linde, non è chiaro se il nome, buckminsterfullerene (oggi ridotto semplicemente a fullerene), abbia solo un valore simbolico o lo studio dei lavori dell’architetto siano stati l’innesco di un’improvvisa “illuminazione”.
In tempi molto più recenti, nel 2011, il chimico Dan Shechtman è stato insignito del premio Nobel per la scoperta dei “quasi cristalli”. Una scoperta che va oltre la visione tradizionale. Per i chimici che se ne occupano, infatti, un cristallo è un materiale solido in cui gli atomi sono impacchettati in maniera non solo ordinata, ma perfettamente simmetrica. Un cristallo è, in fin dei conti, un grande insieme di figure geometriche regolari: siano esse cubi, tetraedri o altro. Ma l’8 aprile 1982 al microscopio elettronico compare un immagine che sembra andare oltre questa “legge di natura”. Sotto i suoi occhi compare sì un materiale che si comporta come un cristallo, ma con gli atomi disposti in strutture che non si ripetono periodicamente. Strutture che il chimico ricostruisce ricordando i mosaici aperiodici dell’arte islamica, come quelli dell’Alhambra di Granada, in Spagna, o di Darb-i Imam Shrine in Iran. Il richiamo alla mente di quelle struttura artistiche provoca, appunto, l’”illuminazione”: i “quasi cristalli” hanno un ordine, aperiodico.

Gould, i biologi e l’arte italiana.
Più dei fisici, più dei chimici, sono forse i biologi quelli che hanno un rapporto più profondo con l’arte. Non ha forse Charles Darwin studiato le espressioni delle emozioni? E non aveva D’Arcy Thompson cercato l’armonia delle forme in natura? L’elenco di queste ricerche dell’armonia in biologia, anche in questi ultimi anni, sarebbe davvero lungo. Conviene, a mo’ di esempio, prestare attenzione a un solo ricercatore: Stephen Jay Gould, biologo e storico della biologia, coautore nel 1972 con Niles Eldredge della teoria degli equilibri puntuati e comunicatore estremamente prolifico. Ebbene, non c’è pagina della sterminata pubblicistica di Gould che non faccia riferimento all’arte. In particolare all’arte italiana. In particolare al Duomo di Milano e alla Basilica di San Marco a Venezia.
E non sono riferimenti eruditi. Stephen Jay Gould ha introdotto, nell’ambito del dibattito sulle forze evolutive, il concetto di “contingenza”, sostenendo esplicitamente di averlo elaborato dopo una visita alla Basilica di San Marco.
La grande cupola centrale della Cattedrale di San Marco a Venezia presenta nei suoi mosaici un’iconografia dettagliata che esprime i punti centrali della fede cristiana. Tre circoli di figure irradiano dall’immagine centrale del Cristo: angeli, discepoli e virtù. Ogni circolo è suddiviso in quadranti, anche se la cupola stessa è una struttura a simmetria radiale. Ogni quadrante incontra uno dei quattro pennacchi negli archi sotto la cupola. I pennacchi, gli spazi a forma di triangolo allungato formati dall’intersezione di due archi posti ad angolo retto, sono dei sottoprodotti architettonici necessari quando una cupola è inserita su archi tondi. Ogni timpano contiene un disegno splendidamente adattato allo spazio che si restringe. Un evangelista siede nella parte superiore accanto alle città celesti. Sotto, una figura umana che rappresenta uno dei quattro fiumi biblici (Tigri, Eufrate, Nilo e Indo) lascia cadere acqua da una brocca nello stretto spazio sotto ai suoi piedi.
Il disegno è così elaborato, armonico e finalizzato, che si sarebbe tentati di prenderlo come punto di partenza dell’analisi – la causa, si potrebbe dire – dell’architettura circostante. Questo, tuttavia, invertirebbe il senso dell’analisi: il sistema inizia con una limitazione architettonica, la presenza dei quattro pennacchi e la loro forma a triangolo rastremato. Questi hanno fornito uno spazio nel quale ha lavorato il mosaicista, e stabilito la simmetria quadripartita della cupola sovrastante40.
