I nuovi Campi Elisi (1947)
I
Lucania
Al pellegrino che s'affaccia ai suoi valichi,
a chi scende per la stretta degli Alburni
o fa il cammino delle pecore lungo le coste della Serra,
al nibbio che rompe il filo dell'orizzonte
con un rettile negli artigli, all'emigrante, al soldato,
a chi torna dai santuari o dall'esilio, a chi dorme
negli ovili, al pastore, al mezzadro, al mercante,
La Lucania apre le sue lande,
le sue valli dove i fiumi scorrono lenti
come fiumi di polvere.
Lo spirito del silenzio sta nei luoghi
della mia dolorosa provincia. Da Elea a Metaponto,
sofistico e d'oro, problematico e sottile,
divora l'olio nelle chiese, mette il cappuccio
nelle case, fa il monaco nelle grotte, cresce
con l'erba alle soglie dei vecchi paesi franati.
Il sole sbieco sui lauri, il sole buono
con le grandi corna, l'odoroso palato,
il sole avido di bambini, eccolo per le piazze!
Ha il passo pigro del bue, e sull'erba,
sulle selci lascia le grandi chiazze
zeppe di larve.
Terra di mamme grasse, di padri scuri
e lustri come scheletri, piena di galli
e di cani, di boschi e di calcare, terra
magra dove il grano cresce a stento
(carosella, granoturco, granofino)
e il vino non è squillante (menta
dell'Agri, basilico del Basento!)
e l'uliva ha il gusto dell'oblio,
il sapore del pianto.
In un'aria vulcanica, fortemente accensibile,
gli alberi respirano con un palpito inconsueto;
le querce ingrossano i ceppi con la sostanza del cielo.
Cumuli di macerie restano intatti per secoli:
nessuno rivolta una pietra per non inorridire.
Sotto ogni pietra, dico, ha l'inferno il suo ombelico.
Solo un ragazzo può sporgersi agli orli
dell'abisso per cogliere il nettare
tra i cespi brulicanti di zanzare
e di tarantole.
Io tornerò vivo sotto le tue piogge rosse,
tornerò senza colpe a battere il tamburo,
a legare il mulo alla porta,
a raccogliere lumache negli orti.
Vedrò fumare le stoppie, le sterpaie,
le fosse, udrò il merlo cantare
sotto i letti, udrò la gatta
cantare sui sepolcri?
Il tuo grido non arriva fino a me
neppure in sogno. Non arriva una piuma
del tuo nido su questa riva.
che aspetti i muli sulla porta
e avvolgi le mani nei panni,
leggi nel fuoco le risse
che disperdono i tuoi figli
ai margini delle città?
Un abisso ci separa, una fiumana
che scorre tra argini alti di fumo.
Sono queste le tue stelle,
è il vento della terra
è la nostra speranza
questo cielo che accoglie le tue pene,
la tua volontà, la tua domanda di pace?
Tu vivi certa della tua virtù:
hai vestito i cadaveri variopinti
dei padri, hai trovato ogni notte
la chiave dei nostri sogni,
hai dato il grano per la memoria dei morti.
Noi aspettiamo li tuo segnale
sulla torre più alta.
Tu ci chiami. Sei tu
la fiamma bianca all'orizzonte?
Un'estate di lutti
ha rimosso nel ventre le antiche colpe,
ha cacciato i lupi sotto le mura dei paesi.
I cani latrano al sole di mezzogiorno,
la civetta chiede ostaggi per il lugubre inverno.
Tu ascolto, madre mia,
il pianto sconsolato delle Ombre
che non trovano requie
sotto le pietre battute
dal tonfo di fradici frutti.
Ecco l'agro, il verde stento, il fiume
che ha preso il colore dei cocci.
Da anni io non guardo che lapidi
sui lembi delle facciate e delle grotte:
scritte nel vano bianco
dalla mano di un angelo calligrafo
ricordo le belle maiuscole, le eterne
parole, e un solo nome, Prisca
che dorme giovinetta con le Muse.
Accatastati sui muri di una chiesa
davanti alla Fontana di Trevi
(Il Tempo ha le zampe di gatto,
ha i denti dei gatti romani)
chi ha deposto i cuori dei Pontefici?
Santa Teresa ha il manto che trasuda
quando a settembre lo scirocco
risale dalla costa africana
e dà un timbro diverso alle campane.
La città ruota come una meteora
alla luce del tramonto: i tarli
crepitano nei soffitti delle dimore
dei vescovi, scendono dai muri
delle case d'affitto degli scarafaggi.
Michelangelo tra queste macerie
cercava la testa bianca di Apollo.
sa di aver toccato la luce
fino all'osso, ricorda i capestri,
i catafalchi, le camere di tortura,
l'odore di strame che colpisce
il pellegrino alle tue porte.
ragazzo pieno di sonno e di appetito.
Fui un giovane letargico
che si nascose a leggere nei tuoi giardini
in compagnia delle statue.
per pascere il io tedio
di mussulmano avido di odori.
