Editoriale, anno II, numero 4
A.II, n.4 (sett 1965)
La parte del dandy non accresce la statura di Baudelaire. Nel confronto con Pascal e Leopardi sembra un malato immaginario. Baudelaire sembra talvolta imbestialirsi di fronte al dolore.
Neppure noi stessi siamo abbastanza coscienti del valore e del significato di un verso sciatto, flessibile, retrattile contro le misure artificiose dei versi dotti. Sì, Laforgue rimane ancora un punto di riferimento utile per capire una certa prosodia pedestre.
Che scherzo l'insensatezza programmata! Ho visto piangere un ragazzo appena ha potuto riconoscere un riflesso della ragione.
Vicino al fuoco nessuno deve parlare a sproposito. Meglio tacere, dormire. Quando il fuoco parla tutti sono intenti a capire. Quella frase che fu udita a metà quando il portone si chiuse di colpo, quella raccomandazione rimuginata durante tutto il viaggio. Ci furono discorsi sospesi che si conclusero nel giro di anni. La nonna metteva nella valigia un sacchetto di noci, da schiacciare nel cortile del collegio. Abbiamo chiesto al cielo qualche parola. Aspettammo molti mesi in cucina dopo il ritorno del padre - assente per tutta un'era: la sua esistenza pareva una favola - ch'egli cominciasse a parlare.
Il grande Siderurgico riuscì a puntellare la franosa civiltà dei terroni, e a farci capire che non c'era bisogno di miniere per fabbricare il metallo, ma di navi e di forni. Toccava i lingotti come si tocca il cane, il pane. Spostò il centro di gravità della penisola, ebbe il coraggio di portare in riva al mare colline di ossidi, vide silos e ciminiere al posto dei templi. Nel suo studio c'è ancora una sedia con un tavolinetto apribile. Una lavagna, non di ardersia, una lastra di acciaio.
Bisognerebbe distruggere un'opera per correggere anche un piccolo sbaglio di esecuzione. Una materia sovrabbondante nasconde un difetto di linea. Il disegno deve rendere pubbliche le intenzioni
Un errore ripetuto mette sgomento in chi lo scopre. Non si tratta più di una distrazione, di una disattenzione, ma di una deficienza, o peggio, di uno scherzo della natura.
Non si giunge di colpo a convincersi della propria inutilità. La paralisi matura per gradi. Vecchi professori trascorrono le mattinate a lustrarsi le scarpe, o si fanno trascinare sul balcone a leggere gli avvisi mortuari. Sgombrare i vecchi dai condomini miserabili non è facile, non si riesce a trovare un buco dove sistemarli. Alle prime luci già saltano dal letto.
Con la rivoltella puntata nella bocca l'ingegner Iano, costruttore di bolidi, si è fatto saltare il cervello. Pare che sia il mezzo più sbrigativo. La cronaca torinese dice che quella mattina la moglie, uscita dallo studio, era passata in cucina a sciacquare le due tazze di caffè. Per quarant'anni aveva fabbricato macchine da corsa. Prove al banco, prove in pista. I suoi exploits sembravano miracoli. Arrivavano di sorpresa anche a lui che era il primo a sostenere di aver calcolato tutto come fanno tutti, ma di aver dimenticato certamente qualcosa. Non so dirvi che cosa ho trascurato, ripeteva ai giornalisti. Il segreto sta proprio in quello che non vi posso dire perché non lo so. C'è chi sostiene che Iano faceva ricorso ai trucchi. I trucchi fanno parte del giuoco. Quando la posta in giuoco è la vittoria, quando l'etica della gara impone di morire, se mai, ma un centimetro dopo il traguardo, non ci sono più limiti all'astuzia. I nemici di Iano per tutta la vita hanno cercato le sue diavolerie. Se qualcuno è ancora vivo potrà farsi portare sul piatto il suo cranio, così come fece sparire dopo una corsa favolosa la sua vettura alata. L'enigma di certe opere sembra nascosto in un interstizio. Nello spazio che corre tra la punta dello strumento e il segno.
