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Dormire a Potenza

La corriera saliva sugli altipiani: ai lati della rotabile i pascoli erano macchiati di neve che rinvigoriva a tratti l'erba verdissima delle colline. Si fermava ad ogni borgata e perfino davanti alle Case Cantoniere per caricare i sacchetti di posta o i canestri di pulcini. Era una gran fortuna l'aver ripristinato quel servizio per il Capoluogo, dicevano i passeggeri, i sindaci dei paesi che andavano a colloquio dal Prefetto, i curati che si recavano dal Vescovo, i negozianti, i sensali, i soldati.

Vicino a noi capitarono due vecchi contadini, moglie e marito, che erano saliti al bivio di Marsico Vetere. La donna portava due bottoni neri appuntati ai lobi delle orecchie, l'uomo aveva una lunga mazza nella mano; era completamente sdentato, e quando salì in vettura si tolse il cappello e scoprì una capigliatura nerissima. La donna aveva la testa avvolta in un panno nero, la persona magra e dritta, i lineamenti fieri. Da Marsico Vetere a Potenza quella funebre coppia raccolse il compianto di tutta la gente curiosa che fa ressa nelle piazze intorno ai viaggiatori. "Vanno a prendere'un morto" disse qualcuno; "vanno a raccogliere i panni di un condannato." Ma il bambino ci distrasse da quei due. Volle tutte le nostre cure per lui. Cacciammo fuori i biscotti e le pere. Cominciò a chiederci il nome di quegli alberi grandi. "Sono abeti" risposi io. "L'abete regge la neve meglio del pino e della quercia" dissi alla madre.

Guardavamo in lontananza, sui declivi delle montagne, le chiazze scure delle querce e le macchie bianche degli abeti. Talvolta la vettura passava dentro iboschi, slittava sulle foglie putride. "Abbiamo scelto una brutta stagione per tornare " dissi alla madre. "Potevamo aspettare l'anno nuovo, portarci appresso le gemme dei nostri salici" aggiunsi. "Anche il bambino si sarebbe divertito a veder scannare i maiali." Né la madre, né il bimbo forse, in quella nostra casa luttuosa, fra gente così diversa da loro, erano riusciti ad assuefarsi. Finirono naturalmente per restar soli nella stanzetta che era stata preparata dentro la grande casa vuota dello zio. Non c'è dubbio che i sei mesi laggiù furono vissuti dai nostri due ospiti come in un carcere.

Io stesso difficilmente lasciavo la mia camera per visitarli. A persiane chiuse, per tutta la lunga estate, madre e figlio dormirono fino al crepuscolo. Venivano in casa nostra, sedevano a tavola con noi, ma sparivano quasi subito a chiudersi dentro la loro cella. Soltanto in autunno, con l'accorciarsi delle giornate, noi sentivamo bussare al portone, dopo i trentatré colpi del Vespro. Erano loro due che ci portavano la buona sera.

Nella grande cucina, rischiarata dalle prime vibranti fiamme della legna accatastata in cantina, che mio padre e mia sorella portavano su a bracciate, finimmo col sentirci tutti un po' meno estranei. Il bambino, a imitazione delle mie nipoti, cominciò a chiamarmi anche lui "zio Leonardo". E perfino sua madre prese gusto ai piccoli lavori d'ago e di uncinetto. Seduti in semicerchio attorno al fuoco aspettavamo così l'ora di cena quelle lunghe sere di autunno: io e mio fratello tiravamo fuori i libri riposti nelle nicchie del camino, le donne sferruzzavano, i bambini giuocavano accanto alla sedia del nonno.

Spesso io mi portavo il braciere nella stanza che era in fondo alla casa. Ogni tanto sentivo sbattere la mia porta. Ma nessuno veniva da me. Sapevo che quello strano fenomeno, dovuto alla corrente d'aria che percorreva le camere una dopo l'altra, si ripeteva tutte le volte che qualcuno dalla strada apriva il portone di casa. "È lo Zio" dicevo, "lo Zio viene a far compagnia alla Signora." Lo Zio aveva messo a disposizione dei nostri ospiti l'unico vano ammobiliato della sua casa nuova, e aveva fatto trasportare il suo lettino in un ripostiglio del palazzetto. Lo Zio dimostrò molta simpatia per la forestiera e per suo figlio. Dopo cena veniva a prenderli, e, col bambino in braccio e la lanterna in mano, li accompagnava a dormire. Anche mio padre, riempiva d'acqua il suo bicchiere e si ritirava in camera sua. Dopo alcuni colpi di tosse prendeva sonno. Le bambine di mia sorella dormivano nella stanza vicina.

