Le Pleiadi
La luna nasce là dietro in Capo alle Vigne quando notte e giorno armoniosamente si bilanciano. S'alza colma e rossa e tanto massiccia ch'io tutte le volte, sorpreso, chiamo fratello e sorella sul terrazzo: "Che meraviglia, guardate!". Dopo cena torniamo con le bambine e con mio padre a mirare la luna, ma ha già mutato colore e s'è impicciolita nei miei occhi. Non sapevo che proprio lì, a picco sul Sasso della Tufara, tra Oriente e Settentrione, tra la cima boscosa del Pallareto e i cipressi del Camposanto, ma molto più vicino alla porta della luna che a quella del Sole, avessero il loro nido le Pleiadi. La scoperta non l'ho fatta da solo. Ma sono stato io il primo a gridare l'altra notte quando Elena ci ha chiamati a mangiare l'uva nel suo giardino.
"C'è la màlaga e c'è il moscato, l'uva nera e l'uva bianca. Non abbiate paura, non vi guasterà i sogni!" Dicono che l'uva bianca colta in sogno sia apportatrice di lacrime. "Siamo in tanti", ho detto a Elena che faceva la siesta al buio sotto la pergola e aveva udito le nostre voci. Quella sera non c'era la luna, e nessuno di noi, neppure i più abili, riuscivano a palpare un grappolo nell'intrico dei pampini e delle foglie.
"Vado a prendere la lanterna" disse Elena, e tornò subito dopo, illuminò la pergola dal disotto. "Tu, Leonardo, reggi il lume!" Salì sopra una sedia armata di forbici e riempì un paniere di uva freschissima. "A quest'ora è deliziosa" disse qualcuna delle nostre amiche. "Andiamo a mangiarla sul ponte " propose un'altra. Uscimmo dal cancello. "I cani dormono?" "Non abbiate paura. Riconoscono la padrona."
Ci sedemmo in fila sulla spalletta del ponte. Elena distribuì un grappolo d'uva bianca e un grappolo d'uva nera per ciascuno. Il cielo era chiaro e le risa e le voci dei miei giovani amici erano risa e voci felici. Si passavano l'uno con l'altro gli acini più grossi, si passavano le braccia al collo, si stringevano amorosamente i fianchi. Nessuno pensava che sopra le nostre teste quella notte splendeva un cielo così fervido. Sulle pietre vive, all'altro estremo della spalletta, i boscaioli arrotavano le scuri.
"Mi fanno compagnia tutte le notti", disse Elena. "Partono a squadre per la Tufara, per il Pallareto, e affilano qui i loro arnesi. In poco più di dieci giorni hanno abbattuto le matrici di migliaia di castagni." Volgemmo gli occhi intorno sulle colline e scoprimmo molte vampe rosse sparse qua e là. " I carbonai vivono sulle montagne in piccole tribù. " Evocavano i primi nuclei delle popolazioni osche che stanarono i lupi dalle nostre selve. A diversa altezza quei fuochi si stagliavano lungo il corso dell'Agri. La furia devastatrice dei mercanti cittadini avrebbe tosato in meno di un anno quella irsuta criniera, così netta sul vetusto viola delle sere. La mia tristezza di indigeno non contagiava i ragazzi che giocavano, a gara, per scoprire i fuochi all'orizzonte.
E fu allora che, per caso, trovandomi a guardare cielo e terra con grande intensità, come se li vedessi per i'ultima volta, guardando avidamente il Sasso della Tufara, " le Pleiadi! " esclamai. Erano appese nell'aria serena a pochi palmi dalla macchia scura dei boschi. Io mi esiliai così dalla cara brigata. Poi quando la comitiva si sciolse, da cima a fondo percorsi le strade del borgo, dai ruderi del Carmine alle stalle di Gannàno.
Che cosa sapevano di me quei ragazzi? Pure mi consolava il cuore quella loro ressa di premure, quel loro gaudioso uccellare intorno a me. Essi giocavano con me come giocano i passeri con lo Spauracchio. Chi piglia più sul serio gli spauracchi e i poeti? Neppure i negri bambini del mio paese credono più al Papparom, vale a dire ai fantasmi. Ma un legame misterioso e profondo li teneva stretti a me: un incantesimo, un'attrazione, una paura, quale si stabilisce tra il Serpente e gli uccelli, ma più tra l'Uomo e i fanciulli Come nei nostri antichi riti fallici, essi, gli adolescenti, si avvicinavano a me con la fiaccola piegata nella mano, il sesso sigillato. Io ero colui che alzava nella mano lo scettro fiorito. E li avrei indotti a riconoscersi,a scoprirsi. Conoscevo io la sorgente capace di spegnere l'ardore della loro avida sete. Eravamo stati al fiume tante volte.
Li avevo guardati ridere e bere in mezzo alle spume delle cascate alla Falvella. Li avevo visti correre ignudi tra i pampini delle vigne, riverse nell'Agri. Non erano quelle le rosse figure d'amore, risorte proprio in quei giorni, le rosse figure danzanti intorno al vaso che la vanga di un contadino aveva spaccato a metà e dissepolto da uno dei tanti cimiteri orfici che gremiscono il suolo della valle? Io me ne stavo seduto sulla riva, all'ombra delle viti, l'addome peloso, le zampe caprine, la miserabile corona di foglie sul capo bigio.
Quando rientrai in casa, la notte, una delle ultime notti di estate, alla vigilia del mio ritorno in città, prima di buttarmi sul letto cercai le Pleiadi dalla mia finestra. Dovevano stare lì a picco sul Sasso della Tufara, dalla patte del cielo dove avevo visto nascere sempre la luna piena. Ma pareva che un varco nuovissimo si fosse aperto al mio sogno quella sera: le Pleiadi, le sette nuove stelle amiche, così vaghe sul mio vecchio cielo.
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