Chi avrebbe potuto batteezzarmi
alla tua fede, frustare i miei panni,
quale Vergine poteva carezzarmi i capelli,
quale Benedetto, quale Pio,
avrebbe accettato il dono dei galli
ch'io portai nel paniere?
Ho ignorato per anni la tue cattedrali.
Mi ricordo una sera
che vidi spaccare in Via Baccina
un agnello sul tagliere.
Oggi cammino più lesto sui tuoi ponti
in compagnia di Raffaello.
So quando fioriscono al Pincio
le mimose, quando gelano i carrubi,
conosco la forma delle tue rose,
delle tue nubi. Ho visto i cavalli
scintillanti guardare il cielo
sui terrazzi, i santi sui parapetti,
le donne dai petti mostruosi, le rondini,
i ragazzi sulle rive dell'Aniene.
Conosco il bene di tanta bellezza.
Sono questi i mirti
che scrollano polvere se li tocco,
sono queste le pietre della giovinezza.
Quando partisti, come è nostra usanza,
inzepparono la cassa dei tuoi piccoli oggetti cari.
Ti misero l'ombrellino da sole
perché andavi in un torrido regno
e ti vestirono di bianco.
Eri ancora una bambina,
una bambina difficile a crescere.
Pure fosti accolta con rassegnata dolcezza,
custodita e portata alla luce
come matura la spiga in un campo esausto.
Io ricordo, sorella, il tuo pigolío
quando ti chiudevi a piangere sulla loggia
perché volevi andare sul tetto a stare.
Eri felice soltanto se potevi sollevarti un poco da terra.
Ti misero nella cassa gli oggetti piú cari,
perfino una monetina d'oro nella mano
da dare al barcaiolo che ti avrebbe accompagnata
all'altra riva. Noi restammo di qua
nella grande casa che tu sapevi rivoltare come un sacco.
Per un po' di giorni nessuno ebbe voglia di riassettarla.
Ci raccogliemmo intorno al camino
pensando al tuo grande viaggio,
alla tristezza di mandarti sola in un paese sconosciuto.
La nonna stava ad aspettarci da anni.
Da anni nessuno di noi era stato chiamato.
Nell'immensa plaga, in quella lunga quarantena
come avete fatto a riconoscervi?
Ti avevamo messo dentro la cassa gli oggetti piú cari,
il tuo ombrellino, il tuo pettine, un piccolo mazzo di fiori.
Mia madre ti seguiva ad ogni tappa, dalla casa
alla chiesa, dalla chiesa al cimitero.
Dava ricetto nella sua stanza ad ogni farfalla,
e tenne per lungo tempo la casa aperta
nella speranza che tu potessi tornare.
Un giorno una donna venne a bussare alla porta,
a dirci che ti aveva sognata.
La donna aveva una bimba malata, una tua compagna,
e tu l'avevi visitata.
Parlasti in sogno a quella donna, chiedesti qualcosa
che ella non sapeva: perché non sentiva in sogno
e tu parlavi e pareva che chiedessi una cosa
che nella confusione del distacco era stata dimenticata.
Mia madre rovistò tra le tue carte,
stette a lungo a cercare i tuoi quaderni a uno a uno.
Guardammo per l'ultima volta
la tua scrittura tenera, il tuo esile nome
scritto dalla tua piccola mano.
Furono legati con un nastro bianco i tuoi quaderni
che avevamo dimenticati. La bambina te li avrebbe portati.
Aggiustammo i tuoi quaderni nella cassa
della compagna che tu avevi prediletta.
Anch'essa venne vestita di bianco
nel torrido regno da cui nessuno è mai tornato.
16 settembre 1943
Mia madre diceva il 16 settembre,
poco prima di morire sulla mezzanotte,
che una pulce la pungeva sulla schiena
una pulce pesante come un cavallo.
Una zampa oscura la premeva sul letto.
Mia madre doveva sudare per resistere,
e spirare bocconi, senza aver trovato la forza
di dire una preghiera.
Sono tornati i fiori sulla loggia,
più nessuno li ha innaffiati.
Hanno rimesso i ferri ai puledri
e i giorni si sono consumati.
La brutta bestia miagola ancora
tra le crepe della vecchia casa.
Una sera del mese di agosto
noi stavamo sul terrazzo
a guardare in cielo l'immenso vespaio.
Il vento di agosto che distoglie la pula
dal grano e dà l'ebbrezza ai trebbiatori
incappucciati sulle aie,
e fa splendere le pale sulla paglia,
schiariva ai nostri occhi la speranza
di una pace sudata. Mio padre
si addormentò sulla sedia
al soffio di quell'aria serena.
Mia madre parlò a me che fumavo:
"L'acqua torbida" disse "scorre avanti
all'acqua sincera, il fiume
trascina la verità".
Nasce ogni sera dalle crepe dei muri
il canto della bestia che non si è addomesticata.
Gufo o donnola, civetta o faina,
mezzo mammifero, mezzo uccello,
stermina le galline, lacera le lenzuola nelle casse.