Sul tardi, sbrigate le sue faccende, arrivava a casa nostra l'altra mia sorella che s'era annunciata battendo di fuori coi polpastrelli ai vetri della cucina. Chiudevo il libro e mi mettevo a parlare con loro. "Se fosse stata viva nostra madre" dicevano una sera, "non ti sarebbe venuto in mente di arrivare al paese con quella donna." "Almeno il bambino fosse stato tuo figlio " aggiunsero. "Io le devo tutto" risposi. "La Signora è riuscita a togliermi dalle mani degli sbirri. Poco ci mancò che lei stessa non ci rimettesse la vita. La ubriacarono, la violentarono, le fecero persino fumare una sigaretta preparata per farla parlare, ma non ne cavarono nulla." "Ci ha confessato di essere molto infelice con te. Tu la lasci sola. Non sopporti la sua compagnia. Ha detto che se potesse fuggire non ci ripenserebbe un istante."

Certo io ero preso da altri pensieri vivendo laggiù nella mia camera di ragazzo. Dovettero accadere dentro di me, tornando a vivere tra quelle quattro mura, come avveniva ininterrottamente da secoli in quel terreno di argille e di calcare, delle frane silenziose, delle inavvertibili cadute della coscienza. Ero arrivato al paese indebolito nel sangue, con i nervi fiacchi; mi portavo sulle spalle gli anni di attesa e di sconforto di quella guerra perduta, e le ginocchia secche, la testa spelacchiata. Forse fui messo per la prima volta di fronte alla mia sorte, intravidi anche che la mia strada era breve e tortuosa, sentivo come un terribile lezzo la vita da vivere ancora. Per questo finii col respingere col rischio di perderla, l'unica persona pietosa che mi era vissuta intorno. Si fece tardi accanto al fuoco. Mia sorella cominciò a coprirlo con la cenere. Io presi la lanterna in mano e la accompagnai in cima al paese. L'aria era tiepida.

"Avremo una nevicata molto presto quest'anno. Bisognerà che vi decidiate a partire. Altrimenti resterete qui fino a primavera" disse mia sorella. "Non sapremmo neppure come coprirci. Eravamo partiti pensando di trattenerci fino a settembre; ora è trascorso quasi mezz'anno. L'inverno è arrivato di colpo." Diedi la buona notte a mia sorella. Spensi la lanterna.

Mi piaceva camminare al buio, camminare a memoria tra i muri della mia tribù. Ma mi ero distratto. Ero andato troppo oltre nella discesa, ero passato tra le nostre due case senza accorgermene. Fiottava una luce leggera da una persiana della casa dello zio appena sollevata sulla strada. Lì mi fermai. In punta di piedi non potei veder nulla. "Leggerà", pensai "o starà preparando la valigia."

A Potenza, noi tre, riuscimmo a trovare a stento una cameretta per deporvi i nostri bagagli pesantissimi. I parenti ci fecero portare roba da bastarci per un anno: farina, ceci, strutto. Per tre o quattro giorni non ci muovemmo da quella camera, in attesa di un mezzo di fortuna che ci caricasse fino a Napoli. Quella condizione di profughi, lassù in quella gelida stanza sopra le montagne, riscaldò il nostro affetto. Il pane spezzato sul letto, le macchie di vino cadute sui cuscini, un po' di sale sparso sulle lenzuola, la cenere delle sigarette, e il bambino che non era mai stato tanto felice, eccitato dal viaggio che pareva non dovesse aver fine e dalla neve che si ammassava sulle cime di sotto: tutto questo contribuì a ridarci un po' di speranza. Sapevamo, tornando in città, di andare dentro il caos; ma non ci pareva più pericoloso di quelle raffiche di neve che a tratti ci cancellavano il paesaggio. Dicevo per celia: "Sembra un viaggio di nozze ritardato". "Tu dovresti stare sempre in movimento. Hai un così buon umore, in questi giorni. Non ci dovremmo fermare mai, se ti fermi, tu metti i vermi", mi diceva lei. Dormire a Potenza, sopra i mille metri, con i piedi sulle montagne, con la testa nelle nuvole, una donna che ti fa compagnia, un bambino che ti si aggrappa alle spalle.

Passammo due o tre notti felici. E una mattina al buio salimmo sopra un camion. Una gran folla si era radunata nella piazza. Avevano acceso delle torce, alcuni, e a gruppi si muovevano verso la città bassa. Il camion riuscì a farsi strada. Percorremmo circa un chilometro finché di nuovo ci fu sbarrato il cammino dalla gente che si accalcava sopra i terrapieni. Restammo lì, sotto l'incerata, più di un'ora. I passeggeri ripresero a dormire. Le guardie parlottavano con l'autista. Anche il bambino fu raccolto in una coperta militare. Ma fu svegliato, appena si fece giorno, da. una raffica di colpi secchi, seguita subito dopo dall'urlo lungo della folla.

(1946)

09 Dicembre 2011

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