Editoriale, anno I, numero 2
A.I, n.2 (set 1964)
Lo stagnino di Montemurro non fabbrica più lucerne, fa l'elettricista. Il bottaio non fa barili, fa l'idraulico. Il ciabattino vende le scarpe di Vigevano. Il sarto espone il manichino dell'uomo in Lebole. Il falegname è diventato un rappresentante. Solo Leonardo Defina batte il ferro rovente nella sua mascalcia.
Il Sindaco comunista del mio paese mi spiega che non è riuscito a trovare una formula legale che lo autorizzi a sopprimere i cani randagi. Non il veleno, non il fucile, e neppure la fame e la sete. "Li ho tenuti per qualche giorno in uno stanzone del municipio, ma poi ho dato l'ordine di rimetterli in libertà".
Mia sorella ha trasformato la mia casa natale in un gallinaio. Le travi spezzate possono reggere appena il peso di una chioccia e venti pulcini. "Quando verrai la prossima volta la troverai in fondo al fosso di Libritti". "Rimarrà la facciata" dico io. Anche la casa di Rocco Scotellaro a Tricarico è stata data in affitto. Volevamo visitarla, non ci è stato possibile. La vecchia madre e la sorella vedova piangono insieme Rocco e Nicola e tanti altri defunti. Ma hanno lacrime più scarse per il Poeta. I poeti, vivi o morti, creano seri imbarazzi nelle famiglie.
È vero che le donne meridionali si sentono già vedove in pectore appena si sposano. La madre, certo, tende a ridurre al minimo la potestà del padre, tende a scavalcarlo, a soppiantarlo. Il padre in casa è un triste ingombro, meglio che si esili, che emigri, che parta, che crepi. I figli imparano presto a dimenticarlo. E se torna, se vive, deve contentarsi di un cantuccio sulla loggia o in cantina. La madre penserà a sfamare i figli, a scegliere un mestiere, a sposarli. Sarà lei a parlare con i maestri, a lesinare il centesimo, a smazzare. Il padre non potrà più aprire bocca. Guai a lui se per caso azzarda un rimprovero, se per caso lamenta un mal di pancia. Eccolo lì accasciato nel lavatoio mentre i giovani ridono e applaudono la madre-serva-belva che porta a tavola fumanti "orecchiette".
A Matera i Sassi sono quasi deserti. Il Caveoso e il Barisano giacciono spogli come sepolcri. La Gravina è secca sotto le rupi, le cornacchie cercano ossesse un filo d'acqua. C'è una squadra di fanciulli che dà la caccia alle zoccole rimaste ancora a frugare nelle grotte abbandonate. I vicinati sono muti, imbiancati. Qua e là una donna seduta sbuccia patate, un'altra cuoce le spighe di granturco, una bimba mette le mandorle al sole. I pochi uomini superstiti si aggirano silenziosi come becchini in un cimitero dove i morti, improvvisamente, sono scappati via.
I cavernicoli sono quasi tutti stati sradicati dai Sassi. Le porte sono murate. Ma anche La Martella e gli altri borghi nuovi sono semivuoti, disabitati. Hanno abbandonato le stalle e i "quartini" per fuggire in Australia, in Svizzera, in Germania. Hanno lasciato le vigne, gli ulivi, le quercie, i campi per andare a lavare i piatti e le latrine, per spennare migliaia di polli di allevamento, per impacchettare pentole e padelle nelle fabbriche.
Mio nipote, laureando in geologia (una laurea che oggi, da noi, dopo la morte di Mattei, vale poco o niente) ha avuto l'incarico dell'insegnamento di matematica e di "osservazioni scientifiche" preso la scuola media unica del paese. Ha due classi di una trentina di allievi ciascuna, situate nei cadenti palazzi delle antiche famiglie di notabili borbonici o di galantuomini rivoluzionari. In piazza, sotto gli alberi, oltre i cani, sono tutti professori e studenti: qualche raro campione di vignaiolo o di contadino o di artigiano, e una diecina di insegnanti delle elementari arrivati da Gallicchio, un paese qui vicino che sforna pedagoghi e capimastri. Quest'anno aspetta la riconferma dell'impiego ma ha come concorrenti temibili i veterinari e i farmacisti della zona. Veterinari e farmacisti possono avere la preferenza nell'insegnamento dell'algebra e della geometria. Molti studenti, appena usciti dal liceo sono già in cattedra. Mi dice che i nostri ragazzi sono intelligentissimi. Ma che faranno poi? Dove andranno? Pochissimi potranno rimanere qui. Don Vito, il mio maestro, per diletto o per necessità, si faceva le scarpe e i vestiti. Mio nipote mi racconta che questi suoi alunni non amano molto la grammatica e il latino, ma vanno pazzi per la storia naturale, portano in classe certe mattine far-falle, uccelli, serpenti e una volta portarono perfino un vitello.
Chi non è stato a Gannano conosce poco degli uomini e della vita degli uomini. Gannano è il più basso del paese, il più antico. A Gannano, dunque, c'è la Piazza degli Uomini. Su queste di pietra sconnessa, al ritorno dalla campagna i vecchi fumano chini qualche mozzicone di sigaro e chiacchierano, mentre bolle la pignatta di ceci per la cena.
Ancora i tuoni all'alba per il Santo dei carbonchiosi, la borraccia, la mazza, il cagnetto lecca-piedi: mattinate da terremoti, trombe e belati e i morti dimenticati.
Re idiota, sgorbio del creato, fantastico paramosche, ciuccio beato.
"Vieni a morire con noi", quasi mi irridono se mi commuovo. "Sempre più uguale a tua madre". Mi disintossico con bottiglioni d'acqua me teorica. Mi gonfio, mi sgonfio. Apro la mia casa fradicia, si avventa contro i vetri la gatta 'mbilatora. Qualche postilla medita: il callista ha il trono in piazza, un topo macina le mie carte giovanili.
Ho cambiato forse l'occhio con la coda, ho detto forse a un pazzo vieni in casa?
Luna d'agosto raduna il grano e fa crescere il mosto (l.s.)
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