I quattro pennacchi di San Marco, riflette Stephen J. Gould, sono una “contingenza”: un vincolo architettonico del quale ha profittato il genio creativo del mosaicista per proporre una narrazione che sembra del tutto coerente con la struttura architettonica. I pennacchi con gli evangelisti a San Marco non sono un caso, ma neppure erano stati progettati in anticipo per quello scopo dall’architetto della Basilica veneziana. Sono una contingenza, appunto, resa felice dal mosaicista.
Anche nella storia dell’evoluzione biologica, riflette Gould, esistono “i pennacchi di San Marco”. Se un asteroide (o la coda di una cometa) non avesse colpito la Terra, circa 65 milioni di anni fa, l’estinzione e l’evoluzione direzionata dei dinosauri non ci sarebbero state e, di conseguenza, non sarebbe avvenuta neppure la rapida radiazione di forme che in poco tempo ha portato i piccoli mammiferi esistenti, qualcosa di simile a dei toporagni, a uscire dai loro ristretti spazi evolutivi e diversificarsi in una congerie di forme le più diverse, dalle cavie agli elefanti. Senza quell’asteroide non sarebbe apparso sulla Terra l’uomo. L’impatto dell’asteroide non è stato frutto del mero caso. Ma neppure era una tappa obbligata dell’evoluzione biologica. È stato, appunto, una “contingenza”, che ha cambiato direzione alla storia della vita sulla Terra.
Anche la visita di Gould a San Marco non è stata un caso. Ma neppure era prevista nella storia della biologia teorica. È stata, anch’essa, una felice contingenza che ha consentito a un geniale mosaicista della teoria dell’evoluzione di elaborare nuovi concetti e di produrre una forte accelerazione nella riflessione sulla struttura della teoria dell’evoluzione. Una felice contingenza nel ménage tra scienza, arte e filosofia.
 
Conclusioni, del tutto provvisorie.
L’insieme di frammenti che noi, maldestri mosaicisti, abbiamo messo insieme tende a delineare un quadro abbastanza chiaro. Anche nel XX secolo e in questi primi anni del XXI secolo tra scienza e arte – anzi, tra scienza, arte e filosofia, ovvero tra tutte le diverse dimensioni della cultura umana – esiste un processo incessante di osmosi. Di cui abbiamo crescente consapevolezza. È interessante notare come il processo di consapevolezza di questa osmosi abbia subito una formidabile accelerazione proprio nel periodo in cui sir Charles Percy Snow rileva la frattura tra «le due culture». È in quegli anni, infatti, che lo storico Thomas Kuhn scrive The Structure of Scientific Revolutions  e dimostra che, al contrario, non è possibile separare in modo netto la cultura umanistica da quella scientifica, perché nella storia del pensiero le due culture si sono sempre interpenetrate41. Cosicché chi analizza la storia delle «due culture» trova sempre tracce rilevanti ed evidenti dell’una nello sviluppo dell’altra.
Queste idee, sempre intorno agli anni ’60 del XX secolo, diventano piuttosto diffuse grazie, anche, ai contributi di filosofi come Paul Feyerabend e Michel Serres. Possiamo dire, dunque, che proprio negli anni della provocazione di Snow, gli storici e i filosofi della scienza iniziano a indagare il «contesto della scoperta», oltre al «contesto della giustificazione» di cui parlava Reichenbach.
Oggi chi si occupa di storia del pensiero scientifico non sembra avere più dubbi sull’esistenza di stretti rapporti tra scienza, arte e filosofia e del ruolo che essi hanno nel «contesto della scoperta». Ma alla stessa conclusione sono giunti molti storici della letteratura e, più in generale, delle arti. Gillian Beer, per esempio, ha dimostrato sia l’influenza che ha avuto su Charles Darwin la lettura delle poesie di John Milton, sia, in maniera speculare, l’importanza che hanno avuto gli scritti di Darwin (in particolare L’origine delle specie) sull’opera letteraria di George Eliot o di Thomas Hardy 42. Ma questo, ancora una volta, non è che un esempio della reciproca influenza tra arte e scienza. Un piccolo frammento. Ne potremmo aggiungere infiniti altri.
