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Il piccione

Da Sant'Arcangelo e da Grumentum arrivavano in paese i rifornimenti delle primizie, arance, pesche, finocchi, per la strada del Carmine, a monte; peperoni, cappucci, fagiolini, per la Verdesca, a valle. Si faceva il baratto con le patate e le castagne. I peperoni di Gallicchio, più amari e più gustosi della pàprica, si friggevano in padella fino a gennaio, o s'imbottivano e s'arrostivano sulle pietre dei forni. Mia madre conosceva dieci maniere di cucinare i peperoni. Mio padre ne era ghiottissimo. Partiva per la campagna con due enormi fette di pane nella bisaccia e un piatto di peperoni.

Quando nacque mio fratello, ultimo di dieci figli tra vivi e morti, mio padre aveva varcato la cinquantina. "La colpa è dei peperoni", gli diceva celiando mia nonna. Del resto il filosofo di Montemurro, Giuseppe Capocasale, autore del Codice Eterno, precettore del Principe Ereditario del Regno delle Due Sicilie, aveva abituato il suo pupillo Ferdinando a far colazione con un pezzo di focaccia fresca e un peperone crudo condito con olio e sale. Petruccelli della Gattina e Giustino Fortunato preferivano alla maionese la salsa di peperoni pestati.

Da Sant'Arcangelo arrivavano per la strada del Carmine i muli carichi di frutta, e da Grumentum gli asini coi cofani di pomodori e il sacco di peperoni messo di traverso sul basto. I mulattieri di Sant'Arcangelo erano piccoli e malarici, poveri saraceni che le zanzare millenarie avevano ridotti pelle e ossa. Gli asini di Grumentum erano invece trascinati per la cavezza dalle femmine monumentali di quel mandamento, rosse donne normanne o sveve che mettevano lo scompiglio tra le meschine massaie arabe del mio paese. Perché il diavolo, le mamme di Montemurro, sanno veramente che cos'è, e lo chiamano piccione, che in dialetto ha un suono molto cupo. Per vedere il piccione i ragazzi della Valle dell'Agri hanno inventato mille stratagemmi. E non solo i ragazzi. Molti aspetti della civiltà del Retroterra non si spiegherebbero se non si tenesse conto di questa cara ossessione: le sedie altissime, le balconate sporgenti a pochi metri da terra, e il rito, più di tutti veramente propiziatorio, della raccolta delle ulive.

Molti poeti hanno cantato la mietitura e la vendemmia, ma è una mitologia ornamentale e falsa. Il diavolo non si nasconde in mezzo ai tralci o tra le spighe: il diavolo è li, sugli ulivi, ai primi freddi invernali. Il diavolo è il piccione, il caldo piccione delle donne che colgono l'uliva nera e l'uliva bianca sugli alberi storti delle mie contrade. Come ridono e come gridano le donne sugli antichi alberi delle ulivete in collina! Ridono e strillano cogliendo le ulive nere e le ulive bianche dai rami più alti che avvicinano con gli uncini.

Poi tacciono di colpo, perché hanno visto un ragazzo che dietro la siepe le guarda di sotto. È difficile che una donna riesca a nascondere il piccione quando sta divaricata sopra un albero a cogliere le ulive. Il ragazzo guarda incantato. E sapete quello che è accaduto una volta? Improvvisamente dall'albero uno spruzzo tiepido è piovuto in faccia al ragazzo. Ma non capita solo ai ragazzi, capita agli adulti e ai preti, che girano vestiti da cacciatori per le campagne al tempo della raccolta delle ulive. Non vanno a caccia di tordi, vanno in giro per le campagne a vedere il piccione. Non tutti i preti a Montemurro vanno a caccia di tordi. Don Giuseppe Sinisgalli, tornato dal Brasile, ha preferito allevare pulcini nel suo orto. Il piccione sull'albero si guarda e non si tocca: meglio in casa una chioccia, e la chioccia gli alleva un pulcino all'anno. Don Giuseppe, felice anche lui come la sua chioccia, va ripetendo in giro per le stanze: "Roque, Roque, Ro..., Roque di Montpellier!", Don Giuseppe non chiama Rocco, il Santo protettore del mio paese, lo chiama Roque, per via della sua permanenza tra i brasiliani.

Perché hanno scelto un cittadino di Montpellier a protettore della mia tribù non l'ho mai capito. Con tanti bei Santi nostrani, Sant'Emidio, San Pasquale, San Vito... Dico Santi nostrani perché sono stati fabbricati al mio paese nella bottega di Cristoforo Diddio, il gran falegname di Montemurro che ci torniva le trottóle. Trottole e Santi erano le sue specialità. Fare un bel Santo non è facile; ci vuole un ciliegio, un noce o un pero, stagionati. Anche la trottola non è facile: dev'essere equilibratissima. Come un'elica. Se un'elica non è centrata non tira, non si avvita. Così la trottola: non gira, zoppica, e si sfrulla in un attimo.

Le trottole di Cristoforo Diddio rotavano sul palmo della mano - sapete prendere col laccio una trottola da terra e portarla sul palmo della mano? - fino a tre minuti. Erano incantevoli. I suoi Santi pure erano belli. Somigliavano a lui, San Pasquale, San Domenico, San Vito, ma erano belli lo stesso. Erano più belli dei santi colorati leccesi, di cartapesta. I Santi di Lecce hanno gli occhi belli, proprio dei veri occhi. Gli occhi che Santa Lucia tiene nel palmo della mano venivano da Lecce. I Santi di Cristoforo Diddio hanno gli occhi morti, eppure sono più buoni dei Santi pugliesi. San Rocco, anzi Roque di Montpellier, è venuto da Lecce. È tinto: ha il mantello tinto, il pantalone rialzato sopra il ginocchio e il cane che gli lecca il ginocchio appestato. Perché hanno scelto un Santo patrono degli appestati a proteggere Montemurro?

Il paese deve guardarsi dal piccione, altro che dalla lebbra! E Don Giuseppe Sinisgalli che da quando è tornato dal Brasile ha il compito tutti gli anni di fare il panegirico del Santo il giorno della festa che cade il 16 agosto, non è riuscito mai a spiegarci questo mistero. Roque, Roque, Ro..., Roque di Montpellier, ripete dal pulpito da vent'anni; ma fa una gran confusione. Ora che è vecchio fa una gran confusione tra Montpellier, Rio de Janeiro e Montemurro.

(1946)

09 Dicembre 2011

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