Una lirica di Sinisgalli. Stradivari
di Leonardo Sinisgalli
in Domus
n. 83, novembre 1934
Aveva i polpastrelli delle dita più lisci del pelo della talpa, la membrana degli odori più delicata delle tele dei ragni, la lingua di cicala. Saggiava i legni e ne assaporava l'umore, la linfa, i veleni come gli schiavi mongoli macinatori di cannella e il vischio parassito che s'aggruma sulle carni più odorose dei vegetali: dall'aroma, dalla morbidezza egli indovinava i segreti musicali d'ogni fibra.
Così Volta sentiva sulla punta della lingua i tremori dei sottilissimi fili di corrente che si sprigionano dalle lamine metalliche a contatto nei bagni acidi, l'uno e l'altro hanno visto nelle vibrazioni e nella musica i vapori diffusi dal sonno della materia, un polverìo di corpuscoli, di idoli: ogni fenomeno si presentava a loro nella sola sua essenza fisica, naturale. Essi supplivano d'istinto la sensibilità di piccoli, infernali meccanismi. Stradivari ci appare un genio ancora più ingenuo e primitivo, in un certo senso più angelico. Egli doveva avere orrore di questo universo chiuso in un'armonica, che gli cagionava sussulti e spaventi per ogni impercettibile alito. La pioggia doveva dargli fastidio e la neve gli doveva portare sollievo tant'è leggera e cauta. La sua stanza a parete d'aria, foderata di sughero e di piuma era la prigione dei rumori; vi si muoveva dentro come un mago a passi di lupo, affogati: qualche volta estatico, in ascolto, rarefatto in un'atmosfera sospesa di campana.
Fece recidere la gola a tutti gli alberi del giardino, per non sentirne i lamenti, gli parevano forse più native le note ch'egli riusciva a estrarre dalle fibre dei legni muti, amputati, certo senza respiro più, senz'anima forse. Il mare nelle conchiglie, la cenere nelle clessidre, gli echi nei muri erano i tarli che gli rodevano le ossa.
La notte si aprivano i misteri e le stregonerie. Portava al fuoco i legni ancora verdi ed umidi: la linfa cominciava a friggere e a sibilare, la scorza si gonfiava sulla polpa come la buccia di un frutto. Egli traduceva in pianti amari e pietosi le querele dei filtri bruciati, l'acqua che il legno spremeva dal cuore gonfio e marcio. Li lasciava disseccare nei neri camini. Li affumicava.
I legni maturavano e ritrovavano al buio la vera voce che al fuoco avevano perduta, stregati dal rosso. Indovinava per ogni colore della fiamma, dal ciliegio al paglierino, in che annegava le canne, l'accordo che avrebbe potuto aspettarsi al risveglio, i legni erano tenuti lontano dal contatto, avvolti entro strisce di garza imbevute di miscele misteriose.
Con questi medicinali egli operava la guarigione dei legni malati, corrosi dai bruchi e dai grumi gommosi che avevano assorbiti dalla terra. Sottoposti ai chimismi più bizzarri i vecchi legni riprendevano le voci dei fusti giovinetti, limpide e leggere nelle gole rauche e peccaminose.
Stradivari scopre la musica con la lingua e l'odorato. La modula al tatto. Sente sotto il palmo della mano la sinuosità, le gobbe, i flessi sulla pelle imporosa dei suoi liuti, vi nasconde i timbri e le risonanze, le tinte inferiori più indefinite dei suoni. Un violino nelle sue mani stava come la statua di un angelo adolescente: egli doveva vederlo volta a volta come un'anfora, una gazzella, una palma.
Tese le corde disponeva uno strato sottilissimo di granelli di sabbia su una lastra quadrata di cristallo; poi strisciava l'archetto col ronzio che hanno le corde (code?) dei topi sui vetri dei soffitti: per ogni nota, per ogni modulazione, la polvere, prima uniformemente diffusa, apriva dei solchi lucidi e si raccoglieva in arabeschi e geroglifici. Dalla perfezione delle curve che il dito invisibile d'un folletto segnava sugli specchi appannati dei geli notturni egli traeva un oracolo di melodia.
Nella mia infanzia ho sempre avuto orrore degli strumenti musicali, come di animali mostruosi. Nei miei sogni di bambino i clarinetti diventavano serpentelli; sulla pelle del tamburo io vedevo gli occhi del bue ucciso che mugghiava. Una notte che al buio, tentoni, strinsi nelle mani le corde di due arpe allacciate in un angolo, mi sembrò d'aver toccato la membrana umida di grossi uccelli in amore. Io corsi dalla nonna a purificarmi le mani nell'acqua santiera in cui essa conservava le sanguisughe per le sue alchimie.
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