Ma è ora, appunto, di giungere alle conclusioni, ancorché provvisorie. In sintesi, possiamo dire, con Katherine Hayles, che i rapporti tra scienza e arte si dipanano lungo tre fili43. C’è il filo della retorica, con mutuo scambio di registri comunicativi. C’è il filo dei concetti, con il reciproco scambio di temi, metafore e analogie. C’è quello del passaggio, quasi sempre carsico, delle idee feconde e degli strumenti epistemologici che muovono, incessantemente, dall’una all’altra e che ordiscono la matrice culturale in cui si muove ciascuno di noi: è quello che Eugenio Montale definiva «l’oscuro pellegrinaggio nella coscienza e nella memoria degli uomini»44.
Gerald Holton ha chiamato themata gli oggetti di questo pellegrinaggio oscuro e irrisolvibile (15). Si tratta delle grandi idee filosofiche – pregiudizi metafisici, li chiamava Einstein – come a esempio il tema del realismo o dell’unità della fisica o della natura dello spazio e del tempo, o di grandi dicotomie filosofiche, come quella tra continuità e discontinuità, tra tempo ciclico e tempo lineare, che guidano il percorso di ricerca sia di molti artisti sia di molti scienziati, determinando lo sviluppo delle stesse teorie scientifiche dalla fase di “protoscienza” fino a quella di scienza conclamata.
I themata rilevanti nella storia della fisica, sostiene Holton, non sono più di un centinaio. E ritornano continuamente nel corso della storia culturale da quasi tre millenni, attraversando osmoticamente anche lo spazio tra arte e scienza (e filosofia). Holton sostiene, probabilmente a ragione, che lo scambio di questi strumenti epistemologici tra scienza e arte (e filosofia) contribuisce a quel complesso e radicale ri-orientamento metaforico che nella scienza, nell’arte, nella filosofia – insomma, nella cultura dell’uomo – produce periodici «cambi di paradigma».
È questa osmosi che spiega perché, come rilevava Wiener: «Non è un accidente che il periodo delle bizzarre teorie fisiche di Einstein sia anche il periodo della musica bizzarra, dell’architettura bizzarra, della letteratura bizzarra e di un teatro bizzarro»7. È questa osmosi che continuamente rinnova la concordia tra arte e scienza, lima il pensiero e crea quella che Leonardo Sinisgalli chiama l’armonia del sapere.


Note

1 Leonardo Sinisgalli, Le mie stagioni milanesi, Civiltà delle macchine, n. 5, 1955.
2 Silvano Tagliagambe, Sinisgalli e la “violazione dei confini”, in: Sebastiano Martelli e Franco Vitelli (a cura di), Il guscio della chiocciola. Studi su Leonardo Sinisgalli, vol. 1, Edisud Salerno, Salerno, 2012.
3Charles Percy Snow, The two cultures and the scientific revolution, Cambridge University Press, Cambridge 1959.
4 Primo Levi, Opere, Einaudi, Torino, 1997.
5 Leone Montagnini, Le armonie del disordine, Istituto Veneto di Scienze, lettere e arte, Venezia, 2005.
6Norbert Wiener, On the nature of mathematical thinking, Australian Journal of Psychology and Philosophy, n. 1, 268-272, 1923.
7Norbert Wiener, Mathematics and art. Fundamental identities in the emotional aspects of each, Technology Review, n. 32, 403-404, 1929.
8 Italo Calvino, Philosophy and Literature, The Times Literary Supplement, 871.872, 28 settembre 1967.
9 Erwin Panofsky, Galileo as a Critic of the Arts: Aesthetic Attitude and Scientific Thought, Isis, XLVII, 1, 3-15, 1956.
10 Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti alla session plenaria della Pontificia Accademia delle Scienze, Sito internet della santa Sede, 31 ottobre 1992.