Non è gatto, non è gallo, è demone
che si nasconde nei solai,
che vuole il fumo la penombra i calcinacci,
e ha ribrezzo delle foglie;
animale legato alle pieghe dei panni,
all'odore dei morti.
Mio padre siede a mattutino
sulla pietra del focolare.
La gente va e viene con le bottiglie
nascoste negli scialli a cercare aceto
per combattere l'afta.
Le donne parlano dei porci
alle vicine, dei porci puliti come cani
e allevati sotto i letti.
Epidemie di buoi di pecore di galline.
Sono i segni della fine?
Li enumerano le donne
che si sono sedute sulle fascine
attorno al fuoco a commemorare mia madre.
II
Circonvallazione Clodia
Porta il mite febbraio
la nottola sui prati
e le gemme alla siepe.
Già spuntano dai viottoli
i ragazzi beati. Piazza
Bainsizza è stellata
di negri che giocano maldestri
con le micce dei razzi.
Appesa ai rami è una palla di stracci.
E il Tevere di sera ci trascina
sciami confusi d'insetti.
L'odore vago delle terre
s'alza fin sotto i tetti
dov'io mi affaccio col muso
imbronciato a guardare la luna
nella cruna di un ago.
Il ponentino fa tinnire
i grappoli bianchi dei sambuchi.
I fanciulli accendono i fuochi.
Cresce il fumo e l'acre velo
mi esclude un lembo di cielo
come il dolore e le lacrime.
Tu canti e più ti sprofondi
voce antartica di questi luoghi
roca rana di palude.
La sera dell'Ascensione
i fanciulli accendono i fuochi
per gonfiare i palloni di carta.
Pendici di Monte Mario
Affiorano i ciottoli chiari
tra l'erba delle colline.
Già le foglie si accartocciano
sugli alberi intorno alla città.
Il primo colpo di scure è arrivato fin qua.
Vecchia strada perduta
nella selva della mia gioventù.
sotto l'arco di pietre
il cancello è stato strappato,
la sentinella non vigila più.
Dove sono gli amici? sono passati?
sono arrivati sul colle lassù?
C'è qualcosa di nuovo nell'aria
di questo mattino: gli alberi calvi,
il cielo che s'affumica in un lampo.
Mi sporgo sopra un cespo di fiori
lucenti, mi allungo sul folto biancospino.
Una raffica di colpi mi spezza
i fianchi, grido aiuto. Nessuno
accorre sul campo
dove sono caduto.
Mi peserà sul petto tutta notte
la Montagna di cocci
se l'angelo del sonno
non s'accosta col piede
tondo sopra i vasi rotti.
Come suona sinistro
il tuo vento quaggiù
città arcan,
come scroscia incantevole
sul femore la fonte
e la cascata di serrande!
Sbatte leggera
controvento la nottola,
sbattono tra i pali
dell'orto le sue ali.
Cadono sull'acqua ghiaccia
della peschiera
i petali secchi delle rose.
Scura è la tramontana
che scuote la terra nera.
Oh, i folli voli tra il letto
e la finestra, l'immensa distanza
percorsa, il viaggio tra quattro
mura di una stanza!
Da tempo il treno ulula qui dietro
e tra i rami s'impiglia il gufo
amico.
Oggi nessuno sa
se il tempo viene o va.
Un uomo è steso vicino al cane
che gli morde l'orecchio. Un uomo
nudo che ha il volto coperto
di uno straccio scarlatto.
Lo bruca il cane come se fosse morto.
L'uomo giace supino sulla ghiaia
del mattino deserto.
Passa la gente e trova
che ha un altro senso la città.
Ma nessuno sa bene
se il tempo va o viene.
Girano le due sacche sulla riva,
girano a vuoto e non cade
un pesce o una farfalla nelle reti.
Il cane abbaia:
pace o guerra c'è il verde sulla terra.
E l'acqua muove le bilance
a stento, ché il fiume è troppo lento.
Fido ha le natiche grasse.
È un vecchio cane di chiesa
che siede sotto gli altari.
Ha perso il fiuto, ha le zanne smosse
e col muso più non si gratta.
Gli fa paura una gatta,
ma è qui alla messa di requie
per le ossa di mia madre.
Ha allungato la testa tra le zampe,
ha cacciato la lingua: di colpo
ingoia un moscone che l'annoia.
Due fiammelle
Voi lasciaste una stella
oscura nei miei occhi,
l'odore degli inverni
tra le pagine estinte
dei miei vecchi quaderni.
Io vissi dentro il cuore
del vostro cielo ardente
e bruciai come voi
la mia vita per niente.
La luna nuova di settembre
La luna nuova di settembre
ha cacciato i ragazzi sulla via.
Soffiano nelle mani, un po' vili
un po' pazzi, rifanno il verso
alla puzzola che si duole.
Ruzzolan nei cortili
tra i rovi e i calcinacci
a far razzia.
Hanno le ali ai piedi,
stringono le uova calde nelle tasche.
Li asseconda la luna che addormenta
i guardiani sulle frasche.
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