Gli architetti B.B.P.R.
Gian Luigi Banfi, Lodovico Barbiano di Belgiojoso, Enrico Peressutti ed Ernesto Nathan Rogers.
Questo articolo è stato pubblicato in: "Comunità", n. 8, anno 1950, pp. 50-53. Una riedizione dell'articolo è in: M. Fabbri, A. Greco, L. Menozzi, E. Valeriani (a cura di), L'immagine della comunità. Architettura e urbanistica in Italia nel dopoguerra, con introduzione di A. Quistelli, Istituto Universitario Statale di Architettura R.C., Casa del libro editrice, Roma, 1982.
Si ringrazia il dr. Domenico Bentivenga per aver trascritto e inviato l'articolo.
L'architettura, morta come artigianato sublime, vive allargando il suo dominio dentro gli organismi della società e dello stato moderno. L'architettura deve provocare delle Leggi, deve fornire alla collettività le garanzie strumentali di una vita migliore.
Con un'edicola funeraria molto ardita, una gabbia reticolare di ferro e marmo, gli architetti Belgiojoso, Peressutti e Rogers hanno reso il loro fraterno tributo alla memoria di Gian Luigi Banfi, morto nel campo di concentramento di Mauthausen nel 1945. Il quadrato si è rotto, ma nello stu-dio di Via dei Chiostri, a Milano si lavora ancora come ai tempi della giovinezza. Nessun sodalizio d'arte e di affetto è stato mai così fruttuoso e concorde. Forse i giovani architetti brasiliani, riuniti intorno al pittore Portinari, e gli allievi di F. L. Wright a Taliesin collaborano con eguale entusia-smo e disinteresse. Ora i tre amici non sono più ragazzi. Hanno circa quarant'anni. Ma a star dietro al loro curriculum si rimane sorpresi e ammirati dell'attività prodigiosa svolta in un periodo relati-vamente breve. Essi sono nostri coetanei, sono della generazione dei poeti ermetici. Eppure hanno girato mezzo mondo, hanno vinto molti concorsi, hanno partecipato allo studio di tre o quattro Piani Regolatori, allestito mostre ed esposizioni, hanno insegnato all'estero, hanno diretto Riviste di architettura e collane di libri.
Se si fa il conto degli edifici compiuti si resta un po' delusi. Ma anche Rudofsky ha costruito in trent'anni soltanto due case, una a Napoli e l'altra in Brasile. Anche Le Corbusier ha fatto - in confronto a Piacentini o Muzio - pochissimo. E Neutra deve cercarsi i clienti viaggiando in aeroplano tra l'Europa, l'America e il Giappone. L'architettura moderna, in verità ha vinto la sua battaglia sulla carta: come la poesia ermetica e la pittura cubista e la musica dodecafonica. Sfogliate le storie letterarie, visitate le Gallerie, andate ai Concerti. La cultura ufficiale e i Governi ignorano, tanto a Roma quanto a Parigi o a Washington, gli sforzi e le conquiste dell'intelligenza. Ma non soltanto i Ministeri e gli altri Enti parastatali continuano a fabbricare secondo il loro genio (il Genio Civile); ci sono gl'Istituti bancari e di assicurazione, le società industriali e le imprese private e perfino i denarosi Committenti (i pescecani di tutte le guerre vinte o perdute) che preferiscono ancora un barocchetto o la maniera anonima dei Manuali e dei prontuari o un allegro adattamento "novecentesco" allo stile franco degli architetti moderni. La ricostruzione di questo dopoguerra ci ha tolto le ultime illusioni. I recenti misfatti perpetrati nel cuore di Milano o nella zona dei Parioli a Roma, e i tristissimi parallelepipedi che ci capitano sotto gli occhi viaggiando in ferrovia, non ci promettono smentite o conversioni. Per questo Le Corbusier o Gropius, Breuer o Bill, Gardella o Cosenza, per questo gli amici B.B.P.R.. si trovano ancora a far parte di una minoranza davvero esigua. Hanno dovuto spendere il loro tempo migliore a predicare. È stato più facile convincere gl'industriali, i costruttori di automobili o di apparecchi radio, di lampadari e di pipe, di sandali o di attaccapanni che non i Municipi e gl'impresari. Ma la scarsità della clientela non ha minimamente smussato la volontà e i propositi delle animose avanguardie.