11 Norbert Wiener, Æsthetics, Encyclopedia Americana, ed. 1918-1920, n. 1, 198-203, 1918.
12 Norbert Wiener, Relativism, Journal of philosophy, psychology and scientific method, n. 11, 561-577, 1914.
13 Eliot a Wiener, 6 gennaio 1915, in: Norbert Wiener, Collected works, The MIT Press, vol. 4, 1976-1985; citato da Leone Montagnini.
14 Arthur Miller, Einstein, Picasso: Space, Time and the Beauty That Causes Havoc, Perseus Books, 2001.
15 Gerald Holton, Thematic Origins of Scientific Thought: Kepler to Einstein, Harvard University Press, 1973.
16 Jacques Hadamard, Psicologia dell’invenzione in campo matematico, Raffaello Cortina, 1993.
17 Godfrey Harold Hardy, Mathematician’s apology, Cambridge University Press, 1941.
18 Morris Kline, Mathematics. The Loss of Certainty, Oxford University Press, 1980.
19 Abraham Pais, Sottile è il Signore …, Bollati Boringhieri, 1986.
20 Mario de Micheli, Le avanguardie artistiche del Novecento, Feltrinelli, 2002.
21 Arthur Miller, Imagery in Scientific Thought: Creating 20th-Century Physics, Birkhauser, 1984.
22Arthur Miller, Insights of genius. Imagery and creativity in science and art, Copernicus, 1996.
23 Pietro Greco, Einstein, Alpha Test, 2004.
24 Ciara Muldoon, Did Picasso know about Einstein?, Physics World, 1 novembre 2002.
25 Henri Poincarè, La science et l’hypothèse, Flammarion, 1902.
26 Esprit Jouffret, Traité élémentaire de géométrie à quatre dimensions, Gauthier-Villars, 1903.
27 Pietro Greco, L’universo a dondolo, Springer Italia, 2010.
28 Gianni Rodari, Storia delle mie storie, Il Pioniere dell’Unità, 4 marzo 1965.
29 Italo Calvino, La tribù con gli occhi al cielo, in: Prima che tu dica «Pronto», Mondadori, 2010.
30 Gianni Rodari, Il pianeta degli alberi di Natale, Einaudi, 1962.
31 Pietro Greco e Vittorio Silvestrini, La risorsa infinita, Editori Riuniti, 2010.
32 Gianni Rodari, La grammatica della fantasia, Einaudi, 1973.
33 Gianni Rodari, Discorso di Gianni Rodari alla premiazione H. C. Andersen, 1973
34 Giorgio Parisi, Intervista concessa a Eleonora Martini, Il Messaggero, 24 settembre 2011.
35 Brian Greene, L’universo elegante, Einaudi, 2000.
36 Andrei Linde, Un universo inflazionario che si autoriproduce, Le Scienza, n. 317, gennaio 1995.
37 Gerald Holton, Scientific Imagination, Harvard University Press, 1998.
38 Kroto et al., C60: Buckminsterfullerene; Nature, 318, 162-63, 14 novembre 1985.
39 Nobelprize.org, The Nobel Prize in Chemistry 2011. Dan Shechtman, Press release, 5 ottobre 2011,  
40 Stephen J. Gould e Richard C, Lewontin, The spandrels of San Marco and the Panglossian paradigm: a critique of the adaptationist programme, Proceeeding of The Royal Society, 205, 581-598, 1979; edizione italiana, I pennacchi di San Marco e il paradigma di Pangloss, Einaudi, 2001,
41 Thomas Kuhn, The Structure of Scientific Revolutions, University of Chicago Press, 1962.
42 Gillian Beer, Darwin’s Plot, Cambridge University Press, 2000.
43 Katherine Hayles, Literature and Science, in: Martin Coyle et al., Encyclopedia of Literature and Criticism, Routledge, 1991.
44 Eugenio Montale, Le Occasioni, Mondadori, 1949.

21 Settembre 2016

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