Il decreto parla di due, tre città uguali da costruire nell'immensa selva. E la commissione ha ridotto all'osso il problema, ha trovato i legami tra spazi e tempi geometrici e spazi e tempi biologici. Ha seguito non soltanto i percorsi dei veicoli, ma anche quelli dell'urina, ha studiato gli ambienti di lavoro ma anche quelli dei giuochi, la posizione dei teatri e dei cimiteri. La città è l'immagine della terra, è un pianeta. Divisa in due emisferi, una metà sotterranea, l'altra sopraelevata. L'uomo ha connaturata nel cervello e nel sangue la simmetria. In uno spazio simmetrico l'uomo può fare quasi a meno dei sensi. In un volume doppio, speculare, in un volume che gli concede la libertà di vivere in tre dimensioni, l'uomo perde l'orrore del vuoto, la brama dì evasione, la paura della morte. Si contenta di una boccata d'aria e di un habitat ridottissimo. Pare che la vita media si allunghi prodigiosamente dentro le capsule. L'uomo è nato e cresciuto in caverna, bisogna riconciliarlo con la tana, restituirlo alla madre. Talpa più che uccello. Quando la fisica era la scienza capitale dell'Occidente i grandi spiriti si affannarono a stabilire le leggi del moto e dell'equilibrio dinamico. Noi viviamo ancora di questa eredità. La biologia dovrà garantirci la sopravvivenza dentro una scatola o dentro un sacco. Certo che l'industria chimica (alimentazione, sonniferi, esilaranti) soppianterà l'industria meccanica. L'uomo tornerà a fare piccoli scatti nella placenta. La città, dicono questi soloni, nasce come un atto di violenza contro la natura. La città deve escludere la natura. Quale surrogato, quale metafora, memoria o veggenza, può nella vita tenere il ruolo della natura? Questo davvero sembra il compito dell'arte, merciaia di finzioni.
La ripetizione, dicono gli esperti delle città-multiple, non è una copia ma un'invenzione. Nell'identità è nascosto il germe della sorpresa della meraviglia. Conoscere è riconoscere e tante facezie del genere. Loro sostengono che due, tre città uguali rappresentano un raggiungimento quasi mistico. L'uguaglianza di due o tre oggetti fa scomparire gli oggetti e fa nascere l'idea. Per questo non si sono pentiti di consigliare un unico alfabeto per tutte le lapidi, per tutte le insegne, un unico rettangolo per tutte le finestre, un unico lampione per tutte le strade. Questo criterio guiderà non soltanto la produzione dei chiodi e delle pere, ma anche dei polli e delle tute. La caccia al difforme, al dissimile, al differenziato sarà condotta con lo stesso impegno che mettevano i priori nella persecuzione dei falsari e degli anomali. Dicono i filosofi urbanisti in coda al loro programma che alla religione dello slancio, dell'impeto, dovrebbe finalmente succedere la religione dell'immobilità. Non la luce sulla fronte, ma sull'inguine, come scriveva l'ancella di Alessandro. L'indù la sa molto più lunga del cristiano. L'uomo per vivere tranquillo deve trovare il tempo di lavarsi i piedi, di andare di corpo regolarmente. Sembra un versetto del Corano o di Pitagora.
La guerra si arroventa tra la realtà e i segni. Il poeta rinuncia al possesso delle sue armi. Non vuol significare, non vuol più capire né farsi capire. Riduce i suoi sforzi al minimo. Come un selvaggio che invitato a un festino comincia a divorare forchette e bicchieri. O come un verme a cui basta un solo orifizio per inghiottire ed espellere. Quel matto che preferì bruciare vivo ella sua casa piuttosto che rassegnarsi ad adoperare le chiavi!
Il rifiuto dei segni come il rifiuto delle regole rende impossibile il giuoco. Bisogna giocare insieme. Se no mettiamoci tutti in fila con le spalle al muro e sparare pugnette alle mosche.
In un laboratorio, oggi più che mai, sono gli strumenti che contano. Si tratta di aghi lunghissimi e sottilissimi, lunghi e sottili come i raggi del sole, da infilare nell'intercapedine, tra un più e un meno.
Il poeta fanciullino si batte alla ricerca di un codice segreto. Una chiave è nascosta in ogni cantonata. Disperiamo di poter aprire tanti tabernacoli.
Archimede non ci ha chiesto di salvargli la vita ma di non pestare i suoi circoli.
La pagina bianca di Mallarmé è diventata una pagina sporca. Basta poco a trasformare un campo in una pietraia. Si disse allora da chi trovò un triangolo segnato sulla sabbia: qui c'è passato un uomo.
La vera intelligenza ha spesso lo sguardo idiota, la voce stonata, il gesto inconsulto. Non vi aspettate la battuta pronta, il colpo infallibile, la lama affilata. L'intelligenza si lascia raggirare dalla furbizia, umiliare dalla stupidità. L'intelligenza raduna le forze passive, latenti, gli stati d'inerzia, gli stati letargici, i depositi di memorie, le energie raminghe, le cariche inesplose.
Il disegno deve correggere l'ottusità del design, così come l'istinto deve continuamente allargare gli argini della raison. Rimuovere i dogmi, flettere le metriche, scongiurare la mummificazione. Il disegno deve riempire il vuoto di tante belle forme preconcette. Il disegno deve dar vigore ai vasi mani. È la vocazione perenne alla sregolatezza che stringe patti col rigore. (l. s.)
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