La coperta rossa dell'infanzia
L'infanzia bisogna scontarla con lunghi anni di solitudine. Animali cacciati da quel paradiso, ci ritrovammo fuori dagli alberi a difendere con malizia la nostra nudità. Fu più facile assoggettarci ai patti del demonio, che c'indicò le vie traverse per la fuga. Era un modo di vincere l'orrore di noi stessi, della nostra figura, di perdere i contatti più ambigui con l'innocenza. I muri di cui fino allora non s'era avvertita la vicinanza, i rumori soffocati ad alta notte tra i guanciali, erano i segni dell'assedio che intorno a noi preparavano i giorni. Noi tentammo perfino di rompere a voce alta il cielo della stanza: ma le cose si fecero presenti, le cose contro cui urtavamo ogni momento. Si stabiliva col mondo quel legame che a poco a poco ci avrebbe vincolato ogni passo, e lo spavento di non poter contenere tutto negli occhi, nelle mani. Ho passato così tante estati in una camera grande della casa dove sono nato. Appena a sera i telai ch'erano in un angolo si lamentavano come velieri e l'odore della camomilla appesa alle travi mi faceva fare sogni verdissimi. Le mie sorelle cantavano nella camera attigua sui piedi leggeri. Incominciavo a temere la mia curiosità che sentivo così vicina al peccato. Guardingo all'insolenza dei fiori. Capivo che il corpo andava toccato con molta cautela e che bastava quella porta aperta a rompere i vetri con fracasso.
Come io sia riuscito ad educare i sensi fino al punto di non arrossire più ad ogni ritorno di aprile, non so dire.
Alla solitudine di quegli anni devo le gioie più feroci. Mia madre mi sorprendeva cauta a distendermi sulla coperta rossa del letto e non era ancora la noia. Io andavo di mattina tra le verdure dell'orto a farmi pungere dall'ape regina, a farmi pungere, come i maschi, sulla testa. Ma con l'andare degli anni la solitudine prese per me aspetti più consueti. Un giorno farò la storia delle camere mobiliate nelle città dove ho consumato la mia giovinezza tra vecchie donne capricciose, oggetti usati e la triste luce dei pomeriggi di inverno. Ho vissuto tanto tempo solo con tre donne canute, tre sorelle in un appartamento che trovava sfogo nel cortile di un lattoniere: la sera mi giungeva un rumore di piatti dal piano di sotto e io riuscivo appena a vedere i piedi grossi della fantesca che camminava scalza in cucina.
Dovevo sempre chiudere la porta a chiave perché una delle vecchie aveva la manìa di aprire di sorpresa, affacciarsi e fuggir via a gridare sul letto. Da allora io presi l'abitudine di chiudermi in camera, con grande sorpresa delle padrone di casa che mi ritenevano affetto da lune vergognose. La solitudine è il luogo del demonio. Nelle ore della notte chi ha mai tentato di spostare un oggetto dalle pareti? Chi si è mai accorto di trovare al mattino le calze rovesciate? Una nostra guancia si oscura, noi siamo già dentro la morte a metà. Camminiamo con un piede nell'ombra, proprio come certi funamboli sulla corda, che portano una calza chiara e una calza scura.
Bisogna sapersi muovere tenendo sempre un piede nel bianco a somiglianza dei cavalli sulla scacchiera. Nelle camere dove io ho, abitato non ho chiesto mai nulla al di fuori di una coperta rossa sul letto. Così mi sono illuso di portarmi dietro la mia infanzia. Questo panno rosso fa da richiami alla mia noia: io ci ritrovo la ragione di tutti i vizi dei miei antenati arabi, il sonno, la tristezza del sesso, i rimorsi, e tutto quello che di ilare, di capriccioso nel mio sangue.
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