Molti si fanno un'idea sbagliata dell'artista moderno. Lo vedono come un eroe marinettiano in lotta contro la tradizione, un dinamitardo che nasconde macchine infernali sotto i templi e le colonne, un fanatico pronto a cedere il Partenone e la cupola di San Pietro per un croquis di Mondrian o di Klee o di Kandinsky. È utile ripetere che le rivoluzioni del gusto e dello stile si fanno con gli spostamenti talvolta infinitesimali degli schemi classici. E che nel mistero dell'istinto plastico e compositivo trovano la loro validità le pietre dell'isola di Pasqua e le colonne di Paestum, i nodi di Bill e i serbatoi di petrolio. Le Corbusier ama i greci, come Gropius ama i goti, come Wright ama le pagode orientali. E i nostri amici, B.B.P.R., dimostrano un entusiasmo, forse perfino eccessivo, per il rudero, per il calco, per il relitto archeologico. La loro cultura, voglio dire, è rigorosa e devota. Basta conoscere gli effettivi lavori di restauro condotti sotto la loro regia, il chiostro di San Simpliciano, il complesso bramantesco di Via Bigli, il riadattamento dei musei al Castello Sforzesco, per rendersi ragione non soltanto della loro bravura di tecnici ma della coscien-ziosa preparazione filologica. Si potrebbe perfino dare come carattere differenziale del loro gruppo questa specie di idolatria della cosa perfetta, della cifra esatta, del segno giusto.
Essi amano - e sembra un paradosso poter attribuire ad artisti così dinamici, così vivi, una simile definizione - essi amano una certa immobilità, una certa mummificazione o fossilizzazione dell'oggetto e dell'edificio. Ma non deve parer strano. Gli apporti della tecnica, della bruta materia, sono trascurabili o addirittura ovvi nella precipitazione del fenomeno creativo. Essi aspirano a disegnare il prototipo, il modello: il prototipo del cucchiaio, o dell'infisso, o della casa. Qui stanno le radici del loro platonismo, della loro simpatia per lo standard. Infine essi amano, forse, più le idee che gli oggetti. Vorremmo quindi che fosse chiara questa loro posizione di chierici, di evangelisti magari, più che di fabbri o muratori. Dei dogmi sacri del funzionalismo Rogers ci ha offerto delle interpretazioni tra le più ortodosse: egli che è certo il teologo della brigata.
Abbiamo sotto gli occhi una conferenza che Rogers lesse a Zurigo il 3 novembre 1946. Tra le righe abbiamo intravisto un superamento della fase estatica, dell'abbaglio della forma splendida e pura. L'architettura, morta come artigianato sublime, vive allargando il suo dominio dentro gli or-ganismi della società e dello Stato moderno. L'architettura deve provocare delle Leggi, deve forni-re alla collettività le garanzie strumentali di una vita migliore. È superfluo quindi confermare che l'applicazione più utile dell'energia inventiva del gruppo si è svolta secondo questa linea: 1933, Piano Regolatore di Pavia; 1936, Sala Coerenze alla VI Triennale di Milano; 1936-37, studio del Piano Regolatore della Val d'Aosta (in collaborazione); 1937, studi di urbanistica agraria; 1939, ca-se popolari a Varese; 1939, piano turistico dell'isola d'Elba; 1940, Case Popolari a Vigevano; 1945, studio di un Piano Regolatore per Milano (in collaborazione); 1947, sezione della Teoria dell'Abitazione all'8° Triennale; 1947-50, case per impiegati e operai al quartiere Sempione a Milano.
Entro questa massa di lavoro s'inserisce nel 1936 - e potrebbe sembrare una premessa, un'anti-fone, ed è invece soltanto un episodio felicemente superato, un sintomo di paralisi più che di vita-lità, un dolce incauto, un giovanile errore - la raccolta documentaria Stile per l'Editoriale Domus. Tutta quella carta millimetrata che vorrebbe suggerire accorgimenti microscopici nella lettura dei Tabù (la foglia e Chartres, Piero della Francesca e Bibiena, l'epigrafe etrusca e Platone) non fa che coprire e rendere più oscura l'essenza del capolavoro compiuto. Gli occhi di Apollo ingranditi in copertina sono gli occhi di un dormiente, occhi senza pupille. E l'insieme delle immagini sono re-almente la sequenza di un sogno che lascia nell'anima troppa disperazione, perché dove si insinua la divinità coi suoi attributi di eccessiva perfezione è davvero difficile che vi penetri l'uomo con le sue misure.
Questa stagione, ripeto, fa parte della preistoria nello sviluppo e nella conclusione di interessi che hanno riportato i nostri amici tra noi. Ho sotto gli occhi una paginetta che dice molte cose appassionate riprendendo come refrain una frase di Ruskin: "la formica e il tarlo hanno una cella per ciascuno dei loro piccoli, ma i nostri piccini giacciono in mucchi infetti, in case che li consumano come tombe". Non dico che si debba vedere il destino dell'architettura esclusivamente sot-to quest'angolo, come dire?, socialista e romantico, ma è innegabile che gli architetti Belgiojoso, Peressutti e Rogers, sembrano tra i più preparati, i più disposti all'urgenza dei nuovi còmpiti.
Museo monumento della deportazione di Carpi del 1973: Sala dei Nomi.
Progetto dello studio BBPR.
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