La corte dei vecchioni
Per trenta o quarant'anni il paese ha temuto i cavilli di Don Nicola Pascarella. Non soltanto la gente minuta cercava di accattivarselo con ossequi, panieri e piccioni, ma i nobili stessi, le autorità, i magistrati. Don Nicola non sapeva una parola di latino e riusciva ad averla vinta, davanti al giudice, contro le aquile del Foro mandamentale: l'avvocato Nubila, l'avvocato Padula, l'avvocato Marone. Questi tre illustri personaggi in gioventù avevano affinato la loro eloquenza a Trani, a Rionero, a Melfi. Nelle loro case c'erano pareti piene di codici e ritratti di antenati in toga e tòcco. C'erano i libri di Montesquieu tradotti in volgare con la prefazione dell'Abate Antonio Genovesi, e le opere di Mario Pagano e le arringhe di Vincenzo Lo Monaco.
Da bambino presi gusto anch'io a quelle diatribe. L'aula sacra alle Bilance era un piccolo vano, tinto a calce e coperto di una bella volta a crociera, dell'antico palazzo Motta. La Pretura occupava poche stanze, e dai balconi, in mezzo alle dispute più fervorose, entravano saltellando sugli scranni della Corte i colombi di Mastro Andrea Saladino, il calzolaio che batteva la suola dirimpetto. Si sentivano grugnire i porci delle stalle al pianterreno, ragliare gli asini. Si sentiva stridere la sega e raschiare la pianozza del buon Beppe, il centenario Mastro d'ascia. I giudici del nostro mandamento erano quasi tutti ragazzi, poco più che ventenni, al principio della carriera. Certo si trovavano a disagio nel risolvere le difficilissime quisquilie locali. Che peso poteva avere la loro cultura paragonata agli astuti raggiri di quella vecchia volpe che era Don Nicola Pascarella? Don Nicola parlava il linguaggio di Esopo, anche se non aveva letto mai una favola, adoperava paragoni e motti che gli venivano dalla sua pratica agricola e dal suo gusto per il tavolo da giuoco, per le risse in cantina, dalla sua profonda conoscenza delle regole di Chitarrella (l'immortale trattatista in versi maccheronici della Scopa, del Tressette, del Terziglio) e dei proverbi italioti.
Con una battuta salace in dialetto orfico-armentese (perché egli era nato a Armento) buttava giù tutto l'edificio che l'avvocato Nubila o l'avvocato Marone o l'avvocato Padula avevano pazientemente appuntellato, con citazioni da Orazio, da Pietro Paolo Parzanese e da Nicola Sole, a spregio di un terribile ladro di galline.
Don Nicola era il difensore dei poveri diavoli. I poveri diavoli del nostro mandamento erano sorpresi nel mese di giugno dai carabinieri a rubare un paniere di ciliegie nella vigna dei Robilotta, o a caricare una soma di legna, di ottobre, nel bosco dei Ragona, o a strappare una pollastra dal pollaio dei Rotundo. "Signor Giudice", gridava in dialetto Don Nicola "c'è bisogno di buttare addosso a questi straccioni tante metafore? Dove c'è scienza c'è clemenza." E l'aveva vinta. A noi ragazzi piacevano quei dibattiti. Ci piaceva quella Corte di vecchioni: mio nonno, il nonno di Leonardo Mazzilli, il nonno di Domenico Angerami, il nonno di Rocco Friguglietti, tutti compagni di scuola. Qualcosa come un tribunale biblico, il Tribunale di Mosè o di Salomone, qualcosa come un Tribunale da campo, il Tribunale di Pirro o di Annibale, qualcosa come un Tribunale di Curia, il Tribunale di Sant'Ignazio o di San Roberto Bellarmino, qualcosa come un Consulto popolare e familiare: il giudice giovinetto stava lì in mezzo, trepido a pesare le colpe, le attenuanti, le premeditazioni, le inclinazioni dei poveri diavoli. Mio nonno era un semplice conciatore di pelli, aveva le mani grosse rosicate, dal tannino, non possedeva la sapienza di Salomone; il nonno di Leonardo Mazzilli era il più anziano conoscitore di olii e di sanze della valle, trappetaro principe, e non un santo come Ignazio e Roberto; il nonno di Domenico Angerami, soprannominato Magarone, ossia gran fattucchiere, sapeva guarire la gotta con i fiori neri del sambuco; il nonno di Friguglietti era mercante di porci e nessuno meglio di lui poteva pesare a occhio un animale, poteva dire quante ossa, quanto lardo, quanta salsiccia c'era in una scrofa. Questi erano i canuti Tribuni della Corte, i legulei nati, i conciliatori per istinto.
Non avevano letto i Filangieri o i Rousseau, ma avevano tanto senno quanto gli Apostoli e gli Evangelisti. La lingua di San Matteo, la lingua di San Luca, la lingua di San Pietro non era forse nata dalla pratica delle gabelle, delle reti da pesca, delle forbici per la potatura delle vigne?
Quando Don Nicola attaccava brighe nel suo dialetto osco-orfico-armentese non c'era autorità di magistrato capace di pigliarlo in trappola. Don Nicola s'era fatta una sua filosofia, una sua metafisica che io chiamo la metafisica del malrimedio. Si era convinto a furia di giuocare a carte, di far la posta alle lepri, di frequentare molinari e sediari, mercanti e maghi, e per la conoscenza che egli aveva delle genealogie dei cani e dei cavalli, per i molti innesti tentati e falliti, tentati e riusciti, per l'esatta contabilità che egli portava delle fasi di luna, s'era convinto che quasi sempre il rimedio è peggiore del male. Tra la verità e la menzogna egli vedeva una divisione netta come tra luce e ombra nei nostri paesi africani. Alto, magro, scuro di pelle, buona forchetta e bevitore eccellente, Don Nicola strappava la sua parcella per un paniere di fichi, un canestro di funghi, un cappone spennato. Chiedeva ai giudici di conservare la pipa accesa durante l'udienza. Si scusava con gli illustri avversari se, accatarrato, teneva il cappello in testa.
Non visse né meglio né peggio di qualunque altro artigiano. Da una ragazza di campagna ebbe numerosissima prole e, tante volte come a Noè, i figli dovettero coprire con lo scialle le vergogne, se tornava ubriaco e si buttava nudo sul letto. Camminavano scalzi i figli nel solleone, davanti casa, per non fare entrare cani e galline quando Don Nicola stendeva le sue comparse.
(